VISITA PASTORALE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI A TORINO (2 MAGGIO 2010) - I
INCONTRO CON LA CITTADINANZA IN PIAZZA SAN CARLO
Alle ore 8.15 di oggi il Santo Padre Benedetto XVI parte in aereo dall’aeroporto di Ciampino (Roma) per la Visita Pastorale a Torino.
All’arrivo - previsto per le 9.15 - all’aeroporto di Torino-Caselle, il Papa è accolto dall’Arcivescovo di Torino, Cardinale Severino Poletto e dall’On. Gianni Letta, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Rappresentante del Governo Italiano, insieme alle altre Autorità politiche, civili ed ecclesiastiche.
Il Papa raggiunge in auto Piazza San Carlo a Torino, dove incontra la Cittadinanza e riceve il saluto del Sindaco di Torino, Dott. Sergio Chiamparino e dell’Arcivescovo Card. Severino Poletto.
CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA IN PIAZZA SAN CARLO
Al termine dell’incontro con la cittadinanza, il Santo Padre entra nella vicina Parrocchia di San Carlo Borromeo per rivestire i paramenti liturgici. All’ingresso della chiesa è accolto dal Parroco, P. Mario Azzario, dei Servi di Maria, e dai religiosi della Comunità.
Alle ore 10.45, in Piazza San Carlo, il Santo Padre Benedetto XVI presiede la Santa Messa nel corso della quale pronuncia l’omelia che riportiamo di seguito:
OMELIA DEL SANTO PADRE
Cari fratelli e sorelle!
Sono lieto di trovarmi con voi in questo giorno di festa e di celebrare per voi questa solenne Eucaristia. Saluto ciascuno dei presenti, in particolare il Pastore della vostra Arcidiocesi, il Cardinale Severino Poletto, che ringrazio per le calorose espressioni rivoltemi a nome di tutti. Saluto anche gli Arcivescovi e i Vescovi presenti, i Sacerdoti, i Religiosi e le Religiose, i rappresentanti delle Associazioni e dei Movimenti ecclesiali. Rivolgo un deferente pensiero al Sindaco, Dottor Sergio Chiamparino, grato per il cortese indirizzo di saluto, al rappresentante del Governo ed alle Autorità civili e militari, con un particolare ringraziamento a quanti hanno generosamente offerto la loro collaborazione per la realizzazione di questa mia Visita pastorale. Estendo il mio pensiero a quanti non hanno potuto essere presenti, in modo speciale agli ammalati, alle persone sole e a quanti si trovano in difficoltà. Affido al Signore la città di Torino e tutti i suoi abitanti in questa celebrazione eucaristica, che, come ogni domenica, ci invita a partecipare in modo comunitario alla duplice mensa della Parola di verità e del Pane di vita eterna.
Siamo nel tempo pasquale, che è il tempo della glorificazione di Gesù. Il Vangelo che abbiamo ascoltato poc’anzi ci ricorda che questa glorificazione si è realizzata mediante la passione. Nel mistero pasquale passione e glorificazione sono strettamente legate fra loro, formano un’unità inscindibile. Gesù afferma: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui» (Gv 13,31) e lo fa quando Giuda esce dal Cenacolo per attuare il piano del suo tradimento, che condurrà alla morte del Maestro: proprio in quel momento inizia la glorificazione di Gesù. L’evangelista Giovanni lo fa comprendere chiaramente: non dice, infatti, che Gesù è stato glorificato solo dopo la sua passione, per mezzo della risurrezione, ma mostra che la sua glorificazione è iniziata proprio con la passione. In essa Gesù manifesta la sua gloria, che è gloria dell’amore, che dona tutto se stesso. Egli ha amato il Padre, compiendo la sua volontà fino in fondo, con una donazione perfetta; ha amato l’umanità dando la sua vita per noi. Così già nella sua passione viene glorificato, e Dio viene glorificato in lui. Ma la passione - come espressione realissima e profonda del suo amore - è soltanto un inizio. Per questo Gesù afferma che la sua glorificazione sarà anche futura (cfr v. 32). Poi il Signore, nel momento in cui annuncia la sua partenza da questo mondo (cfr v. 33), quasi come testamento ai suoi discepoli per continuare in modo nuovo la sua presenza in mezzo a loro, dà ad essi un comandamento: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi gli uni gli altri» (v. 34). Se ci amiamo gli uni gli altri, Gesù continua ad essere presente in mezzo a noi, ad essere glorificato nel mondo.
Gesù parla di un "comandamento nuovo". Ma qual è la sua novità? Già nell’Antico Testamento Dio aveva dato il comando dell’amore; ora, però, questo comandamento è diventato nuovo in quanto Gesù vi apporta un’aggiunta molto importante: «Come io ho amato voi, così amatevi gli uni gli altri». Ciò che è nuovo è proprio questo "amare come Gesù ha amato". Tutto il nostro amare è preceduto dal suo amore e si riferisce a questo amore, si inserisce in questo amore, si realizza proprio per questo amore. L’Antico Testamento non presentava nessun modello di amore, ma formulava soltanto il precetto di amare. Gesù invece ci ha dato se stesso come modello e come fonte di amore. Si tratta di un amore senza limiti, universale, in grado di trasformare anche tutte le circostanze negative e tutti gli ostacoli in occasioni per progredire nell’amore. E vediamo nei santi di questa Città la realizzazione di questo amore, sempre dalla fonte dell’amore di Gesù.
Nei secoli passati la Chiesa che è in Torino ha conosciuto una ricca tradizione di santità e di generoso servizio ai fratelli – come hanno ricordato il Cardinale Arcivescovo e il Signor Sindaco - grazie all’opera di zelanti sacerdoti, religiosi e religiose di vita attiva e contemplativa e di fedeli laici. Le parole di Gesù acquistano, allora, una risonanza particolare per questa Chiesa di Torino, una Chiesa generosa e attiva, a cominciare dai suoi preti. Dandoci il comandamento nuovo, Gesù ci chiede di vivere il suo stesso amore, dal suo stesso amore, che è il segno davvero credibile, eloquente ed efficace per annunciare al mondo la venuta del Regno di Dio. Ovviamente con le nostre sole forze siamo deboli e limitati. C’è sempre in noi una resistenza all’amore e nella nostra esistenza ci sono tante difficoltà che provocano divisioni, risentimenti e rancori. Ma il Signore ci ha promesso di essere presente nella nostra vita, rendendoci capaci di questo amore generoso e totale, che sa vincere tutti gli ostacoli, anche quelli che sono nei nostri stessi cuori. Se siamo uniti a Cristo, possiamo amare veramente in questo modo. Amare gli altri come Gesù ci ha amati è possibile solo con quella forza che ci viene comunicata nel rapporto con Lui, specialmente nell’Eucaristia, in cui si rende presente in modo reale il suo Sacrificio di amore che genera amore: è la vera novità nel mondo e la forza di una permanente glorificazione di Dio, che si glorifica nella continuità dell’amore di Gesù nel nostro amore.
Vorrei dire, allora, una parola d’incoraggiamento in particolare ai Sacerdoti e ai Diaconi di questa Chiesa, che si dedicano con generosità al lavoro pastorale, come pure ai Religiosi e alle Religiose. A volte, essere operai nella vigna del Signore può essere faticoso, gli impegni si moltiplicano, le richieste sono tante, i problemi non mancano: sappiate attingere quotidianamente dal rapporto di amore con Dio nella preghiera la forza per portare l’annuncio profetico di salvezza; ri-centrate la vostra esistenza sull’essenziale del Vangelo; coltivate una reale dimensione di comunione e di fraternità all’interno del presbiterio, delle vostre comunità, nei rapporti con il Popolo di Dio; testimoniate nel ministero la potenza dell’amore che viene dall’Alto, viene dal Signore presente in mezzo a noi.
La prima lettura che abbiamo ascoltato, ci presenta proprio un modo particolare di glorificazione di Gesù: l’apostolato e i suoi frutti. Paolo e Barnaba, al termine del loro primo viaggio apostolico, ritornano nelle città già visitate e rianimano i discepoli, esortandoli a restare saldi nella fede, perché, come essi dicono, «dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni» (At 14,22). La vita cristiana, cari fratelli e sorelle, non è facile; so che anche a Torino non mancano difficoltà, problemi, preoccupazioni: penso, in particolare, a quanti vivono concretamente la loro esistenza in condizioni di precarietà, a causa della mancanza del lavoro, dell’incertezza per il futuro, della sofferenza fisica e morale; penso alle famiglie, ai giovani, alle persone anziane che spesso vivono in solitudine, agli emarginati, agli immigrati. Sì, la vita porta ad affrontare molte difficoltà, molti problemi, ma è proprio la certezza che ci viene dalla fede, la certezza che non siamo soli, che Dio ama ciascuno senza distinzione ed è vicino a ciascuno con il suo amore, che rende possibile affrontare, vivere e superare la fatica dei problemi quotidiani. E’ stato l’amore universale di Cristo risorto a spingere gli apostoli ad uscire da se stessi, a diffondere la parola di Dio, a spendersi senza riserve per gli altri, con coraggio, gioia e serenità. Il Risorto possiede una forza di amore che supera ogni limite, non si ferma davanti ad alcun ostacolo. E la Comunità cristiana, specialmente nelle realtà più impegnate pastoralmente, deve essere strumento concreto di questo amore di Dio.
Esorto le famiglie a vivere la dimensione cristiana dell’amore nelle semplici azioni quotidiane, nei rapporti familiari superando divisioni e incomprensioni, nel coltivare la fede che rende ancora più salda la comunione. Anche nel ricco e variegato mondo dell’Università e della cultura non manchi la testimonianza dell’amore di cui ci parla il Vangelo odierno, nella capacità dell’ascolto attento e del dialogo umile nella ricerca della Verità, certi che è la stessa Verità che ci viene incontro e ci afferra. Desidero anche incoraggiare lo sforzo, spesso difficile, di chi è chiamato ad amministrare la cosa pubblica: la collaborazione per perseguire il bene comune e rendere la Città sempre più umana e vivibile è un segno che il pensiero cristiano sull’uomo non è mai contro la sua libertà, ma in favore di una maggiore pienezza che solo in una "civiltà dell’amore" trova la sua realizzazione. A tutti, in particolare ai giovani, voglio dire di non perdere mai la speranza, quella che viene dal Cristo Risorto, dalla vittoria di Dio sul peccato, sull’odio e sulla morte.
La seconda lettura odierna ci mostra proprio l’esito finale della Risurrezione di Gesù: è la Gerusalemme nuova, la città santa, che scende dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo (cfr Ap 21,2). Colui che è stato crocifisso, che ha condiviso la nostra sofferenza, come ci ricorda anche, in maniera eloquente, la sacra Sindone, è colui che è risorto e ci vuole riunire tutti nel suo amore. Si tratta di una speranza stupenda, "forte", solida, perché, come dice l’Apocalisse: «(Dio) asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (21,4). La sacra Sindone non comunica forse lo stesso messaggio? In essa vediamo, come specchiati, i nostri patimenti nelle sofferenze di Cristo: "Passio Christi. Passio hominis". Proprio per questo essa è un segno di speranza: Cristo ha affrontato la croce per mettere un argine al male; per farci intravedere, nella sua Pasqua, l’anticipo di quel momento in cui anche per noi, ogni lacrima sarà asciugata e non ci sarà più morte, né lutto, né lamento, né affanno.
Il brano dell’Apocalisse termina con l’affermazione: «Colui che sedeva sul trono disse: "Ecco, io faccio nuove tutte le cose"» (21,5). La prima cosa assolutamente nuova realizzata da Dio è stata la risurrezione di Gesù, la sua glorificazione celeste. Essa è l’inizio di tutta una serie di "cose nuove", a cui partecipiamo anche noi. "Cose nuove" sono un mondo pieno di gioia, in cui non ci sono più sofferenze e sopraffazioni, non c’è più rancore e odio, ma soltanto l’amore che viene da Dio e che trasforma tutto.
Cara Chiesa che è in Torino, sono venuto in mezzo a voi per confermarvi nella fede. Desidero esortarvi, con forza e con affetto, a restare saldi in quella fede che avete ricevuto, che dà senso alla vita, che dà forza di amare; a non perdere mai la luce della speranza nel Cristo Risorto, che è capace di trasformare la realtà e rendere nuove tutte le cose; a vivere in città, nei quartieri, nelle comunità, nelle famiglie, in modo semplice e concreto l’amore di Dio: "Come io ho amato voi, così amatevi gli uni gli altri".
Amen.
VISITA PASTORALE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI A TORINO (2 MAGGIO 2010) - II
LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DEL REGINA CÆLI IN PIAZZA SAN CARLO
Al termine della Santa Messa celebrata in Piazza San Carlo a Torino, il Papa guida la recita del Regina Cæli. Queste le parole del Santo Padre nell’introdurre la preghiera mariana del tempo pasquale:
PRIMA DEL REGINA CÆLI
Mentre ci avviamo a concludere questa solenne celebrazione, ci rivolgiamo in preghiera a Maria Santissima, che a Torino è venerata quale principale Patrona col titolo di Beata Vergine Consolata. A Lei affido questa Città e tutti coloro che vi abitano. Veglia, o Maria, sulle famiglie e sul mondo del lavoro; veglia su quanti hanno smarrito la fede e la speranza; conforta i malati, i carcerati e tutti i sofferenti; sostieni, o Aiuto dei Cristiani, i giovani, gli anziani e le persone in difficoltà. Veglia, o Madre della Chiesa, sui Pastori e sull’intera Comunità dei credenti, perché siano "sale e luce" in mezzo alla società.
La Vergine Maria è colei che più di ogni altro ha contemplato Dio nel volto umano di Gesù. Lo ha visto appena nato, mentre, avvolto in fasce, era adagiato in una mangiatoia; lo ha visto appena morto, quando, deposto dalla croce, lo avvolsero in un lenzuolo e lo portarono al sepolcro. Dentro di lei si è impressa l’immagine del suo Figlio martoriato; ma questa immagine è stata poi trasfigurata dalla luce della Risurrezione. Così, nel cuore di Maria, è custodito il mistero del volto di Cristo, mistero di morte e di gloria. Da lei possiamo sempre imparare a guardare Gesù con sguardo d’amore e di fede, a riconoscere in quel volto umano il Volto di Dio.
Alla Madonna Santissima affido con gratitudine quanti hanno lavorato per questa mia Visita, e per l’Ostensione della Sindone. Prego per loro e perché questi eventi favoriscano un profondo rinnovamento spirituale.
Regina Cæli…
Conclusa la Celebrazione eucaristica, il Papa raggiunge l’Arcivescovado per il pranzo con i Vescovi del Piemonte e una sosta di riposo.
Alle ore 16.15, prima di lasciare l’Arcivescovado, il Santo Padre saluta gli organizzatori della Visita.
Benedetto XVI a Torino per la Sindone: amare come Gesù, senza limiti, per porre un argine al male. La fede non è mai contro la libertà
Una Torino in festa, sotto un cielo di nuvole, ha accolto il Papa, stamani, in visita nel capoluogo piemontese per l'Ostensione della Sindone. Oltre 50 mila fedeli hanno assistito, in Piazza San Carlo e attraverso i maxischermi in Via Roma e Piazza Castello, alla Messa presieduta da Benedetto XVI, che nell'omelia ha invitato ad amare come Gesù, senza limiti, per porre un argine al male e dare speranza a chi è nella sofferenza. Questo pomeriggio gli incontri con i giovani, sempre in Piazza San Carlo, e con i malati al Cottolengo. E c'è grande attesa per la meditazione del Papa davanti alla Sindone. In serata il rientro a Roma. Il servizio del nostro inviato, Massimiliano Menichetti:
(musica)
Fin dalle prime luci dell’alba la città di Torino ha cominciato a dispiegarsi lungo le transenne che tracciano il percorso al corteo Papale per le vie del centro. La speranza di tutti è vedere Benedetto XVI, stringersi a lui nella preghiera, ascoltare le sue parole. Cinque i momenti di questa visita pastorale: la Santa Messa in Piazza San Carlo, il pranzo con vescovi piemontesi in arcivescovado, l’incontro con i giovani, la meditazione davanti alla Sindone, la visita alla Piccola Casa della Divina Provvidenza, fondata da San Giuseppe Cottolengo.
(applausi - coro ‘viva il Papa’)
L’affetto della città si è riflesso nelle tante bandiere gialle e bianche, i colori vaticani, negli applausi accompagnati dai cori di benvenuto che hanno accolto la papa-mobile al suo arrivo in Piazza San Carlo quindi il saluto del sindaco, Sergio Chiamparino:
Questa città oggi l’accoglie in un momento nel quale tutti, credenti e non, sono chiamati a riflettere sul senso profondo che l’immagine della Sindone rappresenta, testimonianza storica o mistero del dolore che riscatta.
Nel suo saluto, il cardinale arcivescovo di Torino Severino Poletto ha ricordato la vocazione alla carità della città esprimendo il sostegno dell’intera Chiesa piemontese al Papa:
E’ Gesù stesso che noi vediamo presente e visibile in Lei, suo Vicario, e che viene ad incontrarci. Ed è con questo spirito di fede e comunione che ci stringiamo intorno a Lei per esprimere il nostro affetto di figli, la nostra totale comunione di intenti e per contribuire con la nostra preghiera a chiedere al Signore forza e consolazione per il suo ministero che Lei svolge con grande autorevolezza di dottrina, offerta con la chiarezza di un vero Maestro della fede e con la delicatezza di un padre che ama la Chiesa e l’umanità intera.
Sulla stessa linea anche il sindaco, Sergio Chiamparino, che parlando anche del volto laico della città ha sottolineato come la Sindone conduca comunque tutti ad una riflessione attenta sulla sofferenza ed il bisogno dell’altro.
Il Papa ha ricambiato questo abbraccio e parlando al cuore dell’intera città è entrato nei problemi sociali, del lavoro, dell’integrazione, esortando alla testimonianza cristiana, alla preghiera e a confidare nell’amore salvifico di Cristo. Punto fondante della sua omelia in Piazza San Carlo la passione, morte e risurrezione del Signore presenti nell’attuale tempo pasquale, “che è il tempo - ha detto - della glorificazione di Gesù”.
Egli ha amato il Padre, compiendo la sua volontà fino in fondo, con una donazione perfetta; ha amato l’umanità dando la sua vita per noi. Così già nella sua passione viene glorificato, e Dio viene glorificato in lui. Ma la passione come espressione realissima e profonda del suo amore, è soltanto un inizio. Per questo Gesù afferma che la sua glorificazione sarà anche futura.
"Gesù ci ha dato se stesso come modello e fonte di amore", ha detto il Papa. Si tratta di un amore senza limiti, universale, in grado di trasformare anche tutte le circostanze negative e tutti gli ostacoli in occasioni per progredire nell’amore. E guardando alla ricca tradizione di santità che, nei secoli passati, la Chiesa torinese ha conosciuto, ha ricordato che “Gesù” chiede “di vivere il suo stesso amore” per vincere le “tante difficoltà che provocano divisioni, risentimenti e rancori”.
Se siamo uniti a Cristo, possiamo amare veramente in questo modo. Amare gli altri come Gesù ci ha amati è possibile solo con quella forza che ci viene comunicata nel rapporto con Lui, specialmente nell’Eucaristia, in cui si rende presente in modo reale il suo Sacrificio di amore che genera amore. E' la vera novità, nel mondo, e la forza di una permanente glorificazione di Dio che si glorifica nella continuità dell'amore di Gesù nel nostro amore.
“A volte”, anche per gli impegni che si moltiplicano, “essere operai nella vigna del Signore può essere faticoso”, ha detto il Papa rivolgendosi ai sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose. Ha indicato la preghiera quale forza dalla quale attingere per portare l’annuncio cristiano ed ha invitato a “ri-centrare l’esistenza sull’essenziale del Vangelo”, “coltivando una reale dimensione di comunione e di fraternità”. Poi guardando alle tante sfide che la città della Sindone vive, ha aggiunto:
Penso, in particolare, a quanti vivono concretamente la loro esistenza in condizioni di precarietà, a causa della mancanza del lavoro, dell’incertezza per il futuro, della sofferenza fisica e morale; penso alle famiglie, ai giovani, alle persone anziane che spesso vivono in solitudine, agli emarginati, agli immigrati. Sì, la vita porta ad affrontare molte difficoltà, molti problemi, ma è proprio la certezza che ci viene dalla fede, la certezza che non siamo soli, che Dio ama ciascuno senza distinzione ed è vicino a ciascuno con il suo amore, che rende possibile affrontare, vivere e superare la fatica dei problemi quotidiani.
Quindi ha ribadito la necessità della testimonianza cristiana, in ogni ambito: lavorativo, culturale, universitario e familiare, in cui ha esortato “a vivere la dimensione cristiana dell’amore nelle semplici azioni quotidiane, superando divisioni e incomprensioni”, coltivando “la fede che rende - ha detto - ancora più salda la comunione”. E parlando a chi è “chiamato ad amministrare la cosa pubblica”. ha aggiunto:
La collaborazione per perseguire il bene comune e rendere la Città sempre più umana e vivibile è un segno che il pensiero cristiano sull’uomo non è mai contro la sua libertà, ma in favore di una maggiore pienezza che solo in una “civiltà dell’amore” trova la sua realizzazione.
Rivolgendosi ai giovani che lo aspetteranno nel pomeriggio, sempre in Piazza San Carlo, ha detto di “non perdere mai la speranza”, quella” che viene da Cristo. “Colui che è stato crocifisso, che ha condiviso la nostra sofferenza, come ci ricorda anche in maniera eloquente la Sacra Sindone – ha precisato – è colui che è risorto e ci vuole riunire tutti nel suo amore”.
In essa vediamo, come specchiati, i nostri patimenti nelle sofferenze di Cristo: “Passio Christi. Passio hominis”. Proprio per questo essa è un segno di speranza: Cristo ha affrontato la croce per mettere un argine al male; per farci intravvedere, nella sua Pasqua, l’anticipo di quel momento in cui anche per noi ogni lacrima sarà asciugata e non ci sarà più morte, né lutto, né lamento, né affanno.
(canto)
Infine, l’esortazione alla Chiesa torinese “a restare salda” nella fede e “a non perdere mai la luce della speranza nel Cristo Risorto, che è capace di trasformare la realtà e rendere nuove tutte le cose”. Poi, nella ricorrenza del mese mariano, prima della preghiera del Regina Coeli Benedetto XVI ha affidato alla Vergine tutti coloro che abitano nella città di Torino:
Veglia, o Maria, sulle famiglie e sul mondo del lavoro; veglia su quanti hanno smarrito la fede e la speranza; conforta i malati, i carcerati e tutti i sofferenti; sostieni, o Aiuto dei Cristiani, i giovani, gli anziani e le persone in difficoltà. Veglia, o Madre della Chiesa, sui Pastori e sull’intera Comunità dei credenti, perché siano “sale e luce” in mezzo alla società.
www.radiovaticana.org/it1/videonews_ita.asp?anno=2010&videoclip=1367&sett...
Le testimonianze dei pellegrini che hanno venerato la Sacra Sindone
Centinaia di migliaia di pellegrini in questi giorni si stanno recando in visita alla Sindone - esposta nel Duomo di Torino fino al 23 maggio - per rendere omaggio al Sacro Lino che secondo la tradizione avvolse il corpo di Gesù crocifisso. Claudia Di Lorenzi ha raccolto le loro testimonianze:
D. – Perché vieni a vedere la Sindone?
R. – Perché vorrei sapere la verità; vorrei sapere com’è la Sindone di Gesù, se veramente rappresenta il volto di Gesù.
R. – E’ una cosa molto importante, perché c’era un santo che disse che è l’unica reliquia vera che esista al mondo di Dio: quindi, è emozionante!
R. – Essendo il segno di un uomo che ha sofferto un determinato tipo di tortura, perché quelle furono torture, uno riflette comunque anche sul fatto che Gesù Cristo soffrì le medesime sofferenze … Anche chi è scettico è obbligato a farsi qualche domanda. L’uomo viene qui davanti per interrogarsi, mette alla prova la propria razionalità a confronto con la fede e con i dubbi, anche, che la fede può sollevare nell’animo umano.
R. – L’emozione è forte! Comunque, sono venuta abbastanza preparata perché avevo visto anche programmi sulla Sindone … A volte non ci si crede che si sia conservato così bene dopo tanti anni … Il corpo si vede benissimo, è comunque un corpo che sembra aver raggiunto una pace interiore …
R. – Io sono rimasto impressionato perché molti hanno ipotizzato il fatto che potesse essere una pittura. Però, mi sembra proprio palese che sia più che una raffigurazione … Ho avuto proprio l’idea dell’irradiazione, una sorta – per chi ci crede – di risurrezione.
D. – Quale messaggio viene da questo lenzuolo, per lei?
R. – Che è giusto credere. A volte viene un po’ di dubbio: sarà veramente? E lì davanti, c’è la risposta, secondo me …
R. – Eccezionale! E’ la prima volta che la vedo. Veniamo dalla Sicilia …
R. – Sì, veniamo dalla Sicilia. Io non mi vorrei spostare da là davanti: trasmette molta serenità, tanta!
D. – Lei è un volontario…
R. – Sono uno dei responsabili del servizio d’ordine; siamo praticamente impegnati a tempo pieno. Il fatto di aver visto tanti pellegrini uscire estasiati dalla visione della Sindone e di esserlo stato anch’io mi dà la gioia di poter aiutare i pellegrini a provare ancora questa sensazione.
R. – Anche io sono un volontario. E’ sempre una sensazione che ti rimanda al mistero della Passione di Gesù Cristo. Cerco di portarmelo dietro, il messaggio … Ci sono tante cose brutte, tante sofferenze nel mondo e quando vediamo che comunque Gesù ha sofferto per noi, pensiamo anche che abbia un senso soffrire.
R. – Sono un volontario e sono contento di farlo. Un particolare che mi ha impressionato è il volto. Il volto è di una persona che ha sofferto ma esprime una certa tranquillità, una certa pace. Ho visto tantissima gente uscire con le lacrime agli occhi. Sono commosso ora, perché questo volto parla, in tanti modi … Bisogna soltanto stare attenti, guardare ed ascoltare …
L'incontro del Papa con i giovani in Piazza San Carlo
Il Papa questo pomeriggio alle 16.30 incontra i giovani in Piazza San Carlo. Sullo svolgimento dell’evento Massimiliano Menichetti ha intervistato don Maurizio De Angeli, responsabile della pastorale giovanile della diocesi, e alcuni giovani:
R. – La prima parte, che segnerà l’accoglienza dei giovani che arriveranno in Piazza San Carlo, provenienti anche dalle altre diocesi del Piemonte, sarà proprio un momento di accoglienza, di preparazione, di attesa, attraverso quello che per eccellenza è il linguaggio giovanile: quello della musica. Avremo tra noi, oltre al grande coro “Hope” di 270 giovani, alcuni artisti internazionali provenienti dagli Stati Uniti, dalla Guadalupa, dalla Gran Bretagna … Sarà quindi un momento musicale legato però anche ad interventi di testimonianza di fede, e anche di testi della Sacra Scrittura che verranno cantati: sarà perciò un momento non solo di preparazione, ma anche un grande momento di preghiera che preparerà l’incontro con il Santo Padre.
D. – Che cosa significa questa visita del Papa per i giovani di Torino e, più in generale, per i giovani del Piemonte?
R. – Penso che sia, ancora una volta, il segno grande di una Chiesa che pone l’attenzione sui giovani, una Chiesa che crede nei giovani ed una Chiesa, anche, che investe nei giovani.
D. – Abbiamo con noi alcuni giovani. Canterete per il Papa: un coro di 270 persone. Che cosa significa per te questo evento?
R. – E’ bello perché comunque l’idea di non essere da sola ma in tanti, tanti per cantare insieme, tanti per pregare insieme – perché il canto è anche preghiera – è tanta gioia, allegria, forza, speranza … bello! Soprattutto in questo periodo …
D. – Se potessi dire qualcosa al Papa, cosa gli diresti?
R. – Gli direi che gli siamo vicini, che noi giovani siamo vicini al Papa. Da lui mi aspetto soprattutto parole di speranza: speranza e fiducia.
D. – La città di Torino custodisce la Sindone. Che cos’è la Sindone per voi ragazzi che abitate a Torino?
R. – Per me è sempre stata una reliquia alla quale sono molto affezionata, perché veramente è rappresentativa di un uomo che ha sofferto. Per me, quell’uomo che ha sofferto è Gesù Cristo perché più di Lui nessuno ha sofferto per noi. Credo che però abbia un significato molto importante anche per quelle persone che non credono, quelle persone che si avvicinano un po’ per curiosità, un po’ per scetticismo … anche per loro la Sindone è rappresentativa di una persona che ha sofferto, e può essere sicuramente di conforto e di consolazione per le persone che soffrono …
L'incontro con i malati al Cottolengo
L’ultimo appuntamento del Papa a Torino è l’incontro, alle 18,30, con i malati nella Chiesa della Piccola Casa della Divina Provvidenza, fondata da San Giuseppe Cottolengo. Su questa istituzione del Cottolengo, Massimiliano Menichetti ha sentito il superiore generale, don Aldo Sarotto:
R. – La novità del Cottolengo è legata a lui, in questa esperienza forte del Cristo che lui ha fatto, il Cristo che lui ha visto nei poveri e nei sofferenti: questa è la novità che anche noi dobbiamo ricercare, altrimenti saremmo come una delle tante altre istituzioni che si limitano a fare assistenza. Il Cottolengo a noi ha insegnato altro!
D. – E che cosa dà, oggi, alla città?
R. – E’ un seme ed è un segno.
D. – Una testimonianza?
R. – Sì, certamente. La testimonianza consiste nel dare dignità alla persona, e dare dignità alla persona soprattutto quando viene meno, questa dignità. Lui, ai suoi tempi, ha dato dignità a persone che, probabilmente, non sapevano neanche di averne: gli handicappati, ad esempio, venivano regolarmente nascosti … Quindi, dare dignità ha significato non solamente dare una casa, un vitto ma dare una famiglia. E’ significativo che lui abbia voluto dare una famiglia ed abbia ricercato chi potesse essere il padre, chi potesse essere la madre per cui queste persone si sentissero figli con una propria dignità. Questo è significativo anche oggi quando questo non dovrebbe più succedere, ma senza che ce ne accorgiamo, questo continua a succedere.
D. – Don Aldo, il Papa verrà a farvi visita. Qual è l’attesa?
R. – Il Cottolengo è sempre stato l’emblema della presenza di un’umanità che soffre. La Sindone la si può vedere ed è molto significativa; la Sindone vivente è in quei malati che maggiormente soffrono e soffrono accettando la Croce, perché quello che colpisce in questi malati è la serenità con la quale affrontano la Croce. Non sempre si può essere così sereni; molte volte, a noi basta poco per abbatterci. Invece, noi abbiamo esempi di persone che da tanti anni sono nella nostra casa e che sono maestre nell’insegnarci come si porti la Croce. Mi aspetto che il Papa, attraverso la sua parola, dia ulteriore forza su questo cammino che non è facile, perché la Croce sempre pesa!
D. – In questa città ci sono carismi forti: penso a don Bosco, Cottolengo, Leonardo Murialdo … figure rilevanti all’interno del panorama della Chiesa, concrete … Dall’altra parte, c’è una Torino fortemente laica. Come si compongono queste diversità?
R. – Intanto, Torino è stata fortunata per avere dei santi sociali; ma bisogna essere attenti: prima sono ‘santi’, poi sono ‘sociali’. Nella nostra società siamo portati a dimenticare la prima espressione e quindi ricordiamo soprattutto il ‘sociale’. Le due cose vanno di comune accordo: per noi è molto significativo come il Cottolengo, aprendo questa sua esperienza che diventa concreta, ad un certo punto la completa attraverso la creazione dei monasteri di clausura, quasi a voler dire che serve l’una e l’altra cosa. La contemplazione non è fuori dall’azione. E quindi, questi due elementi fanno sì che la Piccola Casa sia della Divina Provvidenza e non semplicemente una casa in cui si presti un’assistenza. La nostra società, che è portata a dimenticare Dio perché pensa di poter fare a meno di Dio, è una società del benessere, ma in realtà fa fatica ad accorgersi di quello che le manca o di quello che sta perdendo. E allora, la speranza di un Papa che ha il coraggio della fede e soprattutto è maestro di fede, oltre che testimone di fede, è un’aspettativa grande perché la strada la traccia prima lui!
La Piccola Casa della Divina Provvidenza
Parla don Carmine Arice, direttore dell’ufficio pastorale per le comunicazioni
di Chiara Santomiero
TORINO, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- Quando Benedetto XVI arriverà qui alla Piccola Casa, dopo aver venerato la Sindone nel duomo di Torino, passerà sotto un arco che reca la scritta “Divina Provvidenza” per ricordare anche nella pietra quella che fu sempre la fonte ispiratrice del santo Giuseppe Cottolengo, la cui statua è posta al di sotto dell’arco con il suo motto personale “Caritas Christi urget nos”.
“Il Papa – spiega don Carmine Arice, direttore dell’ufficio pastorale per le comunicazioni della Piccola Casa della Divina Provvidenza - entrerà nella chiesa dall’ingresso di via S. Pietro in vincoli e si fermerà a venerare le spoglie di S. Giuseppe Cottolengo. Quindi proseguirà lungo la navata centrale dove lo aspetteranno, a destra e a sinistra, i nostri ospiti e verrà nel presbiterio dove sarà accolto dai sacerdoti e dal Padre Aldo Sarotto, superiore generale dei cottolenghini. Qui rivolgerà il suo discorso alla Piccola Casa al termine del quale saluterà dieci ammalati in rappresentanza di tutti gli altri e poi uscirà, riattraversando la navata centrale”.
Intorno alla chiesa dedicata a s. Vincenzo de’ Paoli e s. Antonio abate si stendono i 112 mila metri quadrati della Piccola Casa della Divina Provvidenza. Una vera e propria città che accoglie in modo stabile circa 2 mila persone - tra ospiti e personale religioso -, e che arriva a distribuire “circa 3 mila pranzi ogni giorno di cui 500 per gli assistiti, 208 per i ricoverati in ospedale, quasi 400 alla mensa degli senza fissa dimora, almeno 600 alle suore tra le quali quelle anziane o a riposo…”. Davanti alla grande cucina generale, sono pronti dei furgoncini ape che a mezzogiorno caricano e distribuiscono il cibo in tutti i padiglioni.
“Accogliere in maniera stabile – aggiunge Arice - circa cinquecento deboli mentali, anziani, malati di Alzhemeir, terminali, richiede una struttura notevole”. Attenzione però a non chiamare la Piccola Casa struttura sanitaria, di ricovero o Casa di riposo.
“L’ha chiamata ‘Casa’”
“San Giuseppe Cottolengo – spiega Arice – non aveva in mente un istituto, un ricovero: l’ha chiamata Casa, per tutti quelli che erano rifiutati dagli altri ospedali o vivevano in stato di abbandono”.
“Il campo semantico usato – aggiunge - è sempre quello delle relazioni familiari: padre, madre, figlio, sorella dei poveri. Anche i reparti sono chiamati famiglie”.
La Piccola Casa si estende nel quartiere torinese di Valdocco che evidentemente attira santità e le grandi opere perché accanto c’è la Casa madre dei salesiani di don Bosco. “I due santi – afferma Arice – certamente si sono conosciuti perché don Bosco è diventato prete nel 1841 e Cottolengo è morto nel 1842”. Una leggenda racconta anche di un consiglio dato dal Cottolengo al giovane don Bosco: “questa talare è troppo sottile e vi si attaccheranno molti ragazzi: prendetene una più robusta”.
Il Cottolengo arriva qui il 27 aprile 1832. Il primo nucleo di accoglienza aperto nel centro della città (il Deposito della Porta rossa), è stato chiuso dalle autorità per timore del diffondersi di epidemie e lui si sposta in periferia, “portando – ricorda una targa – “su un somarello e un carrettino i primi due ospiti della Piccola Casa della Divina Provvidenza”.
“Inizia un’opera – racconta Arice - che si allarga in cerchi concentrici; ogni volta che incontrava una domanda si provvedeva a una risposta: invalidi, deboli mentali, orfani, scuole, ospedali per acuti, ospedale per cronici”.
All’inizio c’erano dei laici di buona volontà ad aiutare il Cottolengo, poi “mano a mano che la realtà si è espansa, alcuni chiamati alla vita consacrata hanno dato più stabilità al servizio, dapprima suore, e fratelli e poi sacerdoti”.
Il Cottolengo “ha fondato sedici famiglie religiose, maschili e femminili, di cui sei di vita contemplativa e dieci di vita apostolica, ciascuna per la risposta a un diverso bisogno”.
“Costringere la Provvidenza ad intervenire”
Tutto questo “nell’arco di dieci anni, dal 1832 al 1842; a 56 anni muore in un’epidemia di tifo petecchiale che si diffonde a Torino”. Questa grande attività viene realizzata, afferma Arice, seguendo “una sequenza interessante. Di solito, all’emergere di un bisogno si cercano delle risorse per farvi fronte e poi si risponde. Invece, nel caso del Cottolengo, la sequenza era: domanda-risposta-intervento della Provvidenza”. Il santo affermava, infatti, che bisognava “costringere in qualche modo la divina Provvidenza ad intervenire”.
La spiritualità della Piccola Casa è fondata su tre elementi: “la fede in Dio Padre provvidente; la carità di Cristo come motore dell’esperienza verso i poveri nei quali si riconosce il Suo volto e lo stile di comunione”. I religiosi, infatti “fanno famiglia con le persone accolte. Una parte della Casa dove ci sono gli ospiti è per la comunità religiosa; mangiamo sotto lo stesso tetto lo stesso pane e condividiamo la vita”.
I buoni figli
Tra gli ospiti preferiti del santo Cottolengo ci sono “i buoni figli, così lui chiamava i deboli mentali. Con questa definizione intendiamo una persona con un handicap mentale, un po’ come un invalido fisico a cui manca un braccio. Ai suoi tempi, i deboli mentali erano considerati persone ‘un po' meno persone’. Ma non sono malati e da noi compiono un percorso di normalizzazione e socializzazione. Vivono in Casa e ogni mattino hanno un’attività organizzata: piscina, terapia, catechesi, laboratorio”.
La grande intuizione del Cottolengo è stata “dare un lavoro a tutti gli ospiti così che ognuno collabora alle necessità della vita quotidiana. Lui diceva che ‘anche i piccoli hanno diritto alla loro piccola dignità’ e il lavoro dà dignità”. “Adesso non capita quasi più – racconta Arice -, ma qui vivono persone con alle spalle sessant’anni di Cottolengo, lasciate dietro la porta dai familiari oppure portate con l’inganno, la promessa di una gita a Torino e poi abbandonate”.
Il primo lavoro è la preghiera
Santi innocenti, S. Giovanni Battista, Angeli custodi, S. Elisabetta: ogni famiglia di ospiti o di religiosi cottolenghini abita in un padiglione che la tradizione della Piccola Casa affida esclusivamente alla protezione dei santi dichiarati tali ufficialmente. Con un’eccezione: “il padiglione Pier Giorgio Frassati – sorride Arice che è un ‘tifoso’ del giovane beato torinese -. Quando la sua famiglia, nel 1933, finanziò la costruzione di un padiglione in sua memoria, le perplessità dei responsabili del Cottolengo furono superate dal card. Gamba, allora arcivescovo di Torino, che affermò ‘se non è santo adesso, lo sarà’. Aveva guardato lontano”.
All’interno della “città” ci sono anche le scuole pubbliche elementari e medie per 210 allievi, un ospedale convenzionato con la Regione Piemonte, una farmacia, un corso di laurea in scienze infermieristiche, un corso di specializzazione in scienze infermieristiche e ginecologia, un master in coordinamento infermieristico, un seminario, case di formazione per i religiosi e le religiose, un dormitorio, una mensa e altri servizi per persone senza fissa dimora cui si collegano due comunità alloggio per minori e donne in difficoltà a Torino e tre comunità terapeutiche per tossicodipendenti nella provincia.
A questo si aggiungono le 80 succursali della Piccola Casa in Svizzera, Stati Uniti, Kenya, India, Ecuador e Tanzania. La famiglia del Cottolengo conta anche sei monasteri di clausura tra l’Italia e l’estero “perché, come ricordava il santo, il primo e fondamentale compito nella Piccola Casa è quello di pregare e di questo si è nutrita la sua fede nella Provvidenza”.
Cottolengo, un santo alla ricerca della volontà di Dio
Intervista a padre Aldo Sarotto, superiore generale dei Cottolenghini
di Chiara Santomiero
TORINO, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- Questa domenica Benedetto XVI venererà le spoglie di san Giuseppe Benedetto Cottolengo, fondatore nel 1832 dell'opera da lui stesso denominata "Piccola Casa della Divina Provvidenza".
Sebbene considerato soprattutto un santo sociale, spiega in questa intervista a ZENIT padre Aldo Sarotto, superiore generale dei Cottolenghini, tuttavia l'aspetto dominante in Giuseppe Benedetto Cottolengo era il suo interrogare e mettersi in ascolto della volontà di Dio.
Qual è il significato di un'opera come il Cottolengo?
Padre Sarotto: Il Cottolengo è sempre stato un punto di riferimento per la città di Torino e per la Chiesa. E' significativo come questo santo che ha fatto di tutto per nascondersi agli occhi degli uomini sia riuscito a colpire tante persone che sono venute qui, dall'Italia e dall'estero, per cogliere quella spinta iniziale che ha dato vita alla Piccola Casa della Divina Provvidenza così che sono nate molte altre istituzioni religiose, di varia natura, soprattutto in America latina.
Va sottolineato, però, che l'aspetto più importante di quest'opera non è la risposta alla povertà o all'esclusione sociale. Ciò che bisogna rimarcare in san Giuseppe Cottolengo è la sua determinazione nel ricercare ciò che voleva Dio da lui; senza accontentarsi semplicemente di essere un bravo e stimato sacerdote. E' l'evento di fede che colpisce nella sua vita, perché la povertà c'era ieri, c'è oggi e ci sarà domani, ma il suo ricercare la volontà di Dio gli ha fatto scoprire un modo nuovo di mettere al centro la persona, qualsiasi essa sia. Ciò che ha fatto al suoi tempi per diverse categorie di malati, infatti, è stato mettere al centro persone che non erano considerate tali.
Molte volte si coglie il Cottolengo come un grande santo sociale che ha dato origine a benemerite opere di carità: in lui c'è senz'altro la carità, ma è quella di Cristo che lo provoca ad agire. I due momenti non vanno confusi. Dopo aver focalizzato meglio la volontà di Dio, in lui non ci sono stati confini: tutte le sfaccettature della povertà sono state prese in considerazione, con l'attenzione a dare alle persone una casa, un futuro, una realizzazione propria.
Cosa significa il rispetto per i poveri?
Padre Sarotto: Il rispetto è mettere il povero al centro, far sentire la sua dignità di persona. Non solo fare, ma fare con intelligenza e sapienza, rendendo il povero protagonista. Le tentazioni sono sempre molto sottili anche nell'oggi: facciamo "qualcosa". Il Cottolengo ha creato un'istituzione con un concetto chiaro di famiglia, con figure femminili e maschili. Alcune persone, all'epoca, non avevano il diritto nemmeno di vivere nella propria famiglia perché considerati una vergogna. Lui ha ridato loro dignità e rispetto di sé.
Come si vive oggi l'equilibrio tra l'agire in prima persona e l'abbandono alla Divina Provvidenza?
Padre Sarotto: L'abbandono del Cottolengo alla Divina Provvidenza è straordinario, tanto che non c'è mai il minimo accenno a "io ho fatto questo o quello" . Non si trattava solo di un modo di dire o di schernirsi - sotto questo aspetto riesce a confondere anche noi che siamo i suoi figli -; la sua era una sapienza interiore molto profonda. Lui era solito dire che se Dio dà tanto a chi confida ordinariamente in lui, a chi straordinariamente confida provvederà in maniera straordinaria. L'equilibrio del suo agire lo trovava in Dio; per noi è più difficile, ma seguiamo questa indicazione. Si tratta di un equilibrio dinamico, da ricercare volta per volta.
C'è stato un cambiamento dei bisogni che interrogano il Cottolengo?
Padre Sarotto: Le realtà mutano con il trascorrere degli anni e cambiano i bisogni. Al termine della guerra il Cottolengo ha aperto le porte a persone colpite fisicamente, e non solo, dal conflitto. La famiglia degli invalidi era grande e l'attenzione era soprattutto per i giovani, per trovare il modo di farli crescere e dare loro un futuro. Per questo sono stati impiantati laboratori di sartoria e radiotecnica e molti sono usciti di qui con un mestiere e hanno dato vita a una famiglia. Durante la contestazione ciò ha provocato forti polemiche perché si vedeva il Cottolengo come un'istituzione chiusa. Adesso questa fase è terminata ed anche l'accoglienza dei disabili mentali ci viene chiesta sempre meno.
L'emergenza è costituita, invece, dagli anziani, compresi i disabili. Se si è innalzata l'età media, spesso l'invecchiamento è segnato da cattiva salute, incapacità di autogestione, malattie geriatriche. In famiglie sempre più spesso costituite da genitori con figli unici o da single, gli anziani diventano un problema. Quello che sempre di più ci viene chiesto è un'accoglienza capace di dare una risposta globale alla persona la quale chiede di essere inserita in una relazione e non soltanto di ricevere assistenza medica. Al Cottolengo è una casa che li accoglie, sono le relazioni che diventano "sananti", pure per un malato terminale.
Riceviamo lettere di persone che chiedono di poter venire a morire qui "degnamente, cristianamente" e anche richieste da parte dei familiari in questo senso. E' una comunità sanante che si fa carico della persona, pur con tutti i limiti che ci possono essere. Un'altra categoria di persone che chiede accoglienza e assistenza è quella di chi diventa gravemente disabile a causa dei sempre più numerosi incidenti stradali che coinvolgono soprattutto i giovani. Anche in questo seguiamo la strada tracciata dal santo Cottolengo: non cercare risposte da dare, ma accogliere la domanda.
Cosa rappresenta la visita del Papa?
Padre Sarotto: C'è una sensibilità particolare di Benedetto XVI verso il Cottolengo che ha nominato già nella sua prima enciclica, sebbene non sia mai venuto prima a visitare la Piccola casa. E' venuto, prima di lui, Giovanni Paolo II e ci ha rivolto un discorso che rimane un punto di riferimento per noi e anche per altri.
La visita al Cottolengo mi sembra renda evidente la volontà del Papa di incontrare il volto di Cristo insieme al volto dell'uomo.
Se il tema dell'Ostensione è Passio Christi, Passio hominis, così come la Sindone consente di venerare il volto di Cristo sofferente, allo stesso modo la Piccola casa è il luogo dove venerare oggi il volto della sofferenza umana, della passione dell'uomo.
Cosa significherà questa visita per gli ospiti e quanti vivono e collaborano con il Cottolengo?
Padre Sarotto: E' molto importante per tutti perché la visita del Papa è sempre una grande gioia e le sue parole significative per il nostro cammino. Soprattutto sarà importante per i laici che affiancano i religiosi cottolenghini perché stiamo affrontando la sfida del futuro immettendo sempre più laici e investendo sulla loro formazione: la visita del Papa è un'opportunità per mettere meglio a fuoco il carisma del Cottolengo e il modo con il quale si deve portarlo avanti. Benedetto XVI ci aiuterà a non perdere di vista il filo conduttore del nostro agire.