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Viaggio apostolico in Giordania e Israele

Ultimo Aggiornamento: 08/07/2009 21:40
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17/05/2009 21:40
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«Lasciatemi guardare», le parole che rivelano la vera immagine di Ratzinger

di Emanuele Boffi

Per monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino Montefeltro, il viaggio di Benedetto XVI in Medio Oriente è contraddistinto da una «serena baldanza.
È un’impressione che ricavo osservandolo nelle tappe del suo pellegrinaggio. Ha sempre atteggiamenti semplici e disponibili con tutti gli interlocutori, restituendoci un’immagine veritiera del suo carattere, così lontana da certe speculazioni giornalistiche che lo vorrebbero freddo e distante».
Mentre era sulla vetta del Monte Nebo, là dove Mosè vide la Terra Promessa, il Papa ha pregato i fotografi che lo chiamavano di attendere un attimo: «Lasciatemi guardare», ha detto, volendo osservare quello stesso panorama che Dio mostrò a Mosè.
Proprio in quell’occasione il Pontefice ha ribadito «l’inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebreo», popolo verso il quale ha voluto più volte ribadire la particolare fratellanza, anche durante la successiva visita al museo dello Yad Vashem di Gerusalemme.
«Le parole di Benedetto XVI – commenta monsignor Negri – sono sempre animate dalla consapevolezza di una identità definitiva. Dentro la storia dell’umanità, alla luce della presenza di Gesù Cristo, egli sa leggere la posizione assolutamente singolare del popolo ebraico. Ebrei e cristiani hanno in comune la grande promessa di diventare il popolo del Signore. Dio è presente nel suo popolo, e questo fatto accomunerà per sempre ebrei e cristiani. Questo è l’“inseparabile vincolo” di cui ha parlato il Papa, dentro il quale esiste un mistero che riguarda la libertà, e la scelta da parte del popolo ebreo di non ritenere Gesù un compimento adeguato di quella promessa. Benedetto XVI è consapevole della diversità tra cristiani ed ebrei, ma al tempo stesso sa di essere accomunato a loro dal privilegio di essere stato chiamato a partecipare a un mistero che ci trascende entrambi».

Aiutare gli ultimi là dove sono nati

I quotidiani giordani hanno definito “storica” la visita del Pontefice in Giordania. Qui Benedetto XVI ha incontrato il principe Ghazi bin Muhammed bin Talal, uno degli ispiratori, due anni fa, della celebre lettera dei 138 saggi islamici, “Una parola comune”. Davanti alla moschea di Amman ha ripreso il filo di un discorso che affonda le sue radici nella famosa lezione di Ratisbona, riproponendo ai suoi interlocutori musulmani la sfida e la “pretesa” cristiana: «Coltivare per il bene, nel contesto della fede e della verità, il vasto potenziale della ragione umana». Come ha notato anche Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, il Papa è dunque tornato a discutere col mondo musulmano ribadendo la sua volontà di instaurare un dialogo “interculturale” e non “interreligioso” (pensiero già al centro di una sua missiva al senatore Marcello Pera). «Certo – conferma monsignor Negri – il Papa individua nella sinergia tra fede e ragione l’aspetto più “provocante” per il mondo musulmano. La fede cattolica potenzia la ragione, così come un onesto percorso di ragione non può che portare alle soglie della fede. Questo è un discorso che può benissimo essere compreso dall’islam giordano che ha una storia di straordinaria intelligenza, sobrietà e rispetto verso la fede cristiana. Insomma, re Hussein non era Ahmadinejad». Anzi, proprio l’attenzione che i giordani hanno riservato a Benedetto XVI «dovrebbe farci riflettere sulla nostra incapacità tutta occidentale, intrisi come siamo di relativismo e di scetticismo, di distinguere all’interno del mondo musulmano tra Stati islamici e Stati islamici. Deve finire il tempo dell’approssimazione culturale, del considerare alla stessa stregua sovrani illuminati e manigoldi e affamatori». A questo proposito, a monsignor Negri non sono piaciuti gli slogan («nemmeno quelli cattolici») con i quali sono stati commentati i respingimenti in mare dei clandestini. «Come è stato saggiamente ricordato, nei confronti dei migranti occorre trovare una sintesi tra umanità e legalità. Ma non voglio entrare nel merito delle polemiche, anche perché sono consapevole che l’integrazione dei popoli è difficile. Vorrei, però, porre una semplice domanda: da dove scappano queste persone? Scappano da paesi verso i quali l’Occidente chiude due volte gli occhi, pur sapendo in quali condizioni quei popoli vivano a causa dei loro dittatori. Eppure si tace, o addirittura ci si inchina al loro cospetto, come è il caso del presidente Obama. Non possiamo certo sperare in breve tempo di vedere un’evoluzione in senso democratico di questi paesi, però potremmo fare qualcosa di più perché queste persone possano vivere dignitosamente là dove sono nate, senza dovere essere costrette a fuggire».

© Copyright Tempi, 13 maggio 2009


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