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I lefebvriani

Ultimo Aggiornamento: 18/02/2013 22:40
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24/03/2009 21:42
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Pretendo il mea culpa da chi diceva che Benedetto XVI non è amico degli ebrei

La straodinaria lettera del Papa sul caso dei lefebvriani dà ragione a chi, per esempio Jacob Neusner, ha sempre sostenuto che è proprio grazie a uomini come Ratzinger che il dialogo fra ebrei e cristiani vive e prospera

di Giorgio Israel

È un documento davvero straordinario e destinato a passare alla storia la lettera di Benedetto XVI ai vescovi della Chiesa cattolica circa la remissione della scomunica ai quattro presuli consacrati dall’arcivescovo Lefebvre.
Lo è in primo luogo per la chiarezza assoluta con cui viene esaminato il caso in tutti i suoi risvolti, anche a costo di affrontare la polemica e pronunziare giudizi crudi. Non un dettaglio è trascurato (persino il ruolo di internet), non un aspetto è lasciato in ombra, in particolare per quel riguarda le implicazioni scandalose del caso Williamson derivanti dalle sciagurate dichiarazioni negazioniste sulle camere a gas. Ma lo è soprattutto per il tono appassionato con cui il Papa ha messo a nudo il suo animo e le intenzioni che lo hanno guidato nell’affrontare questa vicenda. Ne discende che aveva ragione chi, nelle tempeste di questi ultimi mesi, ha sostenuto che i rapporti ebraico-cristiani non erano compromessi in alcun modo dalle scelte di Benedetto XVI.
Il rabbino Jacob Neusner, con le cui tesi il Papa aveva intessuto un dialogo teologico nel suo Gesù di Nazaret, ha sostenuto, al contrario, che è proprio grazie a uomini come lui che il dialogo ebraico-cristiano vive e prospera. Egli ha riconosciuto la bontà delle intenzioni del Papa, osservando che il nuovo corso iniziato con il Concilio «è stato riaffermato nella risposta che con cuore puro il Papa ha dato alla mia conversazione immaginaria inserita nel mio libro». È un corso che potrà avere intoppi, ha dichiarato Neusner, ma è irreversibile. E la stragrande maggioranza dell’ebraismo mondiale ha aderito a tesi simili riprendendo in pieno il cammino del dialogo.
È anche la tesi sostenuta ripetutamente da chi scrive, insieme ad altri ebrei italiani come Guido Guastalla, e che ci è costata una serie di nutriti lanci di pietre. Sarebbe preferibile non parlare di casi personali in una rubrica, ma ci sono circostanze in cui si ha diritto a togliersi dalle scarpe qualcuna di quelle pietre. Quando sostenemmo che la nuova preghiera del Venerdì santo non doveva essere intesa come un arretramento verso una logica di conversione forzata qualcuno ci trattò come “ebrei di corte”. Quando venne avanzata la proposta di interrompere il dialogo ebraico-cristiano manifestammo in modo pacato il nostro dissenso. Apriti cielo. Alcuni esponenti dell’ebraismo italiano, presumendo di avere un’autorità dogmatica, ci attaccarono in modo violento, nello stile “taci tu, ché soltanto io ho il diritto di parlare”. Poi venne il caso Williamson e fummo tra i primi a chiedere il massimo di chiarezza, certi che sarebbe venuta proprio dal Papa, proprio perché eravamo convinti della trasparenza delle sue intenzioni.
Allora è venuta una scarica di legnate da parte di alcuni cattolici convinti che per dimostrare di essere tali bisogna eccedere in zelo e mostrarsi fanatici: presuntuosi e arroganti ebrei che “attaccano” il Papa, è stato detto, proprio a chi lo aveva difeso da attacchi infondati.
Ora, dopo che proprio dal Papa è venuta la conferma più autorevole che era giusto quanto venivamo dicendo e che i fatti hanno dimostrato quanto fossero ingiuste e detestabili quelle scariche di pietre provenienti da entrambi i lati, sarebbe naturale ricevere delle sentite scuse. Ne è venuta una soltanto, e da una persona che ha avuto un ruolo secondario nei lanci. Troppo poco. Quantomeno ci si attenderebbe un decoroso silenzio. Ma, si sa, un bel tacer non fu mai scritto. Difatti, alcuni dei protagonisti di quelle incivili aggressioni si stanno attivando per proporsi come protagonisti del rinnovato dialogo ebraico-cristiano… No comment.

© Copyright Tempi, 24 marzo 2009


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