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Viaggio apostolico in Camerun e Angola

Ultimo Aggiornamento: 02/05/2009 17:13
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20/03/2009 16:17
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La visita del Papa, “benedizione di pace per l'Angola”


Con la Caritas, la Chiesa ricostruisce il Paese dopo la guerra





LUANDA, venerdì. 20 marzo 2009 (ZENIT.org).- Benedetto XVI arriverà questo venerdì in Angola per una visita già considerata dalla popolazione come una “benedizione di pace” per il Paese, ha affermato il direttore nazionale di Caritas Angola, sr. Marlene Wildner.

“E' un segno che la Chiesa universale non ha dimenticato il popolo angolano. La maggior parte della popolazione dimostra un grande movimento e un forte impegno in vari modi – preghiere, pianificazione comunitaria e gruppi che provengono da altre province”, ha affermato.

L'aspetto fondamentale per Caritas Angola oggi è rappresentato dai programmi di sostenibilità e sviluppo, di formazione professionale soprattutto per giovani e donne e contro l'Hiv/Aids.

Si pensa che la costruzione della pace sarà un aspetto chiave della visita papale in Africa. L'Angola sta emergendo da una guerra civile che ha devastato il Paese per quasi trent'anni.

Caritas Angola è stata una delle poche iniziative umanitarie che hanno operato negli anni del conflitto. Ha favorito dei cessate il fuoco per ottenere accesso umanitario e ha preso parte in modo indipendente ai colloqui di pace. Ha portato cibo e medicinali agli abitanti delle zone più remote, in cui non lavoravano altre organizzazioni, e ha perfino consegnato la corrispondenza favorendo il mantenimento delle comunicazioni. Ha inoltre favorito il ricongiungimento familiare.

Secondo sr. Wildner, le sfide sono ancora molte.

“Dobbiamo aiutare l'Angola a costruire una società di riconciliazione, solidarietà, giustizia e pace”, ha affermato. “Dobbiamo costruire la democrazia e lo sviluppo ricostruendo le basi sociali delle comunità: istruzione, salute, alloggi, acqua, elettricità, agricoltura e formazione professionale”.





Chiesa in Angola: solidarietà e condivisione anche nella povertà


Intervista a don Luigi De Liberali, della parrocchia salesiana più grande al mondo





di Roberta Sciamplicotti

ROMA, venerdì, 20 marzo 2009 (ZENIT.org).- La Chiesa in Angola offre la dimostrazione che “anche le comunità povere sanno realizzare concretamente la condivisione”.

Lo afferma don Luigi De Liberali, della parrocchia di San Pietro e San Paolo di Luena, nella provincia del Moxico, nella zona orientale del Paese, intervistato da ZENIT per conoscere meglio la realtà della Chiesa angolana.

Quella del sacerdote è la parrocchia salesiana più grande del mondo per dimensioni, superando i 50.000 km², anche se ha una densità poco superiore a un abitante per chilometro quadrato. Oltre a un terzo della città di Luena, comprende un'estesa zona rurale con più di 160 comunità, raggiungibili a fatica a causa delle poche strade esistenti, spesso ancora dissestate dopo la guerra civile quasi trentennale conclusasi nel 2002.

ZENT ha chiesto a don De Liberali qual è la situazione ecclesiale in Angola e quali sono le speranze suscitate dalla visita di Benedetto XVI nel Paese, dal 20 al 23 marzo.

Da quanto tempo si trova in Angola e qual è stata la sua esperienza personale fino a questo momento?

Don Luigi De Liberali: Sono un sacerdote salesiano e sono venuto in Angola da poco tempo (dopo aver fatto il missionario per 18 anni nel nord-est del Brasile), ma vivo in una comunità salesiana che ha un’esperienza di più di 25 anni in queste terre.

Il mio lavoro è itinerante. Visito le varie comunità rurali, disperse in un territorio che è grande come Veneto, Trentino-Alto Adige e Lombardia insieme.

Nella prima visita alle comunità rurali ho trovato in una cappella l'immagine di Maria che tiene in braccio il Bambino Gesù: a Lei ho affidato la mia missione, perché possa portare Cristo a chiunque incontrerò.

Visto che stiamo vivendo l'Anno Paolino, ho pensato anche a San Paolo e l'ho invocato perché diventi la mia guida e mi insegni ad essere un buon itinerante, vivendo con il suo ardore missionario e imparando a formare comunità cristiane.

Com'è la situazione della Chiesa in Angola?

Don Luigi De Liberali: La situazione è molto differente nelle varie Diocesi del Paese. La guerra civile, che è durata per quasi trent’anni (dalla proclamazione dell’indipendenza dal Portogallo, nel 1975, fino al 2002), ha segnato nettamente due periodi: quello della persecuzione e quello della partecipazione.

Sempre molto importante è stata l’azione del coordinatore della comunità (il catechista), che ha mantenuto viva la fede anche dove il sacerdote arriva molto difficilmente, a volte una o due volte all'anno.

Esistono, però, zone in cui la Chiesa cattolica è presente da pochi anni e non è ancora riuscita ad evangelizzare bene, come quella in cui mi trovo io, nella provincia del Moxico, nell'est del Paese.

Le strutture della Chiesa (Caritas, scuole, centri di salute...) sono in generale ben funzionanti e hanno dato e continuano a dare un valido appoggio alla crescita sociale del popolo. Sono da sottolineare la sensibilizzare sul problema della donna (attraverso gruppi chiamati PROMAICA), la riflessione sui diritti umani e il lavoro di alfabetizzazione degli adulti (con il “metodo Don Bosco”).

Qual è il grado di inculturazione della fede? Si è inserita bene nel contesto locale – anche per la secolare colonizzazione portoghese – o viene vista da qualcuno come "esterna" ed estranea rispetto ai valori africani tradizionali?

Don Luigi De Liberali: La Chiesa si è inserita bene nella cultura e nei valori del popolo angolano, soprattutto parlando di un Dio che vuole la vita e la pace.

Potremmo dire che la Chiesa è riuscita a entrare nella vita della gente: non guarda dal di fuori, ma accompagna lo sviluppo socio-politico-culturale della Nazione.

Nelle celebrazioni si vede un popolo che partecipa, soprattutto attraverso il canto e l’offerta. Uno dei costumi più belli che ho trovato qui in Angola nelle celebrazioni eucaristiche si chiama “tâmbula” ed è una processione di offertorio in cui i fedeli presentano i propri doni portando all'altare i prodotti della campagna, cibo, galline o utensili per la casa. Alla fine della celebrazione, queste offerte sono consegnate al sacerdote o donate a una famiglia povera: è un piccolo-grande segno della condivisione che anche le comunità povere sanno realizzare concretamente.

Quanto ai canti, c’è da dire che il popolo angolano canta che è una meraviglia e riesce a trasmettere la sua anima cantando!

Quali sono le sfide che affronta il Paese e quali i segnali di speranza?

Don Luigi De Liberali: Le sfide principali sono l’educazione, la salute, la ricostruzione di strutture distrutte dalla guerra (strade, ponti...), il ripristino della produzione agricola e industriale e la redistribuzione della ricchezza.

Quanto ai segnali di speranza, in primo luogo sottolineo la pace che tutti vogliono continuare a costruire e la volontà di non lasciar morire quello che è stato conquistato finora. Accanto a questo ci sono la libertà religiosa, il cammino di democratizzazione politica attraverso le elezioni e il grande potenziale dei giovani.

Com'è stata accolta la notizia del viaggio del Papa e quali sono stati i preparativi speciali per questo evento?

Don Luigi De Liberali: La notizia è stata accolta molto bene da tutti i segmenti della società. La radio e la televisione la stanno divulgando molto, invitando a partecipare ai vari incontri con il Papa e ad ascoltare il suo messaggio di pace e d'amore.

In questi giorni, tutte le sere nel telegiornale nazionale vengono presentate le iniziative delle varie Diocesi angolane.

Sono state preparate delle catechesi (foglietti e libretto) per conoscere meglio il Papa, sono stati stampati molti cartelloni e preghiere per accoglierlo, si sono organizzate veglie di preghiera.

Per il giorno dell'arrivo del Pontefice è stato perfino decretato il “punto facoltativo”, cioè tutti gli uffici pubblici e le scuole rimarranno chiusi.

Quali sono le speranze legate a questa visita?

Don Luigi De Liberali: Le aspettative sono tante. Tutti auspicano che la visita di Benedetto XVI confermi ancor di più la volontà di pace del Paese e orienti il cammino delle comunità cristiane. Speriamo che il Papa pronunci parole di incoraggiamento per i più poveri e bisognosi, apra il cuore di tutti alle parole di Cristo e dia più impulso missionario alla Chiesa in Angola, e che questa visita mostri una Chiesa unita e solidale con il popolo.

Visita alla “fabbrica” di missionari per l'Africa in Camerun


L'Istituto San Giuseppe Mukasa forma religiosi di 14 congregazioni





di Nieves San Martín

YAOUNDÉ, venerdì, 20 marzo 2009 (ZENIT.org).- In Camerun, i religiosi sono una forza che sostiene numerosi progetti educativi, sanitari e sociali. Una delle sfide è la formazione dei loro membri più giovani.

Per questo, 14 congregazioni religiose hanno unito le proprie forze per creare l'Istituto San Giuseppe Mukasa, aperto a giovani religiosi che vanno a studiare a Yaoundé da vari Paesi della regione centrale dell'Africa. Il nome dell'Istituto è quello di uno dei 22 martiri dell'Uganda, compagni di San Carlo Lwanga.

Per conoscere questa realtà ecclesiale in Camerun, ZENIT ha intervistato padre Krzysztof Zielenda, religioso polacco che dirige il centro accademico.

Padre Zielenda si considera appartenente alla generazione di sacerdoti polacchi che hanno sentito la chiamata vocazionale nei primi anni del pontificato di Giovanni Paolo II. Nel suo paese, che non arrivava ai duemila abitanti, la domenica tutti andavano a Messa tranne due famiglie. C'era un ambiente cristiano in cui poteva fiorire la vocazione religiosa, spiega.

Ha studiato con gli Oblati di Maria Immacolata e in seguito è entrato in questa Congregazione, il cui centro di formazione a Yaoundé è il nucleo fondamentale intorno al quale è sorto l'attuale Istituto Mukasa.

Ci può raccontare com'è nato l'Istituto?

P. Zielenda: Prima che l'Università Cattolica iniziasse la sua attività, a Yaoundé erano già giunte molte Congregazioni religiose e volevano realizzare un progetto congiunto per la formazione delle vocazioni, che erano sempre più numerose alla fine degli anni Ottanta. Le strutture di formazione erano allora specificamente diocesane, perché qui c'era il Seminario Maggiore e a 50 chilometri di distanza un Seminario per vocazioni in età più avanzata.

I religiosi hanno creato in questa città prima una Scuola di Teologia, poi l'Istituto di Filosofia San Giuseppe Mukasa e infine l'Università Cattolica.

La domanda che ci siamo posti quando è nata questa Università era se i religiosi si dovessero integrare in essa o dovessero conservare la propria specificità. E abbiamo optato per la seconda ipotesi, perché all'Istituto, oltre a studi veramente seri di Filosofia, offriamo anche agli studenti la possibilità di una formazione umana integrale, spirituale e missionaria. E questo non avviene nell'Università Cattolica perché non è il suo obiettivo, mentre noi vogliamo davvero che sia una formazione per la vita religiosa missionaria.

Hanno dato vita all'Istituto cinque Congregazioni e subito se ne è aggiunta un'altra. Ora studiano in questo centro giovani religiosi di 14 Congregazioni. Abbiamo 186 studenti e il numero va aumentando. Questo incremento degli allievi si spiega non solo con la crescita delle vocazioni, ma anche con il fatto che ogni giorno si stabiliscono a Yaoundé nuove Congregazioni. Un altro motivo è che le Congregazioni tendono a unire gli studenti di vari Paesi in un unico luogo.

Ad esempio gli Oblati, che avevano tre istituti di Filosofia in luoghi distinti, hanno optato per averne uno solo, qui a Yaoundé, e anziché tre per la Teologia uno solo a Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo. Costa meno e offre ai giovani l'opportunità di formarsi in un ambiente internazionale. Questo è importante perché l'Africa è un continente in cui ci sono vocazioni e c'è la possibilità che la Chiesa universale abbia bisogno di vocazioni giunte dall'Africa. Per questo è molto importante che queste vocazioni si formino nell'interculturalità e nel dialogo.

Cosa può apportare l'Istituto Mukasa alla Chiesa locale del Camerun?

P. Zielenda: Non parlerò del ruolo dei religiosi nella Chiesa perché è già noto. Credo che noi religiosi possiamo testimoniare che è possibile che persone di culture diverse convivano in una società in cui è molto presente il tribalismo e c'è una Chiesa diocesana molto omogenea. Se 14 Congregazioni inviano i propri studenti allo stesso Istituto, e andiamo avanti da anni senza problemi, questa è già una testimonianza. Lo è anche il fatto che in questo centro siano presenti 15 nazionalità, che convivono serenamente.

Ad ogni modo, non è importante solo l'internazionalità. Siamo chiamati a dare una forte testimonianza di vita religiosa autentica, di obbedienza, povertà e celibato. Ciò che mi dà la forza di continuare a lavorare è la speranza che un giorno la Chiesa abbia bisogno in altri luoghi di questi giovani che stiamo preparando, perché le statistiche sono molto chiare: i missionari del domani sono qui. Anche se in Messico e in India aumentano le vocazioni, l'indice di crescita più alto è in Africa.

Attualmente ci sono 100 Congregazioni con sede a Yaoundé e tra queste una decina sono di fondazione africana. E tutte le fondazioni africane che ci sono in questa città sono già presenti in vari Paesi.

Perché a Yaoundé si è concentrata una gran quantità di Congregazioni internazionali?

P. Zielenda: A volte me lo sono chiesto e non ho trovato una risposta soddisfacente. Un motivo evidente è che Yaoundé già fin dall'inizio offriva le condizioni per questa formazione, dava garanzie di un buon livello di formazione perché c'erano molti noviziati e strutture di formazione per formatori.

Un'altra ragione è che il Paese è al centro dell'Africa e ogni Congregazione voleva avere una sede a Yaoundé per facilitare l'iter ufficiale perché l'ambiente di accoglienza ai religiosi era favorevole. Il Governo di questo Paese è pieno di ex seminaristi. Generalmente, quando la polizia ferma una macchina e chiede di che servizio è basta dire “Missione cattolica” perché la lascino proseguire.

La Chiesa cattolica gode di uno status speciale. Non si tratta di privilegi, ma di riconoscimento di tutte le opere sociali che ha fatto. C'erano quindi più agevolazioni che in altri Paesi per venire qui e potersi insediare e comprare un terreno. Il primo Arcivescovo di Yaoundé era un uomo molto aperto alla vita religiosa e ha sempre contribuito ad agevolare le cose.

Come si riflette tutta questa presenza religiosa nella città?

P. Zielenda: Quello che possiamo lamentare è che, nonostante questa presenza importante, Yaoundé non sia ancora autenticamente cristiana. San Paolo era un grande missionario e sapeva che bisognava iniziare l'evangelizzazione nelle grandi città perché la campagna segue le tradizioni, ma il luogo in cui si verificano i cambiamenti è la capitale.

Ad ogni modo, parlando della mia esperienza come missionario del nord, credo che ci siano più testimonianze di vita cristiana profonda al nord che a Yaoundé. Sarebbe un bene se fosse il contrario, perché come ho già detto la capitale influisce sul resto del Paese, ma qui arriva anche una serie di influenze della vita moderna che non facilita questo processo.

Quest'ultima è solo un'opinione personale e penso che, nonostante tutto, sia molto positivo essere missionario in Camerun.

[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]


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