Enciclica "Caritas in veritate"

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00giovedì 17 giugno 2010 15:39
LE UDIENZE

Il Santo Padre Benedetto XVI ha ricevuto questa mattina in Udienza:

Ecc.mi Presuli della Conferenza Episcopale del Brasile (Regione LESTE II), in Visita "ad Limina Apostolorum":

S.E. Mons. Ricardo Pedro Chaves Pinto Filho, O. Praem., Arcivescovo di Pouso Alegre;

S.E. Mons. Diamantino Prata de Carvalho, O.F.M., Vescovo di Campanha;

S.E. Mons. José Lanza Neto, Vescovo di Guaxupé;

S.E. Mons. Aloísio Roque Oppermann, S.C.I., Arcivescovo di Uberaba;

S.E. Mons. Cláudio Nori Sturm, O.F.M. Cap., Vescovo di Patos de Minas;

S.E. Mons. Dario Campos, O.F.M., Vescovo di Leopoldina;

S.E. Mons. José Alberto Moura, C.S.S., Arcivescovo di Montes Claros.

Il Papa riceve questa mattina in Udienza:

il Rev.do Padre Alvaro Corcuera Martinez del Rio, Superiore Generale dei Legionari di Cristo.









RINUNCE E NOMINE


RINUNCIA DEL VESCOVO DI BERBÉRATI (REPUBBLICA CENTROAFRICANA)

Il Santo Padre Benedetto XVI ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Berbérati (Repubblica Centroafricana), presentata da S.E. Mons. Agostino Delfino, O.F.M. Cap., in conformità al can. 401 § 1 del Codice di Diritto Canonico.
+PetaloNero+
00sabato 10 luglio 2010 15:14
L'attualità della “Caritas in veritate” a partire dai suoi critici



ROMA, sabato, 10 luglio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la relazione tenuta da mons. Giampaolo Crepaldi, Arcivescovo di Trieste e Presidente dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuan” sulla Dottrina Sociale della Chiesa, al Convegno promosso dal Forum delle Persone e della Associazioni di ispirazione cattolica nel mondo del lavoro del Friuli Venezia Giulia, e svoltosi a Trieste il 19 maggio scorso.

* * *

Hans Georg Gadamer sostiene, come noto, che il significato di un testo risulta arricchito dalla storia dei suoi effetti. Questo vale anche per l’enciclica “Caritas in veritate” di Benedetto XVI. A rileggerla oggi, dopo mesi dalla sua pubblicazione avvenuta il 7 luglio 2009, essa risulta ancora più ricca e chiara, dato che sul testo si proiettano le interpretazioni che ne sono seguite e il testo rivela così nuovi significati e sfumature che hanno bisogno di tempo per venire alla luce. L’Osservatorio Cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa ha pubblicato nel fascicolo 1/2010 del suo “Bollettino” un primo spoglio degli articoli sulla “Caritas in veritate” pubblicati sulle riviste specializzate. Tutte queste riflessioni condotte sul testo dell’enciclica non sono inutili e gli permettono di esprimere con maggiore completezza i suoi significati. Anche le critiche rivolte all’enciclica – che pure ci sono state – indirettamente concorrono ad esplicitarne il senso, in quanto obbligano ad un approfondimento del testo della Caritas in veritate, naturalmente alla luce della tradizione e del magistero e dell’analogia delle verità della fede cattolica, ossia del principio secondo cui tutte le verità della fede “stanno insieme”.

Anch’io sono stato in qualche modo “coinvolto” – se così posso esprimermi – in questa lettura approfondita dell’enciclica dietro la suggestione di alcune sue critiche che ho ritenuto opportuno esaminare. E’ stato un esercizio utile per capire meglio l’enciclica, un testo veramente ricco e complesso, che va appunto letto e riletto, non liquidato troppo sommariamente. Vorrei riprendere qui con voi alcune di queste critiche, come stimolo ad esaminare qualche aspetto dell’enciclica che possa aiutarci – che possa aiutarvi – nel nostro - nel vostro - lavoro quotidiano.

Proprio all’indomani della pubblicazione della “Caritas in veritate” dal monto nordamericano veniva una critica piuttosto ruvida circa il mercato e il capitalismo. Vi si diceva che la Caritas in veritate aveva rotto con la tradizione della Centesimus annus e di Giovanni Paolo II. Costui avrebbe espresso una valutazione positiva del mercato e dell’impresa, che sarebbe stata invece molto stemperata e perfino sostituita nell’enciclica di Benedetto XVI da una concezione molto negativa. Si è trattato di una critica un po’ “ruvida”, come dicevo, e forse non ben sedimentata prima di venire espressa. E’ stata però utile ad indurmi a rileggere con nuova attenzione l’enciclica, focalizzando l’analisi proprio su questo punto. Ho dovuto concludere - come in seguito ho avuto modo di esprimere in un articolo su “L’Osservatore Romano” – che c’è invece una grande continuità tra la Centesimus annus e la Caritas in veritate, oppure, se si vuole, un ulteriore approfondimento. La continuità sta nel fatto che per ambedue le encicliche, il mercato dipende sempre “da altro da sé” ed è incapace di autogiustificarsi pienamente, anche sul piano economico. L’approfondimento sta nel fatto che mentre la Centesimus annus parlava di una sistema a tre soggetti – il privato, lo Stato e la società civile – sottointendendo, ma non dicendo esplicitamente, che la logica del dono apparteneva a tutti e tre, la Caritas in veritate invece estende il concetto, affermando con chiarezza che nessuno dei tre ambiti è esente dalla logica del dono. Se la formulazione della Centesimus annus poteva suggerire interpretazioni che relegavano la logica del dono nel solo terzo settore, la Caritas in veritate supera questi limiti e, nel contempo, toglie il cosiddetto terzo settore dalla sua marginalità residuale. Tutti e tre gli ambiti hanno piena dignità economica – tanto è vero che la Caritas in veritate richiede esplicitamente anche uno strutturato scambio di imprenditorialità e di esperienza dall’uno all’altro e perfino un impegno per andare altre la divisione tra profit e non profit – e tutti e tre sono resi complementari dalla comune logica del dono. Ritengo che queste affermazioni stiano ancora attendendo di essere adeguatamente approfondite dagli addetti ai lavori. Esse hanno delle ripercussioni anche sul tema del lavoro di primaria importanza. Proprio in questi giorni, per fare un esempio, ci si interroga nel nostro Paese sul deficit nella finanza della sanità di alcune regioni. Contemporaneamente si pone il problema della presenza in Italia di 3 milioni e mezzo di dipendenti pubblici. Potranno le strade del federalismo, della riforma della pubblica amministrazione, del riordino del Welfare, della necessità di ridurre l’imposizione fiscale sia a carico delle imprese che dei lavoratori fare a meno di ripensare i tre settori del privato, della società civile e dello Stato in un nuovo quadro?

Una seconda critica mossa alla Caritas in veritate è venuta dal mondo tedesco e riguardava il cuore stesso del messaggio dell’enciclica, ossia la logica del dono e della gratuità come anima della vita economica e sociale. Non si tratta - si chiedevano i critici – di moralismo ininfluente, dato che esistono oggi strutture economiche e finanziarie – e qui il riferimento alla crisi è d’obbligo – che richiedono che i problemi vengano posti e d affrontati a quel livello e non a livello etico? La Caritas in veritate è molto critica verso un certo Stato assistenziale, forse ancora più critica del paragrafo 48 della Centesimus annus che già non era molto tenero, e proprio questo le rimproveravano i suoi critici d’oltralpe, ossia di affidare la giustizia più alla buona volontà reciproca che al sistema di redistribuzione fiscale dello Stato. Ripeto qui, come ho già detto in una intervista pubblicata in Germania ove ho in qualche modo risposto a simili critiche, che la proposta di Benedetto XVI circa il dono e la gratuità nella vita economica non è stata ben compresa se è stata intesa in senso moralistico, o come un disprezzo per la dimensione strutturale dei problemi. La Caritas in veritate non è così ingenua: essa sa parlare il linguaggio della fede e della morale ma anche quello dell’economia. Il bisogno di dono e gratuità non è un fervorino etico appiccicato sull’economia, è un bisogno della stessa economia, bisogno che l’enciclica spiega molto bene anche dal punto di vista economico: il compito della redistribuzione non può più essere fatto “dopo” e solo dallo Stato, esso va fatto in ogni momento del ciclo economico, da tutti i soggetti coinvolti e in tutti i luoghi geografici e sociali in cui esso si svolge. Quanti hanno detto che la crisi finanziaria aveva motivi etici? Quasi tutti, a mia memoria. Quanti ne hanno tratto le conseguenze? Molto pochi, a mia memoria. Quindi ad adoperare le frasi moralistiche non è stato il Papa ma quanti adoperano i riferimenti etici per abbandonarli un attimo dopo. Il problema è che così ne risente anche l’economia il che prova che non si trattava di moralismo.

Con queste osservazioni passo alla terza critica che ho potuto notare, anche questa proveniente dal mondo tedesco. La Caritas in veritate non avrebbe sufficientemente tenuto conto dei risultati delle scienze, soprattutto delle scienze della terra che si occupano di ambiente e, in particolare, di quelle che si occupano di cambiamenti climatici. Questa critica mi è sembrata molto curiosa. Abbiamo visto tutti come sia andato a finire il Vertice Onu sul cambiamento climatico di Copenaghen, come in fondo l’unica argomentazione veramente importante sul tema sia stata fatta dal Papa, dato che proprio in quei giorni veniva reso noto il testo del suo Messaggio per la Pace del 1 gennaio 2010 che si occupava proprio di questi temi, di come il cambiamento climatico sia spesso caricato di significati ideologici e di come le stesse scienze non siano oggi in grado di fare luce sull’argomento. Mi è sembrato curioso, quindi, che si movessero delle critiche all’enciclica proprio su questi punti, assai controversi e campo ampiamente battuto dalle nuove ideologie. Poi, però, riflettendoci, ho capito che forse l’obiettivo era un altro, vale a dire criticare il punto di vista assunto da Benedetto XVI nella Caritas in veritate che non parte dalle scienze umane, come a lungo avevano detto molti teologi soprattutto tedeschi e latinoamericani, ma dalla rivelazione così come ci è trasmessa dalla tradizione. Non è vero che il Papa nella Caritas inveritate non si confronta con le scienze, ma non parte dalle scienze e ritiene che la prospettiva della fede abbia qualcosa da dire anche ai saperi umani, entrando in dialogo con essi proprio perché portatrice di una sua verità. Chi aveva sostenuto che la Dottrina sociale della Chiesa, per non essere un sapere ideologico, deve partire dalla situazione, dalla prassi, dalle scienze ed assumere un metodo induttivo, certamente non può accettare facilmente che invece Benedetto XVI – ma non solo lui, ovviamente, in quanto la Dottrina sociale della Chiesa ha sempre fatto così – sostenga che, proprio per non essere ideologica e poter veramente dialogare con il mondo, la fede debba partire da se stessa e dalla profonda umanità di Cristo.

Considero questo punto di capitale importanza per tutti noi e, in modo particolare, per il lavoro di questo Forum. Sui temi del lavoro e dell’economia che più vi stanno a cuore, il dialogo va aperto con i problemi, con i saperi umani che illuminano quei problemi, con le competenze e le esperienze che ne rendono possibile la soluzione … ma alla luce della verità di Cristo insegnata dalla Chiesa, luce che tutto illumina a partire dalla coscienza e dall’intelligenza della persona umana.

[Fonte: www.vanthuanobservatory.org/]
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00giovedì 22 luglio 2010 15:49
I temi ambientali nella Caritas in veritate
di Rosario Sitari*


ROMA, giovedì, 22 luglio 2010 (ZENIT.org).- Il rapporto dell’uomo con l’ambiente e l’uso delle risorse naturali già trattato nelle encicliche precedenti riceve nella Caritas in veritate una trattazione sistematica. La questione demografica è emblematica per constatare l’attenzione pastorale alla dinamica dei problemi dell’esistenza. Basti pensare che all’epoca della Populorum progressio il volume della popolazione aumentava più rapidamente delle risorse disponibili per cui le indicazioni pastorali riconoscevano ai poteri pubblici la legittimazione ad adottare misure adeguate purché “conformi alle esigenze della legge morale e rispettose della giusta libertà della coppia”, titolare del diritto inalienabile al matrimonio e alla procreazione.[1] Nella Sollicitudo rei socialis di vent’anni dopo, dato che il problema demografico risultava avere andamento inverso - nel Sud, in aumento, mentre nel Nord del Mondo si verificava una preoccupante caduta del tasso di natalità - si denunciava l’immoralità delle campagne contro la natalità.[2]

Nella stessa enciclica si guardava con favore alla “maggiore consapevolezza dei limiti della risorse disponibili, la necessità di rispettare l’integrità e i ritmi della natura e di tenerne conto nella programmazione dello sviluppo”[3].

Oggi nel documento di Benedetto XVI emerge con chiarezza lo sforzo ulteriore di dare una visione di sintesi tra la fede e la vita, sulla quale si fonda lo sviluppo integrale dell’uomo che trova espressione compiuta nell’uso oculato delle risorse naturali così come nella “procreazione responsabile”. “È una necessità sociale, e perfino economica … la rispondenza [delle istituzioni chiamate] a varare politiche che promuovano la centralità e l’integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società, facendosi carico anche dei suoi problemi economici e fiscali, nel rispetto della sua natura relazionale.”[4] Sul tema della procreazione il Pontefice richiama il principio del rispetto della vita ed esprime preoccupazione per il fatto che “perdurano in varie parti del mondo pratiche di controllo demografico, … che spesso … giungono a imporre anche l’aborto.”[5]

Anche sul problema ecologico troviamo nella Centesimus annus le espressioni che seguono.

La prima: “Alla radice dell’insensata distruzione dell’ambiente naturale c’è un errore antropologico. … Invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio nell’opera della creazione, l’uomo si sostituisce a Dio e così finisce per provocare la ribellione della natura, piuttosto tiranneggiata che governata da lui.”

La seconda: “l’umanità di oggi deve essere conscia dei suoi doveri e compiti verso le generazioni future”.

La terza: “Mentre ci si preoccupa…di preservare gli «habitat» naturali delle diverse specie animali…ci si impegna troppo poco per salvaguardare le condizioni morali di un’autentica «ecologia umana»”.[6]

Benedetto XVI parte da qui per metterci in guardia contro “l’assolutismo della tecnica” tanto più pericoloso perché le biotecnologie, essendo figlie di una “concezione materiale e meccanicistica della vita umana”, consentono all’uomo di “manipolare la vita”.[7] E aggiunge “Le modalità con cui l’uomo tratta l’ambiente influiscono sulle modalità con cui tratta se stesso e, viceversa. …La Chiesa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere soprattutto l’uomo contro la distruzione di se stesso. È necessario che ci sia qualcosa come un’ecologia dell’uomo, intesa in senso giusto. Il degrado della natura è infatti strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando l’ecologia umana è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio. [Ciò significa] che il libro della natura è uno e indivisibile, sul versante dell’ambiente come sul versante della vita, della sessualità, del matrimonio, della famiglia, delle relazioni sociali, in una parola dello sviluppo umano integrale.”[8] Questa unicità e indivisibilità fanno dello studio dell’ambiente una disciplina complessa. Ogni approccio in materia è interdisciplinare e sistemico e implica una rivisitazione critica dello stesso statuto delle discipline specialistiche quando queste assumono l’ambiente come oggetto di studio. Si tratta di ricondurre a unità la cultura del riduzionismo scientifico dato che l’ambiente non può essere concepito soltanto come sommatoria frammentata e astorica dei fattori che lo compongono, ma anche come insieme di relazioni interattive nello spazio e nel tempo che dà origine a un’organizzazione complessa con una propria identità.[9]

Anche l’economia quando assume l’ambiente come oggetto di studio può utilizzare gli strumenti di intervento e i metodi di analisi che le sono propri, ma a una condizione: non è più possibile tenere separate economia e ambiente perché la separazione impedisce di vedere le interconnessioni esistenti fra le tre sostenibilità - economica, ecologica e sociale - che hanno grande influenza sullo stato di salute di questa e delle future generazioni.

Le indicazioni della Caritas in Veritate - annunciate nell’udienza di mercoledì 8 luglio 2009 e ribadite nel messaggio “Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato” che Benedetto XVI ha inviato in occasione della celebrazione della giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2010 - sono molto chiare in proposito e sono sintetizzabili in queste brevi proposizioni:

coniugare le esigenze dell’ambiente con quelle dello sviluppo non significa “assolutizzare la natura né … ritenerla più importante della stessa persona”; significa rispettare “la ‘grammatica’ che il Creatore ha inscritto nella sua opera, affidando all’uomo il ruolo di custode e amministratore responsabile del creato”.

Non si tratta di assumere le esigenze dell’ambiente come ‘vincoli’ all’attività economica, e perciò come meri elementi di costo, si tratta piuttosto di considerare “il concetto di ecologia umana” all’interno di un orizzonte temporalmente più esteso della razionalità economica che riconosca i benefici della sostenibilità. Qui si colloca l’intreccio e la sintesi tra due finalità, parimenti irrinunciabili: quella della salvaguardia dell’ambiente e quella dello sviluppo.

Tale sintesi sembra essere praticabile in riferimento a tre importanti capitoli della teoria economica. L’ economia del benessere, infatti, si va arricchendo dei contenuti dello sviluppo sostenibile, mentre gli equilibri del produttore e del consumatore stanno evolvendo in concomitanza con le problematiche ambientali sempre più incidenti sull’organizzazione industriale, sull’elaborazione delle strategie di impresa e sull’affinamento delle preferenze.

Non va dimenticato tuttavia che l’ambiente è uno dei temi che maggiormente hanno evidenziato alcuni limiti dell’impianto concettuale della teoria economica. Proporne perciò la riflessione in un quadro di riferimento caratterizzato da un alto grado di incertezza espone al rischio di collocarsi entro margini troppo ampi di soggettività nell’opera di sintesi tra quanto c’è di consolidato e quanto va emergendo nella teoria e nelle strategie di impresa.

Inoltre la conoscenza e l’interazione ambientale vanno a inserirsi in contesti istituzionali e in situazioni reali con problemi economici e politici altrettanto seri dove, peraltro, non tutto funziona come dovrebbe. Ne consegue che misure razionalmente adeguate introdotte in certe realtà possono diventare impraticabili o subire deformazioni tali da diventare dannose.

Con ciò non si intende mettere in forse la fiducia nella ragione, si vuole solo accantonare quella razionalità astratta di avanguardie intellettuali, che pretendono di definire per tutti i parametri di progresso e di qualità della vita senza accogliere le aspirazioni autentiche delle comunità civili, le sole legittimate a esprimere le preferenze collettive. L’economia può agevolare questo processo di attuazione del principio di sussidiarietà mediante lo svolgimento di una funzione educativa finalizzata alla crescita di una responsabilità ecologica che “salvaguardi un’autentica ‘ecologia umana’ ”. L’economia, proprio per il rigore logico del suo metodo, può acuire la sensibilità e la responsabilità dei cittadini, dato che i suoi riferimenti teorici e i contenuti applicativi del tema ambiente impongono riflessioni corali di interesse generale su metodi e strumenti che attengono alla micro e alla macroeconomia: cioè sui prezzi e, al tempo stesso, sulle quantità aggregate e, quindi, sull’economia dell’impresa, sull’economia del benessere, sull’economia dell’energia e delle risorse naturali.

L’ambiente, dunque, fa dell’economia un vero e proprio strumento di maturazione dei valori della democrazia ambientale. È necessario però superare due ostacoli. Il primo è di carattere generale ed è la scarsa attitudine al lavoro interdisciplinare del mondo accademico. Il secondo riguarda i rapporti tra economisti generali ed economisti applicati che tendono a mantenere separate la dialettica teorica da quella che si sviluppa in ambiti specifici.

Nel suo messaggio il Papa sostiene che la salvaguardia dell’ambiente è “essenziale per la pacifica convivenza dell’umanità” e ricorda che già nel 1990 il suo predecessore Giovanni Paolo II parlò di “crisi ecologica”, facendo notare lٰ ”urgente necessità morale di una nuova solidarietà”. E aggiunge: “Questo appello si fa ancora più pressante oggi, di fronte alle crescenti manifestazioni di una crisi che sarebbe irresponsabile non prendere in seria considerazione”.

La crisi riguarda “i cambiamenti climatici, la desertificazione, il deterioramento e la perdita di produttività di ampie zone agricole, la contaminazione dei fiumi e delle falde acquifere, la perdita della biodiversità, l’aumento delle catastrofi naturali, la deforestazione nelle zone equatoriali e tropicali.”

Benedetto XVI osserva inoltre con apprensione i conflitti provocati dall’accesso alle risorse e quelli conseguenti al “crescente fenomeno dei cosiddetti ‘profughi ambientali’: persone che, a causa del degrado dell’ambiente in cui vivono lo devono lasciare”.

A fronte di tali questioni, “che hanno un profondo impatto sull’esercizio dei diritti umani, come ad esempio il diritto alla vita, all’alimentazione, alla salute, allo sviluppo”,[10] l’enciclica sostiene la necessità “che maturi una coscienza solidale che consideri l’alimentazione e l’accesso all’acqua come diritti universali di tutti gli esseri umani, senza distinzioni né discriminazioni”.[11]

Per la soluzione di tali problemi l’economista ha il dovere di trasformare le proprie convinzioni in esplicite scelte di ricerca, di formazione e di proposta per la crescita della società civile.

L’economia, dunque, può fare molto in materia ambientale, ma non sarebbe un sicuro atto di saggezza chiedere all’economia ciò che l’economia non può dare: chiedere cioè ad essa di svolgere una funzione di surroga alla morale, all’etica e alla politica.

Il significato, la portata e l’effettività del messaggio di precauzione e di speranza che anima la Caritas in Veritate è racchiusa in queste poche righe: “La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente.”

Il messaggio non è un inventario di petizioni di principio, esso si spinge talvolta ad entrare nel merito di problemi concreti quando afferma, ad esempio, “che oggi è realizzabile un miglioramento dell’efficienza energetica ed è al tempo stesso possibile far avanzare la ricerca di energie alternative.”[12] Altrettanta concretezza si rileva quando afferma che la “comunità internazionale ha il compito imprescindibile di … disciplinare lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili, con la partecipazione anche dei Paesi poveri, in modo da pianificare insieme il futuro.”[13]

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*Il prof. Rosario Sitari è docente di Politica dell’ambiente all’Università LUMSA di Roma e Segretario nazionale AIDU (Associazione Italiana Docenti Universitari). Autore di pubblicazioni in materia di politica economica e di politica industriale, di economia e politica dell’energia e dell’ambiente. Già dirigente ENI, ha insegnato nelle Università statali di Roma, Cagliari e Parma, nella Scuola di Management della LUISS, nella Scuola Superiore E. Mattei e nell’Istituto di Formazione dell’Association For European Training of Workers on the impact of New Technology.


[1] Populorum progressio, 37.

[2] Sollicitudo rei socialis, 25, 30 dicembre 1987.

[3] Ibid., 26.

[4] Caritas in veritate, 44.

[5] Ibid., 28.

[6] Centesimus annus, 37 e 38.

[7] Caritas in veritate, 75.

[8] Ibid., 51.

[9] Cfr. Antonio Moroni, Ambiente, Risorse, Società, Atti della prima conferenza nazionale di Statistica, Roma, 18-19 novembre 1992, pag. 135 e segg., ISTAT.

[10] Messaggio del Pontefice alla Giornata Mondiale della pace già citato nel testo.

[11] Caritas in veritate, 27.

[12] Ibid., 49.

[13] Ibid., c. s.
+PetaloNero+
00venerdì 10 settembre 2010 00:40
La “Caritas in veritate” di Benedetto XVI: riflessioni pastorali
di Stefano Fontana*



ROMA, giovedì, 9 settembre 2010 (ZENIT.org).- La “Caritas in veritate” doveva essere un’enciclica sullo sviluppo e, secondo il disegno originario, avrebbe dovuto commemorare il 40mo anniversario della Populorum progressio (PP) di Paolo VI. Non temo però di dire che essa è ben più che una enciclica sullo sviluppo. A mio modo di vedere il suo tema è “il posto di Dio nel mondo”, e il guardarsi reciproco tra Chiesa e mondo, fede e ragione, natura e sopranatura. Nella CV la questione sociale non solo diviene la “questione antropologica”, ma diventa addirittura la “questione teologica”: appunto il posto di Dio nel mondo.

Precisazioni metodologiche

Un primo tratto caratteristico della CV è comunque il riferimento alla PP di Paolo VI. Nonostante che, per molti motivi, la data del 2007 non sia stata rispettata, l’enciclica mantiene un importante riferimento alla PP e a Paolo VI. Tra l’altro, questo riferimento assume due aspetti di grande importanza. Il primo riguarda il ricordo di questo pontefice e il riconoscimento della sua grandezza anche per la DsC. Non va dimenticato che molti hanno parlato in passato di “incertezze” di Paolo VI in questo campo, viste come segno di un ripensamento della natura della DsC secondo le linee teologiche che la interpretavano come ideologia. Si diceva che il Vaticano II non aveva dedicato una attenzione sistematica alla Dsc e aveva adoperato l’espressione in modo marginale. Quando nel 1971 Paolo VI pubblicò la Octogesima adveniens in forma non di Enciclica ma di Lettera apostolica, una diminutio quindi, molti vi lessero un ulteriore segno che anche nel magistero di Paolo VI la DsC non assumeva più il ruolo occupato precedentemente al Concilio. Tutto ciò animava la distinzione tra due DsC una preconciliare ed una postconciliare, quando non addirittura la improponibilità della DsC nel postconcilio. Siccome simili posizioni sono ancora, e largamente, presenti, è di grande significato che Benedetto XVI abbia riletto il magistero di Paolo VI come per nulla incerto o debole nei confronti della DsC ma, anzi, fortemente propositivo e lungimirante. Della PP egli dice infatti che è da considerarsi come la Rerum novarum dell’epoca postconciliare e sottolinea gli stretti legami di questa enciclica con la Humanae vitae del 1968, anticipazione ante litteram di come già allora la questione sociale si ponesse come questione antropologica.

Alla rivalutazione, se così possiamo dire, di Paolo VI, la CV associa l’idea che il punto di vista della DsC è la “tradizione apostolica” e che non è possibile separare due DsC, l’una preconciliare e l’altra conciliare. Vediamo brevemente questi due importanti aspetti.

Per molto tempo si è sostenuto che partire dalla rivelazione trasmessa nella tradizione apostolica faceva della DsC un sistema deduttivo. A ciò si contrapponeva un procedimento induttivo. Il punto di partenza, o addirittura il punto di vista, doveva essere la situazione, la prassi o i dati delle scienze umane. Si tratta di posizioni tipiche degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, ma ancora molto presenti tra i teologi e i docenti degli Istituti di Scienze Religiose. Già ad Aparecida, davanti all’episcopato latinoamericano e poi nella CV, Benedetto XVI afferma invece che il punto di vista – o luogo ermeneutico – è la fede apostolica, e che partire dalla situazione, dalla prassi o dalle sole scienze umane è ideologico. Egli rovescia così il percorso, segnalando che anche il magistero di Paolo VI, come del resto il Concilio, è su questa linea.

La tradizione apostolica però è una sola ed ecco l’applicazione dell’ermeneutica della continuità del Concilio vaticano II anche alla DsC [più di recente, il papa l’ha applicata anche alla figura del sacerdote]. Quanti Manuali di DsC che ostentavano, articolavano e sistematizzavano questa contrapposizione dovrebbero essere rivisti e riscritti! Queste contrapposizioni sono frutto della sovrapposizione alla DsC di categorie ideologiche ad essa estranee, che impediscono di riconoscere il suo vero messaggio.

Una nuova valutazione dell’economia

Un secondo tratto caratteristico della CV è una nuova considerazione dell’attività economica. L’affermazione forse più sorprendente è che la logica del dono deve essere presente fin dall’inizio nella normale attività economica. Questo principio viene ripetuto più volte nell’enciclica e articolato anche con buoni criteri scientifici, oltre che teologici e morali. E’ un principio dalle molteplici conseguenze: non c’è prima il produrre e poi il distribuire; l’economia non può essere separata dalla società come se la prima mirasse all’efficienza e la seconda alla solidarietà; la suddivisione tra pubblico e privato o tra non profit e profit non sono più sufficienti a interpretare la realtà dell’economia; la gratuità e il dono non riguardano solo il terzo settore, ma anche il settore privato e quello cosiddetto pubblico; gli esperti devono impegnarsi a configurare giuridicamente e scientificamente nuove forme di imprenditorialità; l’imprenditorialità va intesa in modo polivalente con la possibilità di scambi reciproci tra i diversi tipi di imprenditori; e così via.

Un punto, a questo proposito, è di fondamentale importanza. Il mercato è inteso come l’ambito che rende disponibili i beni. Il papa sostiene – ma a dirlo sono ormai molti economisti – che il mercato, per funzionare, ha bisogno di beni indisponibili. Per poter produrre il mercato deve presupporre beni che esso stesso non può produrre. Partendo da questa constatazione per l’economia, la CV la amplia all’intera realtà, sostenendo che l’intero sviluppo umano si fonda su una vocazione che non gli è disponibile, ma che gli viene incontro in dono. Nessun livello di realtà può darsi da solo la sua verità. Quando un livello della realtà si chiude in se stesso, presumendo di poter bastare a se stesso, diventa prigioniero di se stesso. Senza Dio, l’uomo può produrre solo uno sviluppo disumanizzato.

Tre nuovi ambiti tematici

Questo spunto ermeneutico fondamentale viene applicato da Benedetto XVI a tre grandi tematiche dell’attualità storica: l’ateismo e le religioni, l’ambiente e la natura umana, la tecnica e la bioetica. Nessuna enciclica precedente aveva affrontare in modo così ampio ed approfondito questi elementi che sono emersi in modo dirompente dopo la famosa “crisi delle ideologie” e che contengono in sé nuove preoccupanti ideologie.

Se lo sviluppo ha bisogno di nutrirsi di una vocazione che sia altro da sé, l’ateismo è nemico dello sviluppo. E non solo, dice il papa, l’ateismo militante e persecutorio della religione, ma anche l’ateismo dell’indifferenza, o nichilismo, che viene sistematicamente propagandato anche nelle società che un tempo erano cristiane. L’ateismo soffoca le energie più autentiche dell’uomo, ne appiattisce l’impegno su obiettivi meschini, guasta le relazioni umane e impedisce agli uomini di sacrificarsi per ciò che veramente è bello e grande.

La libertà di religione è quindi un diritto fondamentale per lo sviluppo, ma va correttamente intesa. Essa non comporta che tutte le religioni siano messe sullo stesso piano – non comporta cioè l’indifferenza religiosa. C’è l’arbitro, lo Stato, che garantisce la libertà di religione ma sa anche fischiare qualche fallo, quando le religioni minacciano i diritti umani e il bene comune. Ci sono poi i giocatori, e tra essi i cattolici, che non devono farsi riguardo dal giocare la loro partita perché questo offenderebbe le altre religioni. La libertà di religione né toglie alla ragione politica l’impegno di valutare quando esse comportino una lesione dei diritti umani, né chiede che si costituisca un ambito pubblico neutro dalla religione come nel modello francese, né chiede che i cristiani debbano rinunciare ad evangelizzare.

La cura dell’ambiente e la difesa della natura umana devono essere sempre collegati insieme. La natura non va disprezzata, ma neppure sacralizzata in nuove forme di paganesimo. L’ecologismo rischia di diventare una nuova religione. La tutela dell’ambiente naturale non deve riguardare solo l’aria e l’acqua ma anche e soprattutto l’uomo. Il cristiano ha il dovere di difendere il creato, prima fra tutti la natura della persona umana che pure appartiene al creato, e non solo le foche. La difesa della vita e della famiglia non può essere separata dalla difesa della natura. Viceversa l’ecologia diventa ideologia. La difesa della vita umana è affrontata dalla CV a tre riprese e viene organicamente collegata con tutti i temi del vero sviluppo. Non sarà più possibile, da ora in avanti, parlare di ecologia e di sviluppo dimenticando le tematiche della vita.

Infine la tecnica. L’intero capitolo VI è dedicato a questo argomento, con dei passaggi di grande profondità. La tecnica è vista anche come estrema configurazione del rifiuto di un senso e quindi come estremo nemico dello sviluppo, in quanto lo riduce al massimo a crescita o ad aumento del Pil. L’enciclica vede il pericolo del tecnicismo in molti aspetti della nostra vita sociale: nella finanziarizzazione dell’economia, nei mass media, negli aiuti allo sviluppo che servono più a mantenere gli apparati che non a favorire l’uscita dalla povertà, eccetera. Ma lo vede soprattutto nel campo bioetico. C’è un genocidio in atto e quasi nessuno ne parla. I dati pubblicata recentemente dal IPF di Madrid sono agghiaccianti. L’aborto è fenomeno di massa, le nuove pratiche diagnostiche prenatali confluiscono ormai automaticamente nell’aborto quando si riscontrasse qualche malattia anche ipotetica nel feto, è in atto una spietata selezione eugenetica sia in ordine alla salute del nascituro sia in ordine al suo sesso che terrificano, i tentativi di negare la natura complementare di maschio e femmina e di mettere le mani sulla stessa identità umana fanno rabbrividire, con l’inseminazione artificiale si è superata una soglia oltre la quale non è più possibile parlare di rispetto della dignità umana. E’ qui che il papa dice che la questione sociale è diventata la questione antropologica.

Il posto di Dio nel mondo

Vorrei a questo punto indicare un quarto ed ultimo tratto caratteristico della CV, uno schema ermeneutico che essa indica e che può esserci di grande aiuto anche nella nostra attività pastorale. Ho detto all’inizio che la CV ha come tema di fondo il posto di Dio nel mondo. Non è un tema nuovo se laRerum novarum diceva che non c’è soluzione alla questione sociale fuori del Vangelo, se la PP affermava che il principale fattore di sviluppo è il Vangelo e se la Centesimus annus diceva che la Chiesa ha un diritto di cittadinanza nella società. In altri termini la DsC non può rinunciare alla pretesa che, come dice la CV, il cristianesimo non sia solo utile ma anche indispensabile alla costruzione di un vero sviluppo umano. Ma ecco il punto: come può questa pretesa non soffocare l’autonomia delle realtà terrene, la responsabilità umana, la luce della ragione e l’importanza dei saperi scientifici? Dal punto di vista pastorale si tratta di un problema chiave. La CV lo risolve in questo modo: la luce che viene da Cristo – si rilegga la Gaudium et spes su questo punto – svela l’uomo all’uomo, non ne soffoca le capacità ma anzi lo rende maggiormente capace di sé, più maturo. La luce della rivelazione non soffoca la luce della ragione, ma la aiuta ad essere se stessa. La fede cristiana può dialogare con i saperi dell’uomo in quanto non li mortifica ma li invita a scendere maggiormente in profondità dentro se stessi e produrre i loro frutti migliori. La pretesa della fede cristiana di essere “dal volto umano” sveglia la ragione, le impedisce di essere prigioniera di se stessa e la invita a non fermarsi mai. E’ per questo che la pretesa cristiana di essere la religio vera non è una imposizione ma un dialogo con la ragione, certo non con ogni tipo di ragione, ma solo con quella che non rifiuta l’invito ad allargarsi che le deriva dalla fede.

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*Stefano Fontana è Direttore dell'Osservatorio Internazionale "Cardinale Van Thuân" sulla dottrina sociale della Chiesa.
+PetaloNero+
00martedì 5 ottobre 2010 00:48
Mons. Fisichella: il “bene comune” è scomparso dall'orizzonte politico
In un incontro a Pisa sull’enciclica sociale “Caritas in Veritate” di Benedetto XVI

di Aldo Ciappi



PISA, lunedì, 4 ottobre 2010 (ZENIT.org).- La nozione di “bene comune” è scomparsa dall'orizzonte politico. E' quanto ha detto mons. Rino Fisichella, Presidente del neo costituito Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, intervenendo il 2 ottobre, presso l’aula magna del Polo Didattico “Carmignani” dell’Università degli Studi di Pisa, a un incontro sull’enciclica sociale “Caritas in Veritate” di Benedetto XVI.

All'incontro, organizzato dall’Ufficio per la Pastorale del Lavoro dell’Arcidiocesi di Pisa, erano presenti in veste di relatori, oltre a mons. Fisichella, anche due deputati cattolici, Enrico Letta e Maurizio Lupi, impegnati in opposti schieramenti politici (PD il primo e PDL il secondo), i quali hanno parlato ad un centinaio di presenti, tra cui monsignor Giovanni Paolo Benotto, Arcivescovo di Pisa, e diverse autorità civili.

Mons. Fisichella ha sottolineato la drammaticità della crisi che riguarda l’intera società umana a cui il Papa, con questa enciclica, ha voluto indirizzare un alto messaggio con al centro l’affermazione della “verità” come presupposto imprescindibile di ogni autentica azione “caritatevole” (“solo nella verità la carità risplende”; par. 3): verità sull’uomo e sulla sua dignità; verità sul lavoro, sul mercato, sullo “sviluppo”, che deve essere “integrale”, richiamando concetti già presenti in precedenti encicliche (tra cui la Populorum Progressio di Paolo VI°) aggiornati però alla luce di recenti fenomeni come la globalizzazione delle relazioni economico-sociali e delle comunicazioni, la caduta delle ideologie con il loro tragico bilancio storico, l’enorme sviluppo delle tecnologie e delle conoscenze scientifiche.

In questo contesto, ha proseguito mons. Fisichella, il Papa ha voluto richiamare l’attenzione sulla centralità delle istanze etiche che devono sempre guidare l’ azione umana in ogni campo: nella ricerca scientifica come nelle sue applicazioni; nelle relazioni economico-sociali come nel mercato e nella finanza. Il primato, dunque, alla tutela della vita e della dignità umana come metro di giudizio di un autentico sviluppo.

Un altro fondamentale messaggio del Papa nell’enciclica – sempre secondo Fisichella - è rappresentato da quel binomio inscindibile “libertà-responsabilità” che caratterizza l’agire umano: la prima, come presupposto ineliminabile della seconda; la seconda come naturale proiezione dell’estrinsecarsi della prima. Concetto che, invece, l’uomo moderno sembra aver smarrito, preso com’è dalla ricerca di una malintesa libertà, come sinonimo di “autonomia”, nel suo significato proprio di “legge a se stessa”, che pertanto non dovrebbe rendere conto a nessuno, non solo a Dio, ma neppure al prossimo e alla comunità.

Questa crisi, prima di tutto culturale e antropologica, si riflette in ogni campo e quindi anche in quello politico-legislativo, dal cui orizzonte è sparita la nozione di “bene comune” per far posto all’ affermazione di figure giuridiche nuove sulla spinta di tendenze e costumi diffusi senza che ci si ponga il problema delle loro negative ricadute sulla società, se è vero, come è vero, che le leggi producono mentalità (si pensi, per esempio all’introduzione dell’obbligo del casco).

Ciò – ha proseguito Fisichella - ricorda molto il Re Mida che voleva che tutto si piegasse alla sua volontà, trasformandosi in oro ciò che toccava, ma che alla fine, proprio per questo, perse tutto ciò di cui aveva bisogno per vivere.

Ogni diritto individuale, dunque, per essere autentico non dovrebbe mai perdere di vista la rete delle relazioni sociali in cui esso va ad inserirsi e che reclama altrettanti doveri; all’esercizio di ogni diritto si accompagna di regola una qualche “responsabilità”. Senza di ciò e senza una scala di valori coerente non vi può essere alcuna progettualità nella politica.

Quindi - secondo il presule - è necessario promuovere una politica che si proponga di produrre “cultura”: far diventare “cultura” l’ azione legislativa. Nei prossimi 20 anni, che si voglia o no, ha detto Fisichella, l’azione legislativa dovrà occuparsi delle grandi questioni della bioetica che, come Presidente emerito della Pontifica Accademia della Vita, lo stesso ha avuto modo di conoscere da vicino.

La scoperta della genetica e le nuove applicazioni delle tecniche bio-mediche hanno consentito grandi progressi ma allo stesso tempo hanno posto nuove ed angoscianti questioni: come si affronterà il problema della compravendita degli organi? Come si potrà evitare la programmazione di esseri umani di cui già oggi, in vitro, potrebbe determinarsi il sesso? Quali leggi dovrà darsi uno Stato per evitare derive facilmente immaginabili? Si dovrà prendere a misura soltanto la volontà legislativa espressa dall’autorità dello Stato sovrano, quale che essa sia? Questa è la provocazione.

La politica deve tornare ad avere il primato sull’economia, sulla finanza, sulla tecnologia; deve recuperare la sua capacità di orientamento sulla società anche alla luce dell’apporto che la Chiesa offre attraverso la formulazione di un nuovo “umanesimo” nel quale il bene dell’uomo deve tornare al centro di ogni realtà che lo circonda, non circoscritto, però, alla sua dimensione biologica, bensì aperto al trascendente, ossia a quella dimensione che dà pieno significato alle domande sul senso della vita che ciascuno di noi si pone.

Di seguito hanno preso la parola i due politici, entrambi facenti parte dell’intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà, i quali hanno dato atto come, pur appartenendo a diversa area politica ma condividendo lo spirito e gli insegnamenti dell’enciclica e più in generale della dottrina sociale della Chiesa, sia possibile svolgere un lavoro comune e raggiungere importanti obiettivi (come, per esempio, il sostegno del 5 per mille alle associazioni non profit), di aiuto concreto alla società e alle sue articolazioni. Questo a condizione che si recuperi il significato alto della politica come servizio reso alla comunità e lontano dagli interessi individuali o di partito.

Ha concluso di nuovo mons. Fisichella richiamando due passaggi chiave nell’enciclica. Da un lato, la constatazione di come “oggi il mondo soffre per la mancanza di pensiero”. Riferito al mondo della politica, esso manca di “progettualità”, di “cultura”, e una nuova classe politica di cattolici è sollecitata dal Papa a dare uno specifico contributo in questo senso. Tuttavia, se può accettarsi una frammentazione della presenza cattolica nelle varie formazioni partitiche, ciò che non è accettabile e rappresenta una vera e propria tragedia è la “diaspora culturale” dei cattolici impegnati in politica.

La politica non deve ridursi a gossip né a personalismi. I problemi da affrontare sono molteplici e urgenti; si pensi, per esempio, al crollo delle nascite in questi ultimi decenni. Se non si interviene subito con politiche adeguate non esiste futuro per questo paese. Questo è uno dei frutti della “carenza di pensiero”.

Il secondo passaggio sottolineato da mons. Fisichella riguarda il richiamo ad una ricerca costante del bene comune che, per il cristiano, costituisce “la via istituzionale o possiamo dire politica della carità” (par. 7) ed il bene comune di una società non può prescindere dal bene della famiglia. E’ da condividere, secondo il presule, il giudizio di alcuni economisti e banchieri che hanno affermato che l’attuale crisi economica è frutto anche della grave crisi della famiglia che ha portato al collasso demografico.

Non vi potrà essere futuro per questo paese, dunque, se si non porrà al centro della politica la tutela della famiglia che è l’unica istituzione che può garantire, con l’insostituibile opera educativa dei genitori, alle generazioni future la trasmissione di quel patrimonio culturale che abbiamo ereditato. A questa importante missione sono chiamati i cattolici impegnati in politica.

Alla fine, il saluto ed il ringraziamento ai relatori e ai partecipanti di mons. Benotto, il quale ha ricordato come la stessa figura di S. Ranieri, uno dei primi santi laici della storia della Chiesa, di cui Pisa celebra quest’anno l’ 850° anniversario della morte, può a buon titolo essere presa quale fulgido esempio di operatore di concordia sociale in un tempo in cui la potente città marinara era lacerata anch’essa al suo interno da forti contrasti politici.


+PetaloNero+
00domenica 24 ottobre 2010 00:46
Regole etiche di mercato al servizio del bene comune


ROMA, sabato, 23 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la “Lectio magistralis” sulla Caritas in veritate di Benedetto XVI pronunciata il 20 ottobre scorso dall'Arcivescovo di Chieti-Vasto, mons. Bruno Forte, alla Facoltà di Economia dell'Università degli Studi G. D’Annunzio di Chieti-Pescara.

* * *

1. Dalla “Populorum Progressio”… Era stato Paolo VI, il Papa dell’Enciclica Populorum Progressio (1967), ad intuire con singolare lungimiranza, al tempo della “guerra fredda” e dei blocchi contrapposti, che il futuro del pianeta sarebbe stato sempre più connesso, al punto che lo sviluppo dei popoli “dipendenti” avrebbe prima o poi condizionato anche quello delle nazioni del primo e del secondo mondo. L’idea chiave dell’Enciclica di Papa Montini - quella dello sviluppo inteso come realizzazione progressiva e sempre più integrale ed equamente distribuita della dignità di ogni persona umana e delle sue espressioni collettive - era dunque colta nell’ottica di una rete globale di rapporti di inter-dipendenza, capaci di ostacolare o favorire lo sviluppo stesso. Con la sua Caritas in veritate Benedetto XVI riprende l’intuizione del Suo Predecessore, per affermarne e approfondirne il valore permanente: “Pubblicando nel 1967 l’Enciclica Populorum progressio… Paolo VI ha illuminato il grande tema dello sviluppo dei popoli… Egli ha affermato che l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo e ci ha lasciato la consegna di camminare sulla strada dello sviluppo con tutto il nostro cuore e con tutta la nostra intelligenza, vale a dire con l’ardore della carità e la sapienza della verità... A oltre quarant’anni dalla pubblicazione dell’Enciclica, intendo rendere omaggio e tributare onore alla memoria del grande Pontefice Paolo VI, riprendendo i suoi insegnamenti sullo sviluppo umano integrale e collocandomi nel percorso da essi tracciato, per attualizzarli nell’ora presente. Questo processo di attualizzazione iniziò con l’Enciclica Sollicitudo rei socialis, con cui il Servo di Dio Giovanni Paolo II volle commemorare la pubblicazione della Populorum progressio in occasione del suo ventennale. Fino ad allora, una simile commemorazione era stata riservata solo alla Rerum novarum. Passati altri vent’anni, esprimo la mia convinzione che la Populorum progressio merita di essere considerata come la Rerum novarum dell’epoca contemporanea, che illumina il cammino dell’umanità in via di unificazione” (n. 8).

2. Alla “Caritas in veritate”… L’idea chiave dell’Enciclica di Paolo VI è approfondita da Benedetto XVI nel contesto dell’attuale globalizzazione, descritta come “la novità principale” prodottasi negli oltre quarant’anni trascorsi: l’espressione si riferisce all’esplosione dell’interdipendenza planetaria, processo che, “nato dentro i Paesi economicamente sviluppati, ha prodotto un coinvolgimento di tutte le economie… e rappresenta di per sé una grande opportunità. Tuttavia, senza la guida della carità nella verità, questa spinta planetaria può concorrere a creare rischi di danni sconosciuti finora e di nuove divisioni nella famiglia umana” (n. 33). Si individua qui la domanda di fondo dell’Enciclica, che ne ha reso particolarmente impegnativa l’elaborazione e ne mostra la scottante attualità: come valorizzare la globalizzazione, evitandone i pericoli drammaticamente evidenziati dalla crisi economica mondiale in atto, dovuti all’avidità e alla spavalderia con cui alcune agenzie hanno giocato sull’apparente omologazione della finanza virtuale con l’economia reale a proprio vantaggio e a danno dei più deboli, nell’assenza di ogni organismo di controllo capace di incidere a livello planetario?

3. L’economia ha bisogno dell’etica. La risposta del Papa è netta: l’economia da sola non basta a promuovere il bene comune, né, peraltro, la carità come guida dei rapporti personali e sociali è sufficiente, se l’una e l’altra non si coniugano all’individuazione ed al rispetto di norme oggettive, che abbiano carattere di esigitività morale per tutti. “L’economia ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento; non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona” (45). Al centro della valutazione morale in campo economico deve esserci la dignità di ogni essere umano, lo sviluppo di tutto l’uomo in ogni uomo. “Desidererei ricordare a tutti - scrive il Papa -, soprattutto ai governanti impegnati a dare un profilo rinnovato agli assetti economici e sociali del mondo, che il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità” (n. 25). Il discorso si fa estremamente concreto: “La dignità della persona e le esigenze della giustizia richiedono che, soprattutto oggi, le scelte economiche non facciano aumentare in modo eccessivo e moralmente inaccettabile le differenze di ricchezza e che si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti” (n. 32).

4. Un’economia eticamente responsabile è anche economicamente più efficace. Nell’analisi del Papa ciò è esigito anche dalla “ragione economica”: “L’aumento sistemico delle ineguaglianze tra gruppi sociali… ha anche un impatto negativo sul piano economico, attraverso la progressiva erosione del capitale sociale, ossia di quell’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile” (ib.). Il mondo, le società, le persone non cresceranno se non insieme! E questo perché “i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani” (ib.). Si comprende in tal senso la preoccupazione del Papa riguardo al ricorso egoistico alla delocalizzazione del lavoro: “Non è lecito delocalizzare solo per godere di particolari condizioni di favore, o peggio per sfruttamento, senza apportare alla società locale un vero contributo per la nascita di un robusto sistema produttivo e sociale” (n. 40). Anche in campo economico, “il rispetto dei legittimi diritti degli individui e dei popoli” (n. 4) proibisce di agire per pregiudizio, considerando l’altro come minaccia e rifiutandogli le garanzie dovute alla sua dignità di persona, specialmente se in particolari condizioni di bisogno e di fragilità. Si pensi al dramma degli immigrati clandestini: “Ogni migrante - afferma il Papa - è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione” (n. 62). O si pensi all’abuso delle risorse energetiche da parte di alcuni paesi, alla crisi ecologica che sempre più ne consegue a danno di tutti (cap. IV dell’Enciclica), all’uso della tecnica non finalizzata alla promozione della dignità della persona ma al potere di alcuni su altri (cap. VI), o ancora alla manipolazione e alla violenza esercitata sulla vita umana, nella varietà delle sue fasi e delle sue espressioni (nn.74-75)…

5. Il “principio di gratuità” in economia. Questo forte richiamo alla sensibilità etica in campo economico e sociale non ha nulla di moralistico. L’Enciclica, ad esempio, non demonizza in alcun modo il profitto e l’impresa, come avveniva nelle letture ideologiche massimaliste. Ciò che deve però caratterizzare il conseguimento del profitto e l’imprenditorialità è l’attenzione all’eticità dei mezzi e dei fini, oltre che al reinvestimento sociale dei profitti stessi. Qui Benedetto XVI avanza un’idea di grande fascino, che appare supportata dalle tante forme di finanza etica e di economia di comunione che si vanno sviluppando nel mondo: la rilevanza del principio di gratuità in economia (n. 34). Se è vero che non si crescerà se non insieme, il reinvestimento di una parte degli utili al servizio della promozione umana e sociale dei più deboli è garanzia di benessere per tutti. “Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica” (n. 35). Ne è riprova l’impatto positivo avuto nelle economie delle varie forme di microcredito e di partecipazione cooperativa. Il Papa della Deus caritas est lancia in tal modo un messaggio di estrema attualità: senza regole etico-sociali oggettive lo slancio della solidarietà e l’impresa economica sono a rischio per tutti. “Senza la verità, la carità… è esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività” (n. 4). Il villaggio globale ha bisogno tanto di amore, quanto di verità. Saranno capaci i grandi della terra e gli esperti di economia di corrispondere a questa sfida?

6. Accoglienza dell’Enciclica. Le reazioni all’Enciclica indicano segnali complessi: se da una parte si registra un largo apprezzamento da parte di organismi di governo, da esponenti della politica e dell’economia, dall’altra non mancano riserve esplicite o implicite. Il direttore della Banca d’Italia Mario Draghi fa sue le tesi del Papa, spiegando che “uno sviluppo di lungo periodo non è possibile senza l’etica. Questa è una implicazione fondamentale, per l’economista… Per riprendere la via dello sviluppo occorre creare le condizioni affinché le aspettative generali, quelle che Keynes chiamava di lungo periodo, tornino favorevoli. È necessario ricostituire la fiducia delle imprese, delle famiglie, dei cittadini, delle persone nella capacità di crescita stabile delle economie” (Non c'è vero sviluppo senza etica, in L’Osservatore Romano 9 Luglio 2009). Il Premio Nobel 1974 per l’economia Paul Samuelson commenta positivamente l’enciclica, sostenendo che “il Papa con la sua enciclica sta cercando di riportarci ad una realtà che potrebbe diventare più vivibile con un ritorno all’etica nella finanza”. Secondo Samuelson in ciò che è avvenuto negli ultimi anni in campo economico-finanziario le regole più elementari del comune buon senso sono state eluse per dar spazio alla “deregulation” più selvaggia, all’arroganza del potere finanziario, alla noncuranza per la dignità umana. Pur accettando i processi della globalizzazione, Benedetto XVI ne denuncia lucidamente i pericoli e gli eccessi che possono far crescere povertà e disuguaglianza: se tali processi fossero ben gestiti, potrebbero condurre ad una redistribuzione della ricchezza a livello planetario, alleviando le sofferenze di tanti esseri umani. E ciò esige la coniugazione di carità e verità (Il Denaro, 14 Luglio 2009).

7. Obiezioni all’Enciclica. Fra le reazioni critiche, vanno segnalate alcune voci che provengono dagli Stati Uniti, in particolare da quell’America fedele alla tradizione del “rugged individualism”e al mito del “magnificent destiny” legato all’economia liberale. Il politologo e teorico dell’economia Michael Novak afferma di preferire al documento di Benedetto XVI l’enciclica Centesimus Annus, sostenendo che “Giovanni Paolo II aveva affrontato la crisi del sistema più chiaramente” e che “la tradizione cattolica sembra porre ancora troppo l’accento sulla carità, la virtù e la giustizia e non si concentra abbastanza sui metodi per sconfiggere il peccato dell’uomo” (Io preferivo la “Centesimus Annus”, in Liberal, 10-07-2009). Ancora più netta la critica dell’economista George Weigel, secondo il quale alcuni passaggi dell’Enciclica “sono semplicemente incomprensibili, come quando si afferma che per sconfiggere la povertà del Terzo Mondo e il sottosviluppo si richiede una ‘necessaria apertura, in un contesto mondiale, a forme di attività economica segnate da quote di gratuità e di comunione’. Questo può significare qualcosa di interessante; può significare anche qualcosa di ingenuo o stupido. Ma, contestualmente, è praticamente impossibile sapere cosa significa…. Ciò che può essere inteso come un nuovo punto di partenza concettuale per la dottrina sociale cattolica è, in realtà, un confuso sentimento precisamente dello stesso tipo di quelli che l’enciclica deplora come staccati dalla verità nella carità. Vi è anche un po’ di più nell’enciclica circa la ridistribuzione della ricchezza piuttosto che la creazione di ricchezza - un segno sicuro delle posizioni erronee di Giustizia e Pace al lavoro. E un altro aspetto preferito di Giustizia e Pace - la creazione di una ‘autorità politica mondiale’ al fine di garantire lo sviluppo umano integrale - è rivisitato, senza approfondire il modo in cui tale autorità dovrebbe operare normalmente, non più di quanto non lo si approfondisca nel fideismo curiale circa l’intrinseca superiorità della governance transnazionale” (Caritas in Veritate in Gold and Red. The revenge of Justice and Peace (or so they may think), in National Review on line July 7, 2009). Dal canto suo, lo storico italiano Paolo Prodi lamenta la mancanza di “senso tragico” nell’Enciclica, perché “il mercato è conflitto”: “Con questa Enciclica Benedetto XVI cerca di fissare delle coordinate metastoriche all’economia. Ma questa sottrazione alla storia fa problema… ” (nell’intervista fattagli da Marco Burini su Il Foglio 1 Luglio 2009).

Conclusione. Risposta alle obiezioni e prospettive. Risponde a queste critiche l’economista Stefano Zamagni, indicato fra gli ispiratori del testo della Caritas in veritate: “Ci sono due concezioni del mercato. La prima identifica il mercato con il sistema capitalistico. Se uno sposa questa tesi è evidente che metterà il principio del dono fuori dal mercato, nelle attività di volontariato, filantropiche. L’altra concezione, l’economia civile, è stata dominante fino a tutto il Settecento, poi è finita nell’ombra e solo negli ultimi anni si riaffaccia. Secondo questa tradizione di pensiero il mercato è il genere, il capitalismo la specie: dunque il mercato per funzionare bene deve incorporare il principio del dono. Uno è libero di scegliere la prima tesi o la seconda, basta non mischiarle… La dottrina sociale della chiesa riprende una linea di pensiero antichissima iniziata nell’XI secolo e portata avanti dai cistercensi e dai francescani: se il mercato è opera dell’uomo che vive in società non si vede perché l’uomo quando entra nel mercato debba abbandonare la virtù, il dono… È un filone di cui l’ultimo grande teorico è l’abate Antonio Genovesi, il primo titolare di una cattedra di Economia, all’Università di Napoli, nel Settecento… Ci vorranno anni per capire questa enciclica che usa categorie innovative… Gli americani avevano scommesso su un’enciclica che sconfessasse la ‘Populorum progressio’ e sono rimasti spiazzati. Le polemiche sul dono sono un pretesto” (intervista di Marco Burini su Il Foglio 16 Luglio 2009). Fra le posizioni elogiative di molti e quelle critiche provenienti soprattutto dal pensiero liberale americano, ci sono infine le voci ufficiali di consenso dei neo-liberisti europei politicamente impegnati: i loro elogi appaiono tuttavia inficiati da ricerca di consenso, perché di fatto le loro politiche in campo economico-sociale sembrano fare tutt’altro che tesoro delle indicazioni dell’Enciclica (si pensi solo alla politica sulle immigrazioni,o a quelle sulle fasce sociali più deboli). In conclusione, l’Enciclica appare come un sasso nello stagno, che scuote il dibattito economico mondiale in un momento di grande crisi, in cui la posta in gioco è altissima: o tornare indietro dopo tanto clamore alle scellerate politiche finanziarie, fruttuose in termini di profitto per pochi, ma devastanti per l’economia reale e l’interesse dei più; o imbarcarsi in una seria revisione delle regole della finanza e del mercato, per ridisegnare l’ordine economico internazionale e il sistema interno ad ogni paese alla luce del principio di gratuità, che riordini il profitto in vista del bene comune sulla base della convinzione che più etica e solidarietà in economia significano anche più verità e carità, e in ultima analisi economia più sana, giusta e vantaggiosa per tutti.
+PetaloNero+
00martedì 16 novembre 2010 00:26
"Caritas in Veritate", anche nel mondo sanitario
Mons. Zimowski: si ponga fine alle disuguaglianze nell'assistenza medica

di Carmen Elena Villa


CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 15 novembre 2010 (ZENIT.org).- Per il Presidente del Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, monsignor Zygmunt Zimowski, “le attuali diseguaglianze nell’assistenza sanitaria esigono che si intraprenda un’azione coraggiosa senza indugio”.

Il presule lo ha affermato questa mattina durante una conferenza stampa nella Santa Sede, nella quale è stata presentata la XXV conferenza internazionale “Per una cura della salute equa ed umana alla luce della Enciclica Caritas in Veritate”.

L'evento accademico si svolgerà il 18 e il 19 novembre a Roma. Tra i relatori figurano i Cardinali Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, Renato Raffaele Martino, Presidente emerito del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, e il titolare di questo dicastero, il Cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson.

Monsignor Zimowski ha affermato che risulta sempre più difficile “conciliare il progresso economico, scientifico e tecnico con la persistente disparità di accesso ai servizi sanitari, che è un diritto umano fondamentale”.

Allo stesso modo, ha denunciato le “continue ineguaglianze tra i sistemi sanitari dei Paesi ricchi e quelli dei Paesi in via di sviluppo, e peggio ancora di quelli cosiddetti meno sviluppati”.

Il presule ha inoltre rimarcato come all'interno degli stessi Paesi ricchi esistano “ampie differenze nell’accesso alle cure sanitarie”.

“Molti poveri ed emarginati non hanno accesso ai farmaci e ad altre tecnologie salvavita, a causa dei costi inaccessibili o delle scarse infrastrutture sanitarie esistenti nelle loro Nazioni”, ha lamentato.

Questa conferenza, guidata dai passi della “Caritas in Veritate” dedicati al tema della salute, “esaminerà, tra l’altro, le prospettive basilari per una promozione equa e più umana della salute”, ha detto monsignor Zimowski.

Per il professor Domenico Adruni, ordinario di Ginecologia e Ostetricia, questo evento vuole “riportare l’uomo, il paziente, al centro del nostro interesse”, e prendere così coscienza del fatto che “qualcosa sta mancando nelle Nazioni piú avanzate e anche nelle più sfortunate, ma forse più fortunate dal punto di vista umano, che chiedono sempre cure migliori”.

Padre P. Maurizio Faggioni, O.F.M., docente di Bioetica all'Accademia Alfonsiana di Roma, ha affermato dal canto suo che la conferenza vuole mostrare il tema della salute come “un diritto naturale, umano, fondato sulla persona, la dignità, sul guardare all'altro”.

Alcune statistiche sul tema sono state presentate dal sottosegretario del Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, monsignor Jean-Marie Mpendawatu: “mentre in Italia le nascite assistite da personale sanitario qualificato sono il 99%, se andiamo in Etiopia il 6% delle donne in gravidanza ha questa possibilità, in Uganda il 42% e in Laos il 20%”.

Monsignor Zimowski ha quindi espresso l'auspicio che questa conferenza “faccia luce sui modi di migliorare l’accesso alla tanto desiderata parità di assistenza sanitaria di base, che sia allo stesso tempo rispettosa della dignità inalienabile dell’uomo”.

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