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Viaggi pastorali in Italia

Ultimo Aggiornamento: 06/10/2012 20:47
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03/05/2010 00:51
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Il Papa: i cristiani devono essere strumento concreto dell'amore di Dio
L'incontro in piazza San Carlo a Torino



ROMA, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- I cristiani devono farsi interpreti della speranza del Risorto e strumento dell'amore di Dio. E' il forte appello lanciato questa domenica da Benedetto XVI parlando agli oltre 50 mila fedeli che lo hanno accolto in piazza San Carlo, a Torino, dove ha celebrato la Messa.

Giunto sull’altare, il Papa è stato salutato dal sindaco di Torino Sergio Chiamparino, che dopo aver ricordato i numerosi santi sociali torinesi e piemontesi, ha sottolineato come la città “da sempre ha saputo e sa riconoscere il valore pubblico della religiosità, in un momento nel quale tutti, credenti e non, sono chiamati a riflettere sul senso profondo che l’immagine della Sindone rappresenta”.

E' poi toccato al Cardinale Severino Poletto, Arcivescovo di Torino, fare gli onori di casa sottolineando come le comunità e le chiese della sua arcidiocesi si siano preparate a questo “autentico evento di grazia” con una speciale Novena di preghiere.

“Torino – ha continuato – è una città stupenda e complessa, che ha saputo svolgere nella sua millenaria storia cristiana la missione di annunziare il Vangelo ed offrire a tutti il servizio della carità”.

“I nostri numerosi santi del passato e del presente – ha aggiunto – ci hanno aiutato ad essere anche oggi, e forse più che nel passato, capaci di farci carico di tutte le croci e sofferenze dei fratelli, così come ci richiama a fare l’Ostensione della santa Sindone”

La Sindone, ha infatti evidenziato, ci sollecita “a contemplare l’immensa sofferenza di Gesù affrontata nella sua passione, ma anche ad allargare il nostro sguardo sulle sofferenze delle donne e degli uomini del nostro tempo, così da realizzare l’obiettivo indicato nel motto 'Passio Christi, Passio hominis', che è quello di trovare dalla passione di Gesù la forza necessaria per farci prossimo nei confronti di tutti i nostri fratelli e sorelle provati dall’esperienza quotidiana della croce”.

Successivamente nel corso dell'omelia il Papa ha riflettuto sul Vangelo di Giovanni, letto questa domenica, in cui Gesù fa dono agli apostoli di un "comandamento nuovo" esortandoli a “vivere il suo stesso amore”.

“Amare gli altri come Gesù ci ha amati – ha detto il Pontefice – è possibile solo con quella forza che ci viene comunicata nel rapporto con Lui, specialmente nell’Eucaristia, in cui si rende presente in modo reale il suo Sacrificio di amore che genera amore”.

Riflettendo sull'attualità il Santo Padre ha quindi parlato delle difficoltà che colpiscono anche la città di Torino: “penso, in particolare, a quanti vivono concretamente la loro esistenza in condizioni di precarietà, a causa della mancanza del lavoro, dell’incertezza per il futuro, della sofferenza fisica e morale; penso alle famiglie, ai giovani, alle persone anziane che spesso vivono la solitudine, agli emarginati, agli immigrati”.

“Sì, la vita porta ad affrontare molte difficoltà, molti problemi, ma è proprio la certezza che ci viene dalla fede, la certezza che non siamo soli, che Dio ama ciascuno senza distinzione ed è vicino a ciascuno con il suo amore, che rende possibile affrontare, vivere e superare la fatica dei problemi quotidiani”, ha esclamato.

“E’ stato l’amore universale di Cristo risorto a spingere gli apostoli ad uscire da se stessi, a diffondere la parola di Dio, a spendersi senza riserve per gli altri, con coraggio, gioia e serenità”, ha continuato.

Questo perché, “il Risorto possiede una forza di amore che supera ogni limite, non si ferma davanti ad alcun ostacolo. E la Comunità cristiana, specialmente nelle realtà più impegnate pastoralmente, deve essere strumento concreto di questo amore di Dio”.

Il Papa ha quindi rivolto un incoraggiamento speciale ai sacerdoti: “sappiate attingere quotidianamente dal rapporto di amore con Dio nella preghiera la forza per portare l’annuncio profetico di salvezza; ri-centrate la vostra esistenza sull’essenziale del Vangelo; coltivate una reale dimensione di comunione e di fraternità all’interno del presbiterio, delle vostre comunità, nei rapporti con il Popolo di Dio; testimoniate nel ministero la potenza dell’amore che viene dall’Alto”.

Rivolgendosi poi alle famiglie le ha esortate “a vivere la dimensione cristiana dell’amore nelle semplici azioni quotidiane, nei rapporti familiari superando divisioni e incomprensioni, nel coltivare la fede che rende ancora più salda la comunione”.

Alle Università e al mondo della cultura ha rivolto l'invito a testimoniare l'amore “nella capacità dell’ascolto attento e del dialogo umile nella ricerca della Verità, certi che è la stessa Verità che ci viene incontro e ci afferra”.

“Desidero anche incoraggiare lo sforzo, spesso difficile, di chi è chiamato ad amministrare la cosa pubblica: la collaborazione per perseguire il bene comune e rendere la Città sempre più umana e vivibile”, ha sottolineato.

Non poteva mancare poi un pensiero particolare ai giovani, che il Papa ha esortato a “non perdere mai la speranza, quella che viene dal Cristo Risorto, dalla vittoria di Dio sul peccato e sulla morte”.

Infine il Papa ha voluto incoraggiare tutti i fedeli della Chiesa di Torino “a restare saldi in quella fede che avete ricevuto e che dà senso alla vita; a non perdere mai la luce della speranza nel Cristo Risorto, che è capace di trasformare la realtà e rendere nuove tutte le cose; a vivere in città, nei quartieri, nelle comunità, nelle famiglie, in modo semplice e concreto l’amore di Dio: 'Come io ho amato voi, così amatevi gli uni gli altri'".











Il Papa invita i giovani a “vivere e non vivacchiare”
Dà loro appuntamento per la GMG di Madrid che si terrà nell'agosto del 2011



TORINO, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- Nonostante la pioggia, Torino ha fatto questa domenica da sfondo per un incontro di festa e di fede di giovani provenienti da questa città e da altre diocesi del Piemonte con Benedetto XVI, che li ha incoraggiati a vivere con coraggio e fedeltà le scelte definitive.

“Siate testimoni di Cristo in questo nostro tempo!”, ha detto loro in una piazza San Carlo stracolma di ombrelli variopinti.

Per due ore, prima dell'incontro, la piazza è stata animata da musica ma anche da interventi di testimonianza. Presenti il grande coro “Hope” formato da 270 giovani, ma anche alcuni artisti internazionali provenienti dagli Stati Uniti, dalla Guadalupa e dalla Gran Bretagna.

“La sacra Sindone – ha detto il Papa riflettendo sul sacro Telo di cui è in corso in questi giorni a Torino l'ostensione – sia in modo del tutto particolare per voi un invito ad imprimere nel vostro spirito il volto dell’amore di Dio, per essere voi stessi, nei vostri ambienti, con i vostri coetanei, un’espressione credibile del volto di Cristo”.

Durante l'incontro i giovani hanno intonato l'inno “Santo Volto dei Volti” composto per questa occasione.

Benedetto XVI ha dato appuntamento ai giovani per la Giornata Mondiale della Gioventù che si terrà a Madrid nell'agosto del 2011.

“Auspico di cuore che tale straordinario evento, al quale spero possiate partecipare in tanti, contribuisca a far crescere in ciascuno l’entusiasmo e la fedeltà nel seguire Cristo e nell’accogliere con gioia il suo messaggio, fonte di vita nuova”, ha detto il Pontefice.

Come modello il Pontefice ha quindi indicato un giovane di questa città: Piergiorgio Frassati, membro dell’Azione Cattolica, figlio del fondatore e direttore del quotidiano “La Stampa”, e aderente all’Apostolato della Preghiera, della Congregazione Mariana e dell’Adorazione Notturna.

Per stare vicino ai minatori Piergiorgio Frassati decise di studiare Ingegneria Mineraria presso il Politecnico di Torino. Entrò poi nella Gioventù Cattolica (CGI) e nella Federazione Universitaria Cattolica (FUCI) e prese attivamente parte a congressi, riunioni e manifestazioni.

Appassionato di montagna, faceva delle sue escursioni un’opportunità di apostolato e di preghiera in comune. Poco prima di ottenere il titolo di Ingegnere Minerario, si ammalò di poliomielite. Morì, dopo una settimana di sofferenza, il 4 luglio 1925. Giovanni Paolo II lo ha beatificato il 20 maggio 1990.

“La sua esistenza fu avvolta interamente dalla grazia e dall’amore di Dio e fu consumata, con serenità e gioia, nel servizio appassionato a Cristo e ai fratelli”, ha ricordato il Pontefice.

“Giovane come voi – ha aggiunto – visse con grande impegno la sua formazione cristiana e diede la sua testimonianza di fede, semplice ed efficace. Un ragazzo affascinato dalla bellezza del Vangelo delle Beatitudini, che sperimentò tutta la gioia di essere amico di Cristo, di seguirlo, di sentirsi in modo vivo parte della Chiesa”.

Alla luce della sua testimonianza, il Papa ha incoraggiato i ragazzi e le ragazze ad avere “il coraggio di scegliere ciò che è essenziale nella vita”.

“Vivere e non vivacchiare” ripeteva il beato Piergiorgio Frassati.

“Come lui, scoprite che vale la pena di impegnarsi per Dio e con Dio, di rispondere alla sua chiamata nelle scelte fondamentali e in quelle quotidiane, anche quando costa!”, ha concluso il Santo Padre.





Il messaggio della Sindone, secondo il Papa: “Icona scritta col sangue”
Venera nel Duomo di Torino il sudario che, secondo la tradizione, ha avvolto Gesù



TORINO, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- La Sindone di Torino è “un’Icona scritta col sangue”, sangue che mostra l'amore di Dio per l'uomo. Lo ha detto questa domenica Benedetto XVI nel venerare il sudario che, secondo la tradizione, avvolse il corpo di Gesù crocifisso.

Nella tappa più importante della sua visita a Torino il Papa si è inginocchiato davanti alla Sindone, di cui è in corso l’ostensione fino al 23 maggio nel Duomo di Torino sul tema: “Passio Christi – Passio hominis”.

Nel suo discorso, subito dopo, il Pontefice ha fatto riferimento al valore storico e scientifico della Sindone, riflettendo sul silenzio del Santo Sepolcro nell'orizzonte di speranza della Resurrezione.

“Mi sembra che guardando questo sacro Telo con gli occhi della fede si percepisca qualcosa di questa luce. In effetti, la Sindone è stata immersa in quel buio profondo, ma è al tempo stesso luminosa”, ha constatato.

Secondo il Pontefice, “se migliaia e migliaia di persone vengono a venerarla – senza contare quanti la contemplano mediante le immagini – è perché in essa non vedono solo il buio, ma anche la luce; non tanto la sconfitta della vita e dell’amore, ma piuttosto la vittoria, la vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’odio; vedono sì la morte di Gesù, ma intravedono la sua Risurrezione; in seno alla morte pulsa ora la vita, in quanto vi inabita l’amore”.

Questo è il potere della Sindone, ha affermato il Vescovo di Roma, “dal volto di questo 'Uomo dei dolori', che porta su di sé la passione dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo, anche le nostre passioni, le nostre sofferenze, le nostre difficoltà, i nostri peccati - 'Passio Christi. Passio hominis' - promana una solenne maestà, una signoria paradossale”.

“Questo volto, queste mani e questi piedi, questo costato, tutto questo corpo parla, è esso stesso una parola che possiamo ascoltare nel silenzio".

“Come parla la Sindone?”, ha chiesto il Papa.

“Parla con il sangue, e il sangue è la vita!”, ha quindi risposto. “La Sindone è un’Icona scritta col sangue; sangue di un uomo flagellato, coronato di spine, crocifisso e ferito al costato destro. L’immagine impressa sulla Sindone è quella di un morto, ma il sangue parla della sua vita”.

“Ogni traccia di sangue parla di amore e di vita – ha aggiunto –. Specialmente quella macchia abbondante vicina al costato, fatta di sangue ed acqua usciti copiosamente da una grande ferita procurata da un colpo di lancia romana, quel sangue e quell’acqua parlano di vita. E’ come una sorgente che mormora nel silenzio, e noi possiamo sentirla, possiamo ascoltarla, nel silenzio del Sabato Santo”.





La Piccola Casa della Divina Provvidenza
Parla don Carmine Arice, direttore dell’ufficio pastorale per le comunicazioni

di Chiara Santomiero


TORINO, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- Quando Benedetto XVI arriverà qui alla Piccola Casa, dopo aver venerato la Sindone nel duomo di Torino, passerà sotto un arco che reca la scritta “Divina Provvidenza” per ricordare anche nella pietra quella che fu sempre la fonte ispiratrice del santo Giuseppe Cottolengo, la cui statua è posta al di sotto dell’arco con il suo motto personale “Caritas Christi urget nos”.

“Il Papa – spiega don Carmine Arice, direttore dell’ufficio pastorale per le comunicazioni della Piccola Casa della Divina Provvidenza - entrerà nella chiesa dall’ingresso di via S. Pietro in vincoli e si fermerà a venerare le spoglie di S. Giuseppe Cottolengo. Quindi proseguirà lungo la navata centrale dove lo aspetteranno, a destra e a sinistra, i nostri ospiti e verrà nel presbiterio dove sarà accolto dai sacerdoti e dal Padre Aldo Sarotto, superiore generale dei cottolenghini. Qui rivolgerà il suo discorso alla Piccola Casa al termine del quale saluterà dieci ammalati in rappresentanza di tutti gli altri e poi uscirà, riattraversando la navata centrale”.

Intorno alla chiesa dedicata a s. Vincenzo de’ Paoli e s. Antonio abate si stendono i 112 mila metri quadrati della Piccola Casa della Divina Provvidenza. Una vera e propria città che accoglie in modo stabile circa 2 mila persone - tra ospiti e personale religioso -, e che arriva a distribuire “circa 3 mila pranzi ogni giorno di cui 500 per gli assistiti, 208 per i ricoverati in ospedale, quasi 400 alla mensa degli senza fissa dimora, almeno 600 alle suore tra le quali quelle anziane o a riposo…”. Davanti alla grande cucina generale, sono pronti dei furgoncini ape che a mezzogiorno caricano e distribuiscono il cibo in tutti i padiglioni.

“Accogliere in maniera stabile – aggiunge Arice - circa cinquecento deboli mentali, anziani, malati di Alzhemeir, terminali, richiede una struttura notevole”. Attenzione però a non chiamare la Piccola Casa struttura sanitaria, di ricovero o Casa di riposo.

“L’ha chiamata ‘Casa’”

“San Giuseppe Cottolengo – spiega Arice – non aveva in mente un istituto, un ricovero: l’ha chiamata Casa, per tutti quelli che erano rifiutati dagli altri ospedali o vivevano in stato di abbandono”.

“Il campo semantico usato – aggiunge - è sempre quello delle relazioni familiari: padre, madre, figlio, sorella dei poveri. Anche i reparti sono chiamati famiglie”.

La Piccola Casa si estende nel quartiere torinese di Valdocco che evidentemente attira santità e le grandi opere perché accanto c’è la Casa madre dei salesiani di don Bosco. “I due santi – afferma Arice – certamente si sono conosciuti perché don Bosco è diventato prete nel 1841 e Cottolengo è morto nel 1842”. Una leggenda racconta anche di un consiglio dato dal Cottolengo al giovane don Bosco: “questa talare è troppo sottile e vi si attaccheranno molti ragazzi: prendetene una più robusta”.

Il Cottolengo arriva qui il 27 aprile 1832. Il primo nucleo di accoglienza aperto nel centro della città (il Deposito della Porta rossa), è stato chiuso dalle autorità per timore del diffondersi di epidemie e lui si sposta in periferia, “portando – ricorda una targa – “su un somarello e un carrettino i primi due ospiti della Piccola Casa della Divina Provvidenza”.

“Inizia un’opera – racconta Arice - che si allarga in cerchi concentrici; ogni volta che incontrava una domanda si provvedeva a una risposta: invalidi, deboli mentali, orfani, scuole, ospedali per acuti, ospedale per cronici”.

All’inizio c’erano dei laici di buona volontà ad aiutare il Cottolengo, poi “mano a mano che la realtà si è espansa, alcuni chiamati alla vita consacrata hanno dato più stabilità al servizio, dapprima suore, e fratelli e poi sacerdoti”.

Il Cottolengo “ha fondato sedici famiglie religiose, maschili e femminili, di cui sei di vita contemplativa e dieci di vita apostolica, ciascuna per la risposta a un diverso bisogno”.

“Costringere la Provvidenza ad intervenire”

Tutto questo “nell’arco di dieci anni, dal 1832 al 1842; a 56 anni muore in un’epidemia di tifo petecchiale che si diffonde a Torino”. Questa grande attività viene realizzata, afferma Arice, seguendo “una sequenza interessante. Di solito, all’emergere di un bisogno si cercano delle risorse per farvi fronte e poi si risponde. Invece, nel caso del Cottolengo, la sequenza era: domanda-risposta-intervento della Provvidenza”. Il santo affermava, infatti, che bisognava “costringere in qualche modo la divina Provvidenza ad intervenire”.

La spiritualità della Piccola Casa è fondata su tre elementi: “la fede in Dio Padre provvidente; la carità di Cristo come motore dell’esperienza verso i poveri nei quali si riconosce il Suo volto e lo stile di comunione”. I religiosi, infatti “fanno famiglia con le persone accolte. Una parte della Casa dove ci sono gli ospiti è per la comunità religiosa; mangiamo sotto lo stesso tetto lo stesso pane e condividiamo la vita”.

I buoni figli

Tra gli ospiti preferiti del santo Cottolengo ci sono “i buoni figli, così lui chiamava i deboli mentali. Con questa definizione intendiamo una persona con un handicap mentale, un po’ come un invalido fisico a cui manca un braccio. Ai suoi tempi, i deboli mentali erano considerati persone ‘un po' meno persone’. Ma non sono malati e da noi compiono un percorso di normalizzazione e socializzazione. Vivono in Casa e ogni mattino hanno un’attività organizzata: piscina, terapia, catechesi, laboratorio”.

La grande intuizione del Cottolengo è stata “dare un lavoro a tutti gli ospiti così che ognuno collabora alle necessità della vita quotidiana. Lui diceva che ‘anche i piccoli hanno diritto alla loro piccola dignità’ e il lavoro dà dignità”. “Adesso non capita quasi più – racconta Arice -, ma qui vivono persone con alle spalle sessant’anni di Cottolengo, lasciate dietro la porta dai familiari oppure portate con l’inganno, la promessa di una gita a Torino e poi abbandonate”.

Il primo lavoro è la preghiera

Santi innocenti, S. Giovanni Battista, Angeli custodi, S. Elisabetta: ogni famiglia di ospiti o di religiosi cottolenghini abita in un padiglione che la tradizione della Piccola Casa affida esclusivamente alla protezione dei santi dichiarati tali ufficialmente. Con un’eccezione: “il padiglione Pier Giorgio Frassati – sorride Arice che è un ‘tifoso’ del giovane beato torinese -. Quando la sua famiglia, nel 1933, finanziò la costruzione di un padiglione in sua memoria, le perplessità dei responsabili del Cottolengo furono superate dal card. Gamba, allora arcivescovo di Torino, che affermò ‘se non è santo adesso, lo sarà’. Aveva guardato lontano”.

All’interno della “città” ci sono anche le scuole pubbliche elementari e medie per 210 allievi, un ospedale convenzionato con la Regione Piemonte, una farmacia, un corso di laurea in scienze infermieristiche, un corso di specializzazione in scienze infermieristiche e ginecologia, un master in coordinamento infermieristico, un seminario, case di formazione per i religiosi e le religiose, un dormitorio, una mensa e altri servizi per persone senza fissa dimora cui si collegano due comunità alloggio per minori e donne in difficoltà a Torino e tre comunità terapeutiche per tossicodipendenti nella provincia.

A questo si aggiungono le 80 succursali della Piccola Casa in Svizzera, Stati Uniti, Kenya, India, Ecuador e Tanzania. La famiglia del Cottolengo conta anche sei monasteri di clausura tra l’Italia e l’estero “perché, come ricordava il santo, il primo e fondamentale compito nella Piccola Casa è quello di pregare e di questo si è nutrita la sua fede nella Provvidenza”.






Discorso del Papa nell'incontro con gli ammalati nella chiesa del Cottolengo


TORINO, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questa domenica da Benedetto XVI nell'incontrarsi nella chiesa del Cottolengo, a Torino, con gli ammalati e gli ospiti della Piccola Casa della Divina Provvidenza.

* * *

Signor Cardinale,

cari fratelli e sorelle!

Desidero esprimere a voi tutti la mia gioia e la mia riconoscenza al Signore che mi ha condotto fino a voi, in questo luogo, dove in tanti modi e secondo un carisma particolare si manifestano la carità e la Provvidenza del Padre celeste. E’ un incontro, il nostro, che si intona molto bene al mio pellegrinaggio alla sacra Sindone, in cui possiamo leggere tutto il dramma della sofferenza, ma anche, alla luce della Risurrezione di Cristo, il pieno significato che essa assume per la redenzione del mondo. Ringrazio Don Aldo Sarotto per le significative parole che mi ha rivolto: attraverso di lui il mio grazie si estende a quanti operano in questo luogo, la Piccola Casa della Divina Provvidenza, come la volle chiamare san Giuseppe Benedetto Cottolengo. Saluto con riconoscenza le tre Famiglie religiose nate dal cuore del Cottolengo e dalla “fantasia” dello Spirito Santo. Grazie a tutti voi, cari malati, che siete il tesoro prezioso di questa casa e di questa Opera.

Come forse sapete, durante l’Udienza Generale di mercoledì scorso, insieme alla figura di san Leonardo Murialdo, ho presentato anche il carisma e l’opera del vostro Fondatore. Sì, egli è stato un vero e proprio campione della carità, le cui iniziative, come alberi rigogliosi, stanno davanti ai nostri occhi e sotto lo sguardo del mondo. Rileggendo le testimonianze dell’epoca, vediamo che non fu facile per il Cottolengo iniziare la sua impresa. Le molte attività di assistenza presenti sul territorio a favore dei più bisognosi non erano sufficienti a sanare la piaga della povertà, che affliggeva la città di Torino. Il Cottolengo cercò di dare una risposta a questa situazione, accogliendo le persone in difficoltà e privilegiando quelle che non venivano ricevute e curate da altri. Il primo nucleo della Casa della Divina Provvidenza non ebbe vita facile e non durò a lungo. Nel 1832, nel quartiere di Valdocco, vide la luce una nuova struttura, aiutata anche da alcune famiglie religiose.

Il Cottolengo, pur attraversando nella sua vita momenti drammatici, mantenne sempre una serena fiducia di fronte agli eventi; attento a cogliere i segni della paternità di Dio, riconobbe, in tutte le situazioni, la sua presenza e la sua misericordia e, nei poveri, l’immagine più amabile della sua grandezza. Lo guidava una convinzione profonda: “I poveri sono Gesù - diceva - non sono una sua immagine. Sono Gesù in persona e come tali bisogna servirli. Tutti i poveri sono i nostri padroni, ma questi che all’occhio materiale sono così ributtanti sono i nostri padronissimi, sono le nostre vere gemme. Se non li trattiamo bene, ci cacciano dalla Piccola Casa. Essi sono Gesù”. San Giuseppe Benedetto Cottolengo sentì di impegnarsi per Dio e per l’uomo, mosso nel profondo del cuore dalla parola dell’apostolo Paolo: La carità di Cristo ci spinge (cfr 2 Cor 5,14). Egli volle tradurla in totale dedizione al servizio dei più piccoli e dimenticati. Principio fondamentale della sua opera fu, fin dall’inizio, l’esercizio verso tutti della carità cristiana, che gli permetteva di riconoscere in ogni uomo, anche se ai margini della società, una grande dignità. Egli aveva compreso che chi è colpito dalla sofferenza e dal rifiuto tende a chiudersi e isolarsi e a manifestare sfiducia verso la vita stessa. Perciò il farsi carico di tante sofferenze umane significava, per il nostro Santo, creare relazioni di vicinanza affettiva, familiare e spontanea, dando vita a strutture che potessero favorire questa vicinanza, con quello stile di famiglia che continua ancora oggi.

Recupero della dignità personale per san Giuseppe Benedetto Cottolengo voleva dire ristabilire e valorizzare tutto l’umano: dai bisogni fondamentali psico-sociali a quelli morali e spirituali, dalla riabilitazione delle funzioni fisiche alla ricerca di un senso per la vita, portando la persona a sentirsi ancora parte viva della comunità ecclesiale e del tessuto sociale. Siamo grati a questo grande apostolo della carità perché, visitando questi luoghi, incontrando la quotidiana sofferenza nei volti e nelle membra di tanti nostri fratelli accolti qui come nella loro casa, noi facciamo esperienza del valore e del significato più profondo della sofferenza e del dolore. Cari malati, voi svolgete un’opera importante: vivendo le vostre sofferenze in unione con Cristo crocifisso e risorto, partecipate al mistero della sua sofferenza per la salvezza del mondo.

Offrendo il nostro dolore a Dio per mezzo di Cristo, noi possiamo collaborare alla vittoria del bene sul male, perché Dio rende feconda la nostra offerta, il nostro atto di amore. Cari fratelli e sorelle, tutti voi che siete qui, ciascuno per la propria parte: non sentitevi estranei al destino del mondo, ma sentitevi tessere preziose di un bellissimo mosaico che Dio, come grande artista, va formando giorno per giorno anche attraverso il vostro contributo. Cristo, che è morto sulla Croce per salvarci, si è lasciato inchiodare perché da quel legno, da quel segno di morte, potesse fiorire la vita in tutto il suo splendore. Questa Casa qui è uno dei frutti maturi nati dalla Croce e dalla Risurrezione di Cristo, e manifesta che la sofferenza, il male, la morte non hanno l’ultima parola, perché dalla morte e dalla sofferenza la vita può risorgere. Lo ha testimoniato in modo esemplare uno di voi, che voglio ricordare: il Venerabile fratel Luigi Bordino, stupenda figura di religioso infermiere.

In questo luogo, allora, comprendiamo meglio che, se la passione dell’uomo è stata assunta da Cristo nella sua Passione, nulla andrà perduto. Il messaggio di questa solenne Ostensione della Sindone: “Passio Christi – Passio hominis”, qui si comprende in modo particolare. Preghiamo il Signore crocifisso e risorto perché illumini il nostro pellegrinaggio quotidiano con la luce del suo Volto; illumini la nostra vita, il presente e il futuro, il dolore e la gioia, le fatiche e le speranze dell’umanità intera. A tutti voi, cari fratelli e sorelle, invocando l’intercessione di Maria Vergine e di san Giuseppe Benedetto Cottolengo, imparto di cuore la mia Benedizione: vi conforti e vi consoli nelle prove e vi ottenga ogni grazia che viene da Dio, autore e datore di ogni dono perfetto. Grazie.

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]







Meditazione del Papa dopo l’atto di venerazione della Sindone
Icona del mistero del Sabato Santo



TORINO, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la meditazione pronunciata questa domenica da Benedetto XVI dopo l’atto di venerazione della Sindone nel Duomo di Torino, nel salutare le monache di clausura di diversi monasteri della diocesi e i membri del Comitato della Sindone presenti.

* * *

Cari amici,

questo è per me un momento molto atteso. In un’altra occasione mi sono trovato davanti alla sacra Sindone, ma questa volta vivo questo pellegrinaggio e questa sosta con particolare intensità: forse perché il passare degli anni mi rende ancora più sensibile al messaggio di questa straordinaria Icona; forse, e direi soprattutto, perché sono qui come Successore di Pietro, e porto nel mio cuore tutta la Chiesa, anzi, tutta l’umanità. Ringrazio Dio per il dono di questo pellegrinaggio, e anche per l’opportunità di condividere con voi una breve meditazione, che mi è stata suggerita dal sottotitolo di questa solenne Ostensione: “Il mistero del Sabato Santo”. Si può dire che la Sindone sia l’Icona di questo mistero, l’Icona del Sabato Santo. Infatti essa è un telo sepolcrale, che ha avvolto la salma di un uomo crocifisso in tutto corrispondente a quanto i Vangeli ci dicono di Gesù, il quale, crocifisso verso mezzogiorno, spirò verso le tre del pomeriggio.

Venuta la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato solenne di Pasqua, Giuseppe d’Arimatea, un ricco e autorevole membro del Sinedrio, chiese coraggiosamente a Ponzio Pilato di poter seppellire Gesù nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia a poca distanza dal Golgota. Ottenuto il permesso, comprò un lenzuolo e, deposto il corpo di Gesù dalla croce, lo avvolse con quel lenzuolo e lo mise in quella tomba (cfr Mc 15,42-46). Così riferisce il Vangelo di San Marco, e con lui concordano gli altri Evangelisti. Da quel momento, Gesù rimase nel sepolcro fino all’alba del giorno dopo il sabato, e la Sindone di Torino ci offre l’immagine di com’era il suo corpo disteso nella tomba durante quel tempo, che fu breve cronologicamente (circa un giorno e mezzo), ma fu immenso, infinito nel suo valore e nel suo significato.

Il Sabato Santo è il giorno del nascondimento di Dio, come si legge in un’antica Omelia: “Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme … Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi” (Omelia sul Sabato Santo, PG 43, 439). Nel Credo, noi professiamo che Gesù Cristo “fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto, discese agli inferi, e il terzo giorno risuscitò da morte”.

Cari fratelli e sorelle, nel nostro tempo, specialmente dopo aver attraversato il secolo scorso, l’umanità è diventata particolarmente sensibile al mistero del Sabato Santo. Il nascondimento di Dio fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo, in maniera esistenziale, quasi inconscia, come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre di più. Sul finire dell’Ottocento, Nietzsche scriveva: “Dio è morto! E noi l’abbiamo ucciso!”. Questa celebre espressione, a ben vedere, è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana, spesso la ripetiamo nella Via Crucis, forse senza renderci pienamente conto di ciò che diciamo. Dopo le due guerre mondiali, i lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki, la nostra epoca è diventata in misura sempre maggiore un Sabato Santo: l’oscurità di questo giorno interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita, in modo particolare interpella noi credenti. Anche noi abbiamo a che fare con questa oscurità.

E tuttavia la morte del Figlio di Dio, di Gesù di Nazaret ha un aspetto opposto, totalmente positivo, fonte di consolazione e di speranza. E questo mi fa pensare al fatto che la sacra Sindone si comporta come un documento “fotografico”, dotato di un “positivo” e di un “negativo”. E in effetti è proprio così: il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più luminoso di una speranza che non ha confini. Il Sabato Santo è la “terra di nessuno” tra la morte e la risurrezione, ma in questa “terra di nessuno” è entrato Uno, l’Unico, che l’ha attraversata con i segni della sua Passione per l’uomo: “Passio Christi. Passio hominis”. E la Sindone ci parla esattamente di quel momento, sta a testimoniare precisamente quell’intervallo unico e irripetibile nella storia dell’umanità e dell’universo, in cui Dio, in Gesù Cristo, ha condiviso non solo il nostro morire, ma anche il nostro rimanere nella morte. La solidarietà più radicale. In quel “tempo-oltre-il-tempo” Gesù Cristo è “disceso agli inferi”. Che cosa significa questa espressione? Vuole dire che Dio, fattosi uomo, è arrivato fino al punto di entrare nella solitudine estrema e assoluta dell’uomo, dove non arriva alcun raggio d’amore, dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto: “gli inferi”. Gesù Cristo, rimanendo nella morte, ha oltrepassato la porta di questa solitudine ultima per guidare anche noi ad oltrepassarla con Lui.

Tutti abbiamo sentito qualche volta una sensazione spaventosa di abbandono, e ciò che della morte ci fa più paura è proprio questo, come da bambini abbiamo paura di stare da soli nel buio e solo la presenza di una persona che ci ama ci può rassicurare. Ecco, proprio questo è accaduto nel Sabato Santo: nel regno della morte è risuonata la voce di Dio. E’ successo l’impensabile: che cioè l’Amore è penetrato “negli inferi”: anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori. L’essere umano vive per il fatto che è amato e può amare; e se anche nello spazio della morte è penetrato l’amore, allora anche là è arrivata la vita. Nell’ora dell’estrema solitudine non saremo mai soli: “Passio Christi. Passio hominis”.

Questo è il mistero del Sabato Santo! Proprio di là, dal buio della morte del Figlio di Dio, è spuntata la luce di una speranza nuova: la luce della Risurrezione. Ed ecco, mi sembra che guardando questo sacro Telo con gli occhi della fede si percepisca qualcosa di questa luce. In effetti, la Sindone è stata immersa in quel buio profondo, ma è al tempo stesso luminosa; e io penso che se migliaia e migliaia di persone vengono a venerarla – senza contare quanti la contemplano mediante le immagini – è perché in essa non vedono solo il buio, ma anche la luce; non tanto la sconfitta della vita e dell’amore, ma piuttosto la vittoria, la vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’odio; vedono sì la morte di Gesù, ma intravedono la sua Risurrezione; in seno alla morte pulsa ora la vita, in quanto vi inabita l’amore. Questo è il potere della Sindone: dal volto di questo “Uomo dei dolori”, che porta su di sé la passione dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo, anche le nostre passioni, le nostre sofferenze, le nostre difficoltà, i nostri peccati - “Passio Christi. Passio hominis” - promana una solenne maestà, una signoria paradossale. Questo volto, queste mani e questi piedi, questo costato, tutto questo corpo parla, è esso stesso una parola che possiamo ascoltare nel silenzio. Come parla la Sindone? Parla con il sangue, e il sangue è la vita! La Sindone è un’Icona scritta col sangue; sangue di un uomo flagellato, coronato di spine, crocifisso e ferito al costato destro. L’immagine impressa sulla Sindone è quella di un morto, ma il sangue parla della sua vita. Ogni traccia di sangue parla di amore e di vita. Specialmente quella macchia abbondante vicina al costato, fatta di sangue ed acqua usciti copiosamente da una grande ferita procurata da un colpo di lancia romana, quel sangue e quell’acqua parlano di vita. E’ come una sorgente che mormora nel silenzio, e noi possiamo sentirla, possiamo ascoltarla, nel silenzio del Sabato Santo.

Cari amici, lodiamo sempre il Signore per il suo amore fedele e misericordioso. Partendo da questo luogo santo, portiamo negli occhi l’immagine della Sindone, portiamo nel cuore questa parola d’amore, e lodiamo Dio con una vita piena di fede, di speranza e di carità. Grazie.

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]





Discorso di Benedetto XVI all'incontro con i giovani a Torino
“Dio ci ha creato in vista del 'per sempre'”



TORINO, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questa domenica da Benedetto XVI nell'incontrare in piazza San Carlo i giovani dell’arcidiocesi di Torino e delle diocesi limitrofe.

* * *

Cari giovani di Torino!

Cari giovani che venite dal Piemonte e dalle Regioni vicine!

Sono veramente lieto di essere con voi, in questa mia visita a Torino per venerare la sacra Sindone. Vi saluto tutti con grande affetto e vi ringrazio per l’accoglienza e per l’entusiasmo della vostra fede. Attraverso di voi saluto l’intera gioventù di Torino e delle Diocesi del Piemonte, con una preghiera speciale per i giovani che vivono situazioni di sofferenza, di difficoltà e di smarrimento. Un particolare pensiero e un forte incoraggiamento rivolgo a quanti fra voi stanno percorrendo il cammino verso il sacerdozio, la vita consacrata, come pure verso scelte generose di servizio agli ultimi.

Ringrazio il vostro Pastore, il Cardinale Severino Poletto, per le cordiali espressioni che mi ha rivolto e ringrazio i vostri rappresentanti che mi hanno manifestato i propositi, le problematiche e le attese della gioventù di questa città e regione. Venticinque anni fa, in occasione dell’Anno Internazionale della Gioventù, il venerabile e amato Giovanni Paolo II indirizzò una Lettera apostolica ai giovani e alle giovani del mondo, incentrata sull’incontro di Gesù col giovane ricco di cui ci parla il Vangelo (Lettera ai Giovani, 31 marzo 1985). Proprio partendo da questa pagina (cfr Mc 10,17-22; Mt 19,16-22), che è stata oggetto di riflessione anche nel mio Messaggio di quest’anno per la Giornata Mondiale della Gioventù, vorrei offrirvi alcuni pensieri che vi aiutino nella vostra crescita spirituale e nella vostra missione all’interno della Chiesa e nel mondo.

Il giovane del Vangelo chiede a Gesù: “Che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Oggi non è facile parlare di vita eterna e di realtà eterne, perché la mentalità del nostro tempo ci dice che non esiste nulla di definitivo: tutto muta, e anche molto velocemente. “Cambiare” è diventata, in molti casi, la parola d’ordine, l’esercizio più esaltante della libertà, e in questo modo anche voi giovani siete portati spesso a pensare che sia impossibile compiere scelte definitive, che impegnino per tutta la vita. Ma è questo il modo giusto di usare la libertà? E’ proprio vero che per essere felici dobbiamo accontentarci di piccole e fugaci gioie momentanee, le quali, una volta terminate, lasciano l’amarezza nel cuore? Cari giovani, non è questa la vera libertà, la felicità non si raggiunge così. Ognuno di noi è creato non per compiere scelte provvisorie e revocabili, ma scelte definitive e irrevocabili, che danno senso pieno all’esistenza. Lo vediamo nella nostra vita: ogni esperienza bella, che ci colma di felicità, vorremmo che non avesse mai termine. Dio ci ha creato in vista del “per sempre”, ha posto nel cuore di ciascuno di noi il seme per una vita che realizzi qualcosa di bello e di grande. Abbiate il coraggio delle scelte definitive e vivetele con fedeltà! Il Signore potrà chiamarvi al matrimonio, al sacerdozio, alla vita consacrata, a un dono particolare di voi stessi: rispondetegli con generosità!

Nel dialogo con il giovane, che possedeva molte ricchezze, Gesù indica qual è la ricchezza più grande della vita: l’amore. Amare Dio e amare gli altri con tutto se stessi. La parola amore - lo sappiamo - si presta a varie interpretazioni ed ha diversi significati: noi abbiamo bisogno di un Maestro, Cristo, che ce ne indichi il senso più autentico e più profondo, che ci guidi alla fonte dell’amore e della vita. Amore è il nome proprio di Dio. L'Apostolo Giovanni ce lo ricorda: “Dio è amore”, e aggiunge che “non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio”. E “se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1Gv 4,8.10.11). Nell’incontro con Cristo e nell’amore vicendevole sperimentiamo in noi la vita stessa di Dio, che rimane in noi con il suo amore perfetto, totale, eterno (cfr 1Gv 4,12). Non c'è nulla, quindi, di più grande per l'uomo, un essere mortale e limitato, che partecipare alla vita di amore di Dio. Oggi viviamo in un contesto culturale che non favorisce rapporti umani profondi e disinteressati, ma, al contrario, induce spesso a chiudersi in se stessi, all’individualismo, a lasciar prevalere l’egoismo che c’è nell’uomo. Ma il cuore di un giovane è per natura sensibile all’amore vero. Perciò mi rivolgo con grande fiducia a ciascuno di voi e vi dico: non è facile fare della vostra vita qualcosa di bello e di grande, è impegnativo, ma con Cristo tutto è possibile!

Nello sguardo di Gesù che fissa, come dice il Vangelo con amore il giovane, cogliamo tutto il desiderio di Dio di stare con noi, di esserci vicino. C'è un desiderio di Dio che desidera il nostro “sì”, il nostro amore. Sì, cari giovani, Gesù vuole essere vostro amico, vostro fratello nella vita, il maestro che vi indica la via da percorrere per giungere alla felicità. Egli vi ama per quello che siete, nella vostra fragilità e debolezza, perché, toccati dal suo amore, possiate essere trasformati. Vivete questo incontro con l'amore di Cristo in un forte rapporto personale con Lui; vivetelo nella Chiesa, anzitutto nei Sacramenti. Vivetelo nell’Eucaristia, in cui si rende presente il suo Sacrificio: Egli realmente dona il suo Corpo e il suo Sangue per noi, per redimere i peccati dell’umanità, perché diventiamo una cosa sola con Lui, perché impariamo anche noi la logica del donarsi. Vivetelo nella Confessione, dove, offrendoci il suo perdono, Gesù ci accoglie con tutti i nostri limiti per darci un cuore nuovo, capace di amare come Lui. Imparate ad avere familiarità con la parola di Dio, a meditarla, specialmente nella lectio divina, la lettura spirituale della Bibbia. Infine, sappiate incontrare l’amore di Cristo nella testimonianza di carità della Chiesa. Torino vi offre, nella sua storia, splendidi esempi: seguiteli, vivendo concretamente la gratuità del servizio. Tutto nella comunità ecclesiale deve essere finalizzato a far toccare con mano agli uomini l’infinita carità di Dio.

Cari amici, l’amore di Cristo per il giovane del Vangelo è il medesimo che egli ha per ciascuno di voi. Non è un amore confinato nel passato, non è un’illusione, non è riservato a pochi. Voi incontrerete questo amore e ne sperimenterete tutta la fecondità se con sincerità cercherete il Signore e se vivrete con impegno la vostra partecipazione alla vita della comunità cristiana. Ciascuno si senta “parte viva” della Chiesa, coinvolto nell’opera di evangelizzazione, senza paura, in uno spirito di sincera armonia con i fratelli nella fede e in comunione con i Pastori, uscendo da una tendenza individualista anche nel vivere la fede, per respirare a pieni polmoni la bellezza di far parte del grande mosaico della Chiesa di Cristo.

Questa sera non posso non additarvi come modello un giovane della vostra Città: il beato Piergiorgio Frassati, di cui quest’anno ricorre il ventesimo anniversario della beatificazione. La sua esistenza fu avvolta interamente dalla grazia e dall’amore di Dio e fu consumata, con serenità e gioia, nel servizio appassionato a Cristo e ai fratelli. Giovane come voi visse con grande impegno la sua formazione cristiana e diede la sua testimonianza di fede, semplice ed efficace. Un ragazzo affascinato dalla bellezza del Vangelo delle Beatitudini, che sperimentò tutta la gioia di essere amico di Cristo, di seguirlo, di sentirsi in modo vivo parte della Chiesa. Cari giovani, abbiate il coraggio di scegliere ciò che è essenziale nella vita! “Vivere e non vivacchiare” ripeteva il beato Piergiorio Frassati. Come lui, scoprite che vale la pena di impegnarsi per Dio e con Dio, di rispondere alla sua chiamata nelle scelte fondamentali e in quelle quotidiane, anche quando costa!

Il percorso spirituale del beato Piergiorgio Frassati ricorda che il cammino dei discepoli di Cristo richiede il coraggio di uscire da se stessi, per seguire la strada del Vangelo. Questo esigente cammino dello spirito voi lo vivete nelle parrocchie e nelle altre realtà ecclesiali; lo vivete anche nel pellegrinaggio delle Giornate Mondiali della Gioventù, appuntamento sempre atteso. So che vi state preparando al prossimo grande raduno, in programma a Madrid nell’agosto 2011. Auspico di cuore che tale straordinario evento, al quale spero possiate partecipare in tanti, contribuisca a far crescere in ciascuno l’entusiasmo e la fedeltà nel seguire Cristo e

nell’accogliere con gioia il suo messaggio, fonte di vita nuova. Giovani di Torino e del Piemonte, siate testimoni di Cristo in questo nostro tempo! La sacra Sindone sia in modo del tutto particolare per voi un invito ad imprimere nel vostro spirito il volto dell’amore di Dio, per essere voi stessi, nei vostri ambienti, con i vostri coetanei, un’espressione credibile del volto di Cristo. Maria, che venerate nei vostri Santuari mariani, e san Giovanni Bosco, Patrono della gioventù, vi aiutino a seguire Cristo senza mai stancarvi. E vi accompagnino sempre la mia preghiera e la mia Benedizione, che vi dono con grande affetto. Grazie per la vostra attenzione.


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