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I lefebvriani

Ultimo Aggiornamento: 18/02/2013 22:40
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Perché il Papa difende la tradizione

di Redazione

Papa Benedetto ha posto la lettera ai vescovi cattolici sotto l’insegna dell’invito di San Paolo nella lettera a Galati a «non mordere se stessi».
È un documento singolare perché non è né dottrinale né disciplinare e si rivolge ai vescovi non come istituzioni ma come persone. Li invita a non fare dell’odio lo strumento della motivazione del loro compito nella vita della Chiesa.
Secondo il Papa la comunità di Econe è diventata un capro espiatorio, l’indicazione di ciò che va rimosso per garantire la purezza della Chiesa conciliare nella sua rinnovata identità. Ciò indica la presenza della tendenza a intendere il Vaticano II come un nuovo inizio della Chiesa, la rivoluzione della modernità compiuta oltre le istituzioni della controriforma. Significa annettere alla Chiesa il concetto moderno di rivoluzione, cioè quello di una identità ritrovata mediante la negazione e la rimozione della Tradizione, per cui il passato diviene, per usare l’espressione di Hans Kung, la «cattiva essenza» della Chiesa.
Che tale sia stata la lettura del Concilio nel mondo cattolico appare evidente. Lo apparve soprattutto negli anni di Paolo VI, in cui il Papa venne visto come la limitazione e la sconfessione della grande scelta di Giovanni XXIII di mutare radicalmente l’esistenza della Chiesa cattolica. Che tale non fosse l’intenzione di Papa Roncalli questo è evidente: e la beatificazione con cui è stato onorato indica che per la Chiesa di Roma la rottura della tradizione non era ciò che Giovanni XXIII intendeva per aggiornamento.
Roncalli esprimeva quello che potremmo chiamare modernismo moderato evitando le radicalizzazioni compiute dalle due parti sotto il Pontificato di San Pio X. Eppure che San Pio X non avesse avuto tutti i torti è apparso proprio dal fatto che il modernismo moderato di Papa Roncalli ha determinato una rivoluzione nel mondo cattolico e fatto del moderno la categoria a cui tutto va conformato.
Ciò comporta la negazione della Tradizione come fonte di verità nella Chiesa e soprattutto la rimozione del Papato come autorità suprema nella Chiesa fondata sul carisma petrino.
La fine del comunismo ha tolto di mezzo la grande provocazione che l’idea di rivoluzione suscitava nel mondo cattolico. Esso accettò di declinarsi, in forme molto diverse, con l’idea di una rottura rivoluzionaria con l’Occidente e il capitalismo, facendo del popolo di Dio il nuovo esercito dei sanculotti. Ma qualcosa di quell’idea rivoluzionaria è rimasta. E quando Papa Benedetto riporta l’idea di Tradizione e del carisma petrino come fondamento della Chiesa formalmente al centro del magistero suscita una contraddizione impotente perché non alternativa, non capace di indicare un’altra linea, ma appunto per questo più carica di odio. La modesta realtà della fraternità di San Pio X viene vista come un corpo maligno.
Benedetto offre la fraternità, la comprensione del carattere perenne della liturgia tradizionale e quindi l’occasione di compiere un grande gesto: cioè quello di confermare che l’interpretazione di Papa Ratzinger del Concilio come continuità è capace di estinguere lo scisma che l’idea del Concilio come rivoluzione aveva suscitato. Ciò comporta il riconoscimento non solo e non tanto della fraternità San Pio X, quanto di quella vasta e prevalente parte del mondo cattolico che aveva sentito il monopolio dei teologi progressisti nella interpretazione del Vaticano II come qualcosa che toglieva a loro la dimensione ecclesiale della loro fede cattolica. Questa visione del Concilio come rivoluzione ha avuto sede in molte parti della Chiesa. E in Italia opera la scuola di Bologna, fondata da don Giuseppe Dossetti, che si fonda come idea fondamentale sul concetto che Paolo VI ha deformato e svuotato l’idea di riforma ecclesiale della Chiesa iniziata da Giovanni XXIII e che vi è una contraddizione vivente tra il fondatore Giovanni e il deformatore Paolo.
Giuseppe Alberigo nella sua storia del Vaticano II ha costruito l’informazione sul Concilio alla luce della grande rottura tra Giovanni e Paolo ed è quindi l’espressione dell’odio teologico nei confronti dell’opera di Benedetto di interpretare il Concilio come un Concilio che ha riespresso alcuni ripensamenti del linguaggio, ma ha mantenuto il pieno valore della struttura dogmatica e dottrinale della Chiesa cattolica dei due millenni. La scuola di Bologna, potenziata dalla forma teologica del san Raffaele di Milano, è il cuore di questo sentimento di rigetto anche in Italia e nell’Episcopato italiano. Nei mezzi di informazione come nella Chiesa. Ciò opera soprattutto nelle edizioni paoline. La sua realtà ha avuto dimensioni anche politiche ma proprio in politica è stata battuta. Ma anche in politica ha portato quel carisma dell’odio che la contraddistingue.

© Copyright Il Giornale, 17 marzo 2009


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