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Paparatzifan
00martedì 7 febbraio 2012 21:00
Dal blog di Lella...

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI PER LA QUARESIMA 2012

«Prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone» (Eb10,24)

Fratelli e sorelle,

la Quaresima ci offre ancora una volta l'opportunità di riflettere sul cuore della vita cristiana: la carità. Infatti questo è un tempo propizio affinché, con l'aiuto della Parola di Dio e dei Sacramenti, rinnoviamo il nostro cammino di fede, sia personale che comunitario. E' un percorso segnato dalla preghiera e dalla condivisione, dal silenzio e dal digiuno, in attesa di vivere la gioia pasquale.

Quest’anno desidero proporre alcuni pensieri alla luce di un breve testo biblico tratto dalla Lettera agli Ebrei: «Prestiamo attenzione gli uni agli altri per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone» (10,24).

E’ una frase inserita in una pericope dove lo scrittore sacro esorta a confidare in Gesù Cristo come sommo sacerdote, che ci ha ottenuto il perdono e l'accesso a Dio. Il frutto dell'accoglienza di Cristo è una vita dispiegata secondo le tre virtù teologali: si tratta di accostarsi al Signore «con cuore sincero nella pienezza della fede» (v. 22), di mantenere salda «la professione della nostra speranza» (v. 23) nell'attenzione costante ad esercitare insieme ai fratelli «la carità e le opere buone» (v. 24). Si afferma pure che per sostenere questa condotta evangelica è importante partecipare agli incontri liturgici e di preghiera della comunità, guardando alla meta escatologica: la comunione piena in Dio (v. 25). Mi soffermo sul versetto 24, che, in poche battute, offre un insegnamento prezioso e sempre attuale su tre aspetti della vita cristiana: l'attenzione all'altro, la reciprocità e la santità personale.

1. “Prestiamo attenzione”: la responsabilità verso il fratello.

Il primo elemento è l'invito a «fare attenzione»: il verbo greco usato è katanoein,che significa osservare bene, essere attenti, guardare con consapevolezza, accorgersi di una realtà. Lo troviamo nel Vangelo, quando Gesù invita i discepoli a «osservare» gli uccelli del cielo, che pur senza affannarsi sono oggetto della sollecita e premurosa Provvidenza divina (cfr Lc 12,24), e a «rendersi conto» della trave che c’è nel proprio occhio prima di guardare alla pagliuzza nell'occhio del fratello (cfr Lc 6,41). Lo troviamo anche in un altro passo della stessa Lettera agli Ebrei, come invito a «prestare attenzione a Gesù» (3,1), l'apostolo e sommo sacerdote della nostra fede. Quindi, il verbo che apre la nostra esortazione invita a fissare lo sguardo sull’altro, prima di tutto su Gesù, e ad essere attenti gli uni verso gli altri, a non mostrarsi estranei, indifferenti alla sorte dei fratelli. Spesso, invece, prevale l’atteggiamento contrario: l’indifferenza, il disinteresse, che nascono dall’egoismo, mascherato da una parvenza di rispetto per la «sfera privata».
Anche oggi risuona con forza la voce del Signore che chiama ognuno di noi a prendersi cura dell'altro. Anche oggi Dio ci chiede di essere «custodi» dei nostri fratelli (cfr Gen 4,9), di instaurare relazioni caratterizzate da premura reciproca, da attenzione al bene dell'altro e a tutto il suo bene. Il grande comandamento dell'amore del prossimo esige e sollecita la consapevolezza di avere una responsabilità verso chi, come me, è creatura e figlio di Dio: l’essere fratelli in umanità e, in molti casi, anche nella fede, deve portarci a vedere nell'altro un vero alter ego, amato in modo infinito dal Signore. Se coltiviamo questo sguardo di fraternità, la solidarietà, la giustizia, così come la misericordia e la compassione, scaturiranno naturalmente dal nostro cuore. Il Servo di Dio Paolo VI affermava che il mondo soffre oggi soprattutto di una mancanza di fraternità: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (Lett. enc. Populorum progressio [26 marzo 1967], n. 66).

L’attenzione all’altro comporta desiderare per lui o per lei il bene, sotto tutti gli aspetti: fisico, morale e spirituale. La cultura contemporanea sembra aver smarrito il senso del bene e del male, mentre occorre ribadire con forza che il bene esiste e vince, perché Dio è «buono e fa il bene» (Sal 119,68). Il bene è ciò che suscita, protegge e promuove la vita, la fraternità e la comunione. La responsabilità verso il prossimo significa allora volere e fare il bene dell'altro, desiderando che anch'egli si apra alla logica del bene; interessarsi al fratello vuol dire aprire gli occhi sulle sue necessità.

La Sacra Scrittura mette in guardia dal pericolo di avere il cuore indurito da una sorta di «anestesia spirituale» che rende ciechi alle sofferenze altrui.

L’evangelista Luca riporta due parabole di Gesù in cui vengono indicati due esempi di questa situazione che può crearsi nel cuore dell’uomo. In quella del buon Samaritano, il sacerdote e il levita «passano oltre», con indifferenza, davanti all’uomo derubato e percosso dai briganti (cfr Lc 10,30-32), e in quella del ricco epulone, quest’uomo sazio di beni non si avvede della condizione del povero Lazzaro che muore di fame davanti alla sua porta (cfr Lc 16,19). In entrambi i casi abbiamo a che fare con il contrario del «prestare attenzione», del guardare con amore e compassione. Che cosa impedisce questo sguardo umano e amorevole verso il fratello? Sono spesso la ricchezza materiale e la sazietà, ma è anche l’anteporre a tutto i propri interessi e le proprie preoccupazioni. Mai dobbiamo essere incapaci di «avere misericordia» verso chi soffre; mai il nostro cuore deve essere talmente assorbito dalle nostre cose e dai nostri problemi da risultare sordo al grido del povero. Invece proprio l’umiltà di cuore e l'esperienza personale della sofferenza possono rivelarsi fonte di risveglio interiore alla compassione e all'empatia: «Il giusto riconosce il diritto dei miseri, il malvagio invece non intende ragione» (Pr 29,7). Si comprende così la beatitudine di «coloro che sono nel pianto» (Mt 5,4), cioè di quanti sono in grado di uscire da se stessi per commuoversi del dolore altrui. L'incontro con l'altro e l'aprire il cuore al suo bisogno sono occasione di salvezza e di beatitudine.

Il «prestare attenzione» al fratello comprende altresì la premura per il suo bene spirituale. E qui desidero richiamare un aspetto della vita cristiana che mi pare caduto in oblio: la correzione fraterna in vista della salvezza eterna. Oggi, in generale, si è assai sensibili al discorso della cura e della carità per il bene fisico e materiale degli altri, ma si tace quasi del tutto sulla responsabilità spirituale verso i fratelli. Non così nella Chiesa dei primi tempi e nelle comunità veramente mature nella fede, in cui ci si prende a cuore non solo la salute corporale del fratello, ma anche quella della sua anima per il suo destino ultimo.

Nella Sacra Scrittura leggiamo: «Rimprovera il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio e diventerà ancora più saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere» (Pr 9,8s). Cristo stesso comanda di riprendere il fratello che sta commettendo un peccato (cfr Mt 18,15). Il verbo usato per definire la correzione fraterna - elenchein - è il medesimo che indica la missione profetica di denuncia propria dei cristiani verso una generazione che indulge al male (cfr Ef 5,11). La tradizione della Chiesa ha annoverato tra le opere di misericordia spirituale quella di «ammonire i peccatori». E’ importante recuperare questa dimensione della carità cristiana. Non bisogna tacere di fronte al male. Penso qui all’atteggiamento di quei cristiani che, per rispetto umano o per semplice comodità, si adeguano alla mentalità comune, piuttosto che mettere in guardia i propri fratelli dai modi di pensare e di agire che contraddicono la verità e non seguono la via del bene. Il rimprovero cristiano, però, non è mai animato da spirito di condanna o recrimina-zione; è mosso sempre dall’amore e dalla misericordia e sgorga da vera sollecitudine per il bene del fratello. L’apostolo Paolo afferma: «Se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con spirito di dolcezza. E tu vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu» (Gal 6,1). Nel nostro mondo impregnato di individualismo, è necessario riscoprire l’importanza della correzione fraterna, per camminare insieme verso la santità. Persino «il giusto cade sette volte» (Pr 24,16), dice la Scrittura, e noi tutti siamo deboli e manchevoli (cfr 1 Gv 1,8). E’ un grande servizio quindi aiutare e lasciarsi aiutare a leggere con verità se stessi, per migliorare la propria vita e camminare più rettamente nella via del Signore. C’è sempre bisogno di uno sguardo che ama e corregge, che conosce e riconosce, che discerne e perdona (cfr Lc 22,61), come ha fatto e fa Dio con ciascuno di noi.

2. “Gli uni agli altri”: il dono della reciprocità.

Tale «custodia» verso gli altri contrasta con una mentalità che, riducendo la vita alla sola dimensione terrena, non la considera in prospettiva escatologica e accetta qualsiasi scelta morale in nome della libertà individuale. Una società come quella attuale può diventare sorda sia alle sofferenze fisiche, sia alle esigenze spirituali e morali della vita. Non così deve essere nella comunità cristiana! L’apostolo Paolo invita a cercare ciò che porta «alla pace e alla edificazione vicendevole» (Rm 14,19), giovando al «prossimo nel bene, per edificarlo» (ibid. 15,2), senza cercare l'utile proprio «ma quello di molti, perché giungano alla salvezza» (1 Cor 10,33). Questa reciproca correzione ed esortazione, in spirito di umiltà e di carità, deve essere parte della vita della comunità cristiana.

I discepoli del Signore, uniti a Cristo mediante l’Eucaristia, vivono in una comunione che li lega gli uni agli altri come membra di un solo corpo. Ciò significa che l'altro mi appartiene, la sua vita, la sua salvezza riguardano la mia vita e la mia salvezza. Tocchiamo qui un elemento molto profondo della comunione:la nostra esistenza è correlata con quella degli altri, sia nel bene che nel male; sia il peccato, sia le opere di amore hanno anche una dimensione sociale. Nella Chiesa, corpo mistico di Cristo, si verifica tale reciprocità: la comunità non cessa di fare penitenza e di invocare perdono per i peccati dei suoi figli, ma si rallegra anche di continuo e con giubilo per le testimonianze di virtù e di carità che in essa si dispiegano. «Le varie membra abbiano cura le une delle altre»(1 Cor 12,25), afferma San Paolo, perché siamo uno stesso corpo.

La carità verso i fratelli, di cui è un’espressione l'elemosina - tipica pratica quaresimale insieme con la preghiera e il digiuno - si radica in questa comune appartenenza. Anche nella preoccupazione concreta verso i più poveri ogni cristiano può esprimere la sua partecipazione all'unico corpo che è la Chiesa. Attenzione agli altri nella reciprocità è anche riconoscere il bene che il Signore compie in essi e ringraziare con loro per i prodigi di grazia che il Dio buono e onnipotente continua a operare nei suoi figli.

Quando un cristiano scorge nell'altro l'azione dello Spirito Santo, non può che gioirne e dare gloria al Padre celeste (cfr Mt 5,16).

3. “Per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone”: camminare insieme nella santità.

Questa espressione della Lettera agli Ebrei (10,24) ci spinge a considerare la chiamata universale alla santità, il cammino costante nella vita spirituale, ad aspirare ai carismi più grandi e a una carità sempre più alta e più feconda (cfr 1 Cor 12,31-13,13). L'attenzione reciproca ha come scopo il mutuo spronarsi ad un amore effettivo sempre maggiore, «come la luce dell'alba, che aumenta lo splendore fino al meriggio» (Pr 4,18), in attesa di vivere il giorno senza tramonto in Dio. Il tempo che ci è dato nella nostra vita è prezioso per scoprire e compiere le opere di bene, nell’amore di Dio. Così la Chiesa stessa cresce e si sviluppa per giungere alla piena maturità di Cristo (cfr Ef 4,13). In tale prospettiva dinamica di crescita si situa la nostra esortazione a stimolarci reciprocamente per giungere alla pienezza dell'amore e delle buone opere.
Purtroppo è sempre presente la tentazione della tiepidezza, del soffocare lo Spirito, del rifiuto di «trafficare i talenti» che ci sono donati per il bene nostro e altrui (cfr Mt 25,25s). Tutti abbiamo ricevuto ricchezze spirituali o materiali utili per il compimento del piano divino, per il bene della Chiesa e per la salvezza personale (cfr Lc 12,21b; 1 Tm 6,18). I maestri spirituali ricordano che nella vita di fede chi non avanza retrocede. Cari fratelli e sorelle, accogliamo l'invito sempre attuale a tendere alla «misura alta della vita cristiana» (Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte [6 gennaio 2001], n. 31). La sapienza della Chiesa nel riconoscere e proclamare la beatitudine e la santità di taluni cristiani esemplari, ha come scopo anche di suscitare il desiderio di imitarne le virtù. San Paolo esorta: «gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rm 12,10).
Di fronte ad un mondo che esige dai cristiani una testimonianza rinnovata di amore e di fedeltà al Signore, tutti sentano l’urgenza di adoperarsi per gareggiare nella carità, nel servizio e nelle opere buone (cfr Eb 6,10). Questo richiamo è particolarmente forte nel tempo santo di preparazione alla Pasqua. Con l’augurio di una santa e feconda Quaresima, vi affido all’intercessione della Beata Vergine Maria e di cuore imparto a tutti la Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 3 novembre 2011

BENEDICTUS PP. XVI

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana


Paparatzifan
00mercoledì 8 febbraio 2012 14:11
Dal blog di Lella...

L’UDIENZA GENERALE, 08.02.2012

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

La preghiera di Gesù di fronte alla morte (Mc e Mt)

Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei riflettere con voi sulla preghiera di Gesù nell’imminenza della morte, soffermandomi su quanto ci riferiscono san Marco e san Matteo. I due Evangelisti riportano la preghiera di Gesù morente non soltanto nella lingua greca, in cui è scritto il loro racconto, ma, per l'importanza di quelle parole, anche in una mescolanza di ebraico ed aramaico. In questo modo essi hanno tramandato non solo il contenuto, ma persino il suono che tale preghiera ha avuto sulle labbra di Gesù: ascoltiamo realmente le parole di Gesù come erano. Nel contempo, essi ci hanno descritto l’atteggiamento dei presenti alla crocifissione, che non compresero – o non vollero comprendere – questa preghiera.

Scrive san Marco, come abbiamo ascoltato: «Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: “Eloì, Eloì, lemà sabactàni?”, che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”» (15,34). Nella struttura del racconto, la preghiera, il grido di Gesù si alza al culmine delle tre ore di tenebre che, da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, calarono su tutta la terra. Queste tre ore di oscurità sono, a loro volta, la continuazione di un precedente lasso di tempo, pure di tre ore, iniziato con la crocifissione di Gesù. L'Evangelista Marco, infatti, ci informa che: «Erano le nove del mattino quando lo crocifissero» (cfr 15,25). Dall'insieme delle indicazioni orarie del racconto, le sei ore di Gesù sulla croce sono articolate in due parti cronologicamente equivalenti.

Nelle prime tre ore, dalle nove fino a mezzogiorno, si collocano le derisioni di diversi gruppi di persone, che mostrano il loro scetticismo, affermano di non credere. Scrive san Marco: «Quelli che passavano di là lo insultavano» (15,29); «così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi, fra loro si facevano beffe di lui» (15,31); «e anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano» (15,32).

Nelle tre ore seguenti, da mezzogiorno «fino alle tre del pomeriggio», l’Evangelista parla soltanto delle tenebre discese su tutta la terra; il buio occupa da solo tutta la scena senza alcun riferimento a movimenti di personaggi o a parole. Quando Gesù si avvicina sempre più alla morte, c’è solo l'oscurità che cala «su tutta la terra».

Anche il cosmo prende parte a questo evento: il buio avvolge persone e cose, ma pure in questo momento di tenebre Dio è presente, non abbandona. Nella tradizione biblica, il buio ha un significato ambivalente: è segno della presenza e dell’azione del male, ma anche di una misteriosa presenza e azione di Dio che è capace di vincere ogni tenebra.

Nel Libro dell'Esodo, ad esempio, leggiamo: «Il Signore disse a Mosè: “Ecco, io sto per venire verso di te in una densa nube”» (19,9); e ancora: «Il popolo si tenne dunque lontano, mentre Mosè avanzò verso la nube oscura dove era Dio» (20,21). E nei discorsi del Deuteronomio, Mosè racconta: «Il monte ardeva, con il fuoco che si innalzava fino alla sommità del cielo, fra tenebre, nuvole e oscurità» (4,11); voi «udiste la voce in mezzo alle tenebre, mentre il monte era tutto in fiamme» (5,23). Nella scena della crocifissione di Gesù le tenebre avvolgono la terra e sono tenebre di morte in cui il Figlio di Dio si immerge per portare la vita, con il suo atto di amore.

Tornando alla narrazione di san Marco, davanti agli insulti delle diverse categorie di persone, davanti al buio che cala su tutto, nel momento in cui è di fronte alla morte, Gesù con il grido della sua preghiera mostra che, assieme al peso della sofferenza e della morte in cui sembra ci sia abbandono, l’assenza di Dio, Egli ha la piena certezza della vicinanza del Padre, che approva questo atto supremo di amore, di dono totale di Sé, nonostante non si oda, come in altri momenti, la voce dall’alto. Leggendo i Vangeli, ci si accorge che in altri passaggi importanti della sua esistenza terrena Gesù aveva visto associarsi ai segni della presenza del Padre e dell’approvazione al suo cammino di amore, anche la voce chiarificatrice di Dio. Così, nella vicenda che segue il battesimo al Giordano, allo squarciarsi dei cieli, si era udita la parola del Padre: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (Mc 1,11). Nella trasfigurazione, poi, al segno della nube si era affiancata la parola: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7). Invece, all’avvicinarsi della morte del Crocifisso, scende il silenzio, non si ode alcuna voce, ma lo sguardo di amore del Padre rimane fisso sul dono di amore del Figlio.

Ma che significato ha la preghiera di Gesù, quel grido che lancia al Padre: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato», il dubbio della sua missione, della presenza del Padre? In questa preghiera non c’è forse la consapevolezza proprio di essere stato abbandonato? Le parole che Gesù rivolge al Padre sono l’inizio del Salmo 22, in cui il Salmista manifesta a Dio la tensione tra il sentirsi lasciato solo e la consapevolezza certa della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Il Salmista prega: «Mio Dio, grido di giorno e non rispondi; di notte, e non c’è tregua per me. Eppure tu sei il Santo, tu siedi in trono fra le lodi d’Israele» (vv. 3-4). Il Salmista parla di «grido» per esprimere tutta la sofferenza della sua preghiera davanti a Dio apparentemente assente: nel momento di angoscia la preghiera diventa un grido.

E questo avviene anche nel nostro rapporto con il Signore: davanti alle situazioni più difficili e dolorose, quando sembra che Dio non senta, non dobbiamo temere di affidare a Lui tutto il peso che portiamo nel nostro cuore, non dobbiamo avere paura di gridare a Lui la nostra sofferenza, dobbiamo essere convinti che Dio è vicino, anche se apparentemente tace.

Ripetendo dalla croce proprio le parole iniziali del Salmo, “Elì, Elì, lemà sabactàni?” – “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46), gridando le parole del Salmo, Gesù prega nel momento dell’ultimo rifiuto degli uomini, nel momento dell’abbandono; prega, però, con il Salmo, nella consapevolezza della presenza di Dio Padre anche in quest’ora in cui sente il dramma umano della morte. Ma in noi emerge una domanda: come è possibile che un Dio così potente non intervenga per sottrarre il suo Figlio a questa prova terribile? E’ importante comprendere che la preghiera di Gesù non è il grido di chi va incontro con disperazione alla morte, e neppure è il grido di chi sa di essere abbandonato. Gesù in quel momento fa suo l’intero Salmo 22, il Salmo del popolo di Israele che soffre, e in questo modo prende su di Sé non solo la pena del suo popolo, ma anche quella di tutti gli uomini che soffrono per l’oppressione del male e, allo stesso tempo, porta tutto questo al cuore di Dio stesso nella certezza che il suo grido sarà esaudito nella Risurrezione: «il grido nell'estremo tormento è al contempo certezza della risposta divina, certezza della salvezza – non soltanto per Gesù stesso, ma per “molti” » (Gesù di Nazaret II, 239-240). In questa preghiera di Gesù sono racchiusi l’estrema fiducia e l’abbandono nelle mani di Dio, anche quando sembra assente, anche quando sembra rimanere in silenzio, seguendo un disegno a noi incomprensibile. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica leggiamo così: «Nell’amore redentore che sempre lo univa al Padre, Gesù ci ha assunto nella nostra separazione da Dio a causa del peccato al punto da poter dire a nome nostro sulla croce: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”» (n. 603). Il suo è un soffrire in comunione con noi e per noi, che deriva dall’amore e già porta in sé la redenzione, la vittoria dell’amore.

Le persone presenti sotto la croce di Gesù non riescono a capire e pensano che il suo grido sia una supplica rivolta ad Elia. In una scena concitata, essi cercano di dissetarlo per prolungarne la vita e verificare se veramente Elia venga in suo soccorso, ma un forte urlo pone termine alla vita terrena di Gesù e al loro desiderio. Nel momento estremo, Gesù lascia che il suo cuore esprima il dolore, ma lascia emergere, allo stesso tempo, il senso della presenza del Padre e il consenso al suo disegno di salvezza dell’umanità. Anche noi ci troviamo sempre e nuovamente di fronte all’«oggi» della sofferenza, del silenzio di Dio - lo esprimiamo tante volte nella nostra preghiera - ma ci troviamo anche di fronte all’«oggi» della Risurrezione, della risposta di Dio che ha preso su di Sé le nostre sofferenze, per portarle insieme con noi e darci la ferma speranza che saranno vinte (cfr Lett. enc. Spe salvi, 35-40).

Cari amici, nella preghiera portiamo a Dio le nostre croci quotidiane, nella certezza che Lui è presente e ci ascolta. Il grido di Gesù ci ricorda come nella preghiera dobbiamo superare le barriere del nostro «io» e dei nostri problemi e aprirci alle necessità e alle sofferenze degli altri. La preghiera di Gesù morente sulla Croce ci insegni a pregare con amore per tanti fratelli e sorelle che sentono il peso della vita quotidiana, che vivono momenti difficili, che sono nel dolore, che non hanno una parola di conforto; portiamo tutto questo al cuore di Dio, perché anch’essi possano sentire l’amore di Dio che non ci abbandona mai. Grazie.

APPELLO

Cari fratelli e sorelle,

nelle ultime settimane un’ondata di freddo e di gelo si è abbattuta su alcune Regioni dell’Europa provocando forti disagi e ingenti danni, come sappiamo. Desidero manifestare la mia vicinanza alle popolazioni colpite da così intenso maltempo, mentre invito alla preghiera per le vittime e i loro familiari. Al tempo stesso incoraggio alla solidarietà affinché siano soccorse con generosità le persone provate da tali tragici avvenimenti.

© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana


Paparatzifan
00domenica 12 febbraio 2012 21:01
Dal blog di Lella...

LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 12.02.2012

Alle ore 12 di oggi il Santo Padre Benedetto XVI si affaccia alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare l’Angelus con i fedeli ed i pellegrini convenuti in Piazza San Pietro.
Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:

PRIMA DELL’ANGELUS

Cari fratelli e sorelle!

Domenica scorsa abbiamo visto che Gesù, nella sua vita pubblica, ha guarito molti malati, rivelando che Dio vuole per l’uomo la vita, la vita in pienezza. Il Vangelo di questa domenica (Mc 1,40-45) ci mostra Gesù a contatto con la forma di malattia considerata a quei tempi la più grave, tanto da rendere la persona "impura" e da escluderla dai rapporti sociali: parliamo della lebbra. Una speciale legislazione (cfr Lv 13-14) riservava ai sacerdoti il compito di dichiarare la persona lebbrosa, cioè impura; e ugualmente spettava al sacerdote constatarne la guarigione e riammettere il malato risanato alla vita normale.

Mentre Gesù andava predicando per i villaggi della Galilea, un lebbroso gli si fece incontro e gli disse: "Se vuoi, puoi purificarmi!". Gesù non sfugge al contatto con quell’uomo, anzi, spinto da intima partecipazione alla sua condizione, stende la mano e lo tocca – superando il divieto legale – e gli dice: "Lo voglio, sii purificato!". In quel gesto e in quelle parole di Cristo c’è tutta la storia della salvezza, c’è incarnata la volontà di Dio di guarirci, di purificarci dal male che ci sfigura e che rovina le nostre relazioni. In quel contatto tra la mano di Gesù e il lebbroso viene abbattuta ogni barriera tra Dio e l’impurità umana, tra il Sacro e il suo opposto, non certo per negare il male e la sua forza negativa, ma per dimostrare che l’amore di Dio è più forte di ogni male, anche di quello più contagioso e orribile. Gesù ha preso su di sé le nostre infermità, si è fatto "lebbroso" perché noi fossimo purificati.

Uno splendido commento esistenziale a questo Vangelo è la celebre esperienza di san Francesco d’Assisi, che egli riassume all’inizio del suo Testamento: "Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo" (FF, 110).

In quei lebbrosi, che Francesco incontrò quando era ancora "nei peccati" - come egli dice - era presente Gesù; e quando Francesco si avvicinò a uno di loro e, vincendo il proprio ribrezzo, lo abbracciò, Gesù lo guarì dalla sua lebbra, cioè dal suo orgoglio, e lo convertì all’amore di Dio. Ecco la vittoria di Cristo, che è la nostra guarigione profonda e la nostra risurrezione a vita nuova!

Cari amici, rivolgiamoci in preghiera alla Vergine Maria, che ieri abbiamo celebrato facendo memoria delle sue apparizioni a Lourdes. A santa Bernardetta la Madonna consegnò un messaggio sempre attuale: l’invito alla preghiera e alla penitenza. Attraverso sua Madre è sempre Gesù che ci viene incontro, per liberarci da ogni malattia del corpo e dell’anima. Lasciamoci toccare e purificare da Lui, e usiamo misericordia verso i nostri fratelli!

DOPO L’ANGELUS

Cari fratelli e sorelle!

Seguo con molta apprensione i drammatici e crescenti episodi di violenza in Siria. Negli ultimi giorni essi hanno provocato numerose vittime. Ricordo nella preghiera le vittime, fra cui ci sono alcuni bambini, i feriti e quanti soffrono le conseguenze di un conflitto sempre più preoccupante. Inoltre rinnovo un pressante appello a porre fine alla violenza e allo spargimento di sangue. Infine, invito tutti - e anzitutto le Autorità politiche in Siria - a privilegiare la via del dialogo, della riconciliazione e dell’impegno per la pace. E’ urgente rispondere alle legittime aspirazioni delle diverse componenti della Nazione, come pure agli auspici della comunità internazionale, preoccupata del bene comune dell’intera società e della Regione.

Aujourd’hui, chers frères et sœurs francophones, la Parole de Dieu nous invite à agir comme des hommes et des femmes libres. À la suite de Saint Paul les chrétiens sont invités à promouvoir la liberté et la charité. Jésus, par sa vie, sa souffrance, sa mort et sa Résurrection est venu purifier l’homme tout entier afin de le rendre libre. Il est venu nous ouvrir à la Vie. Chacun de nous est invité à proclamer les merveilles de Dieu et à répandre la Bonne-Nouvelle. Puissions-nous avec la Vierge Marie rendre gloire à notre Dieu, par toute notre vie et en toute liberté ! Bon dimanche et bonne semaine à tous !

I am pleased to welcome all of you to Saint Peter’s Square on this cold morning, especially the students and staff of Sion-Manning School from London. At Mass today, the Gospel tells us of how our Lord willingly cured a leper. May we not be afraid to go to Jesus, beg him to heal our sinfulness, and bring us safely to eternal life. God bless you and your loved ones!

Mit Freude grüße ich alle Pilger und Besucher deutscher Sprache. Im Evangelium des heutigen Sonntags haben wir gehört, wie Jesus mit den Worten „Werde rein!" einen Aussätzigen heilt. Die Unreinheit isoliert den Kranken von den Menschen. Er wird sogar unfähig, Gottesdienst zu feiern, mit Gott in Beziehung zu treten. Christus führt den Kranken ins Leben und in die Gemeinschaft zurück. Er lädt auch uns ein, aus der Gemeinschaft mit ihm Boten des Friedens und der Hoffnung für unsere Mitmenschen zu werden. Der Herr segne euch und eure Familien.

Saludo con afecto a los peregrinos de lengua española, en particular a los fieles de la diócesis de Coria-Cáceres, así como a las Hermanas de los Pobres de San Pedro Claver. Hoy la liturgia nos hace ver cómo la súplica confiada conmueve el corazón del Señor, que manifiesta su deseo de sanarnos, purificarnos y reconciliarnos con Él y con los hombres. Exhorto a todos a imitar la fe del leproso del Evangelio, buscando a Jesús en la oración y los Sacramentos con humildad y contrición, para alcanzar la limpieza de corazón, y poder así proclamar su grandeza con la propia vida. Muchas gracias.

Radosno pozdravljam i blagoslivljam sve hrvatske hodočasnike! Vaše hodočašće u Rim i posjet grobovima apostola neka učvrsti vašu vjeru kako biste oduševljeno svjedočili kršćansku nadu i ljubili bližnje. Hvaljen Isus i Marija!

[Con gioia saluto e benedico tutti i pellegrini Croati. Il vostro pellegrinaggio all’Urbe e la visita alle tombe degli Apostoli rafforzi la vostra fede, affinché con entusiasmo possiate testimoniare la speranza cristiana e amare gli altri. Siano lodati Gesù e Maria!]

Szeretettel köszöntöm a magyar zarándokokat, különösen is a kiskunfélegyházai Constantinum Intézmény csoportját. A keresztény szellemben történő nevelés nagy adomány, egyben kötelezettség is, hogy tanúságtételünkkel átadjuk a hitet.

[Saluto cordialmente i pellegrini ungheresi, particolarmente il gruppo degli scolari del "Constantinum Intézmény", di Kiskunfélegyháza. L’educazione nello spirito cristiano è un grando dono ed anche un obbligo per la trasmissione della fede tramite la testimonianza.]

Srdečne pozdravujem pútnikov zo Slovenska, osobitne z Bratislavy a okolia. Bratia a sestry, prajem vám požehnaný pobyt vo Večnom meste, kde vydali svedectvo Kristovi toľkí mučeníci. S láskou žehnám vás i vaše rodiny. Pochválený buď Ježiš Kristus!

[Saluto cordialmente i pellegrini provenienti dalla Slovacchia, particolarmente quelli da Bratislava e dintorni. Fratelli e sorelle, vi auguro un buon soggiorno nella Città eterna, dove tanti martiri hanno dato testimonianza a Cristo. Con affetto benedico voi e le vostre famiglie. Sia lodato Gesù Cristo! ]

Serdecznie pozdrawiam wszystkich Polaków. „Jeśli zechcesz możesz mnie oczyścić"…, „Chcę, bądź oczyszczony" Mk 1, 40-41) – oto dialog Chrystusa z trędowatym z dzisiejszej Ewangelii. Jest on obrazem czułości, z jaką Bóg pochyla się nad człowiekiem, tak często bezradnym wobec cierpienia, bólu, agresji zła. Tylko On może wyzwolić nas z trądu grzechów i zagubienia w życiu. Zawsze ufajmy w Jego moc i miłosierdzie. On jest Zbawicielem świata. Z serca wam wszystkim błogosławię.

[Saluto cordialmente tutti i Polacchi. "Se vuoi, puoi purificarmi!"… "Lo voglio, sii purificato!" (Mk 1,40-41) – ecco il dialogo di Cristo con un lebbroso dal Vangelo odierno. È un quadro della delicatezza con la quale Dio si china sull’uomo, così spesso impotente di fronte alla sofferenza, al dolore, all’aggressione del male. Solo Lui ci può liberare dalla lebbra del peccato e dallo smarrimento nella vita. Abbiamo sempre fiducia nella sua potenza e nella sua misericordia! Lui è il Salvatore del mondo. Vi benedico tutti di cuore.]

E infine rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare alla comunità del Seminario Vescovile di Patti, in Sicilia. A tutti auguro una buona domenica e una buona settimana! La prossima domenica senza neve! Tanti auguri, buona domenica.

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Paparatzifan
00lunedì 13 febbraio 2012 21:03
Dal blog di Lella...

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE PER XLIX GIORNATA MONDIALE DI PREGHIERA PER LE VOCAZIONI, 13.02.2012

Il 29 aprile 2012, IV Domenica di Pasqua, si celebra la 49ma Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni sul tema: "Le vocazioni dono della Carità di Dio".
Pubblichiamo di seguito il Messaggio che il Santo Padre Benedetto XVI invia per l’occasione ai Vescovi, ai sacerdoti ed ai fedeli di tutto il mondo:

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle!

la XLIX Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, che sarà celebrata il 29 aprile 2012, quarta domenica di Pasqua, ci invita a riflettere sul tema: Le vocazioni dono della Carità di Dio.

La fonte di ogni dono perfetto è Dio Amore - Deus caritas est -: «chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Gv 4,16). La Sacra Scrittura narra la storia di questo legame originario tra Dio e l’umanità, che precede la stessa creazione. San Paolo, scrivendo ai cristiani della città di Efeso, eleva un inno di gratitudine e lode al Padre, il quale con infinita benevolenza dispone lungo i secoli l’attuarsi del suo universale disegno di salvezza, che è disegno d’amore. Nel Figlio Gesù - afferma l’Apostolo - Egli «ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità» (Ef 1,4). Noi siamo amati da Dio "prima" ancora di venire all’esistenza! Mosso esclusivamente dal suo amore incondizionato, Egli ci ha "creati dal nulla" (cfr 2Mac 7,28) per condurci alla piena comunione con Sé.

Preso da grande stupore davanti all’opera della provvidenza di Dio, il Salmista esclama: "Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?" (Sal 8,4-5). La verità profonda della nostra esistenza è, dunque, racchiusa in questo sorprendente mistero: ogni creatura, in particolare ogni persona umana, è frutto di un pensiero e di un atto di amore di Dio, amore immenso, fedele, eterno (cfr Ger 31,3). La scoperta di questa realtà è ciò che cambia veramente la nostra vita nel profondo. In una celebre pagina delle Confessioni, sant’Agostino esprime con grande intensità la sua scoperta di Dio somma bellezza e sommo amore, un Dio che gli era stato sempre vicino, ma al quale finalmente apriva la mente e il cuore per essere trasformato: "Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace" (X, 27.38). Con queste immagini, il Santo di Ippona cerca di descrivere il mistero ineffabile dell’incontro con Dio, con il Suo amore che trasforma tutta l’esistenza.

Si tratta di un amore senza riserve che ci precede, ci sostiene e ci chiama lungo il cammino della vita e ha la sua radice nell’assoluta gratuità di Dio. Riferendosi in particolare al ministero sacerdotale, il mio predecessore, il Beato Giovanni Paolo II, affermava che «ogni gesto ministeriale, mentre conduce ad amare e a servire la Chiesa, spinge a maturare sempre più nell’amore e nel servizio a Gesù Cristo Capo, Pastore e Sposo della Chiesa, un amore che si configura sempre come risposta a quello preveniente, libero e gratuito di Dio in Cristo» (Esort. ap. Pastores dabo vobis, 25). Ogni specifica vocazione nasce, infatti, dall’iniziativa di Dio, è dono della Carità di Dio! È Lui a compiere il "primo passo" e non a motivo di una particolare bontà riscontrata in noi, bensì in virtù della presenza del suo stesso amore «riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo» (Rm 5,5).

In ogni tempo, alla sorgente della chiamata divina c’è l’iniziativa dell’amore infinito di Dio, che si manifesta pienamente in Gesù Cristo. Come ho scritto nella mia prima Enciclica Deus caritas est, «di fatto esiste una molteplice visibilità di Dio. Nella storia d’amore che la Bibbia ci racconta, Egli ci viene incontro, cerca di conquistarci - fino all’Ultima Cena, fino al Cuore trafitto sulla croce, fino alle apparizioni del Risorto e alle grandi opere mediante le quali Egli, attraverso l’azione degli Apostoli, ha guidato il cammino della Chiesa nascente. Anche nella successiva storia della Chiesa il Signore non è rimasto assente: sempre di nuovo ci viene incontro - attraverso uomini nei quali Egli traspare; attraverso la sua Parola, nei Sacramenti, specialmente nell’Eucaristia» (n. 17).

L’amore di Dio rimane per sempre, è fedele a se stesso, alla «parola data per mille generazioni» (Sal 105,8). Occorre, pertanto, riannunciare, specialmente alle nuove generazioni, la bellezza invitante di questo amore divino, che precede e accompagna: esso è la molla segreta, è la motivazione che non viene meno, anche nelle circostanze più difficili.

Cari fratelli e sorelle, è a questo amore che dobbiamo aprire la nostra vita, ed è alla perfezione dell’amore del Padre (cfr Mt 5,48) che ci chiama Gesù Cristo ogni giorno! La misura alta della vita cristiana consiste infatti nell’amare "come" Dio; si tratta di un amore che si manifesta nel dono totale di sé fedele e fecondo. Alla priora del monastero di Segovia, in pena per la drammatica situazione di sospensione in cui egli si trovava in quegli anni, San Giovanni della Croce risponde invitandola ad agire secondo Dio: «Non pensi ad altro se non che tutto è disposto da Dio; e dove non c’è amore, metta amore e raccoglierà amore» (Epistolario, 26).

Su questo terreno oblativo, nell’apertura all’amore di Dio e come frutto di questo amore, nascono e crescono tutte le vocazioni. Ed è attingendo a questa sorgente nella preghiera, con l’assidua frequentazione della Parola e dei Sacramenti, in particolar modo dell’Eucaristia, che è possibile vivere l’amore verso il prossimo nel quale si impara a scorgere il volto di Cristo Signore (cfr Mt 25,31-46). Per esprimere il legame inscindibile che intercorre tra questi "due amori" – l’amore verso Dio e quello verso il prossimo - scaturiti dalla medesima sorgente divina e ad essa orientati, il Papa San Gregorio Magno usa l’esempio della pianticella: «Nel terreno del nostro cuore [Dio] ha piantato prima la radice dell’amore verso di Lui e poi si è sviluppato, come chioma, l’amore fraterno» (Moralium Libri, sive expositio in Librum B. Job, Lib. VII, cap. 24, 28; PL 75, 780D).

Queste due espressioni dell’unico amore divino, devono essere vissute con particolare intensità e purezza di cuore da coloro che hanno deciso di intraprendere un cammino di discernimento vocazionale verso il ministero sacerdotale e la vita consacrata; ne costituiscono l’elemento qualificante.

Infatti, l’amore per Dio, di cui i presbiteri e i religiosi diventano immagini visibili - seppure sempre imperfette - è la motivazione della risposta alla chiamata di speciale consacrazione al Signore attraverso l’Ordinazione presbiterale o la professione dei consigli evangelici. Il vigore della risposta di san Pietro al divino Maestro: «Tu lo sai che ti voglio bene» (Gv 21,15), è il segreto di una esistenza donata e vissuta in pienezza, e per questo ricolma di profonda gioia.

L’altra espressione concreta dell’amore, quello verso il prossimo, soprattutto verso i più bisognosi e sofferenti, è la spinta decisiva che fa del sacerdote e della persona consacrata un suscitatore di comunione tra la gente e un seminatore di speranza. Il rapporto dei consacrati, specialmente del sacerdote, con la comunità cristiana è vitale e diventa anche parte fondamentale del loro orizzonte affettivo. Al riguardo, il Santo Curato d’Ars amava ripetere: «Il prete non è prete per sé; lo è per voi» (Le curé d’Ars. Sa pensée – Son cœur, Foi Vivante, 1966, p. 100).

Cari Fratelli nell’episcopato, cari presbiteri, diaconi, consacrati e consacrate, catechisti, operatori pastorali e voi tutti impegnati nel campo dell’educazione delle nuove generazioni, vi esorto con viva sollecitudine a porvi in attento ascolto di quanti all’interno delle comunità parrocchiali, delle associazioni e dei movimenti avvertono il manifestarsi dei segni di una chiamata al sacerdozio o ad una speciale consacrazione. È importante che nella Chiesa si creino le condizioni favorevoli affinché possano sbocciare tanti "sì", quali generose risposte alla chiamata di amore di Dio.

Sarà compito della pastorale vocazionale offrire i punti di orientamento per un fruttuoso percorso. Elemento centrale sarà l’amore alla Parola di Dio, coltivando una familiarità crescente con la Sacra Scrittura e una preghiera personale e comunitaria attenta e costante, per essere capaci di sentire la chiamata divina in mezzo a tante voci che riempiono la vita quotidiana. Ma soprattutto l’Eucaristia sia il "centro vitale" di ogni cammino vocazionale: è qui che l’amore di Dio ci tocca nel sacrificio di Cristo, espressione perfetta di amore, ed è qui che impariamo sempre di nuovo a vivere la "misura alta" dell’amore di Dio. Parola, preghiera ed Eucaristia sono il tesoro prezioso per comprendere la bellezza di una vita totalmente spesa per il Regno.

Auspico che le Chiese locali, nelle loro varie componenti, si facciano "luogo" di attento discernimento e di profonda verifica vocazionale, offrendo ai giovani e alle giovani un saggio e vigoroso accompagnamento spirituale. In questo modo la comunità cristiana diventa essa stessa manifestazione della Carità di Dio che custodisce in sé ogni chiamata. Tale dinamica, che risponde alle istanze del comandamento nuovo di Gesù, può trovare eloquente e singolare attuazione nelle famiglie cristiane, il cui amore è espressione dell’amore di Cristo che ha dato se stesso per la sua Chiesa (cfr Ef 5,32). Nelle famiglie, «comunità di vita e di amore» (Gaudium et spes, 48), le nuove generazioni possono fare mirabile esperienza di questo amore oblativo. Esse, infatti, non solo sono il luogo privilegiato della formazione umana e cristiana, ma possono rappresentare «il primo e il miglior seminario della vocazione alla vita di consacrazione al Regno di Dio» (Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio, 53), facendo riscoprire, proprio all’interno della famiglia, la bellezza e l’importanza del sacerdozio e della vita consacrata. I Pastori e tutti i fedeli laici sappiano sempre collaborare affinché nella Chiesa si moltiplichino queste «case e scuole di comunione» sul modello della Santa Famiglia di Nazareth, riflesso armonico sulla terra della vita della Santissima Trinità.

Con questi auspici, imparto di cuore la Benedizione Apostolica a voi, Venerati Fratelli nell’episcopato, ai sacerdoti, ai diaconi, ai religiosi, alle religiose e a tutti i fedeli laici, in particolare ai giovani e alle giovani che con cuore docile si pongono in ascolto della voce di Dio, pronti ad accoglierla con adesione generosa e fedele.

Dal Vaticano, 18 ottobre 2011

BENEDICTUS PP XVI

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Paparatzifan
00mercoledì 15 febbraio 2012 14:14
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L’UDIENZA GENERALE, 15.02.2012

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 nell’Aula Paolo VI dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di fedeli e pellegrini provenienti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana il Papa, continuando il ciclo di catechesi sulla preghiera, ha incentrato la sua meditazione sulla preghiera di Gesù nell’imminenza della morte (cfr Lc 23,34).
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre Benedetto XVI ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

La preghiera di Gesù nell'imminenza della morte - Lc

Cari fratelli e sorelle,

nella nostra scuola di preghiera, mercoledì scorso, ho parlato sulla preghiera di Gesù sulla Croce presa dal Salmo 22: "Dio, Dio mio perché mi hai abbandonato?" adesso vorrei continuare a meditare sulla preghiera di Gesù in croce, nell’imminenza della morte, vorrei soffermarmi oggi sulla narrazione che incontriamo nel Vangelo di san Luca. L'Evangelista ci ha tramandato tre parole di Gesù sulla croce, due delle quali – la prima e la terza – sono preghiere rivolte esplicitamente al Padre. La seconda, invece, è costituita dalla promessa fatta al cosiddetto buon ladrone, crocifisso con Lui; rispondendo, infatti, alla preghiera del ladrone, Gesù lo rassicura: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43).

Nel racconto di Luca sono così intrecciate suggestivamente le due preghiere che Gesù morente indirizza al Padre e l'accoglienza della supplica che a Lui è rivolta dal peccatore pentito. Gesù invoca il Padre e insieme ascolta la preghiera di quest’uomo che spesso è chiamato latro poenitens, «il ladrone pentito».

Soffermiamoci su queste tre preghiere di Gesù. La prima la pronuncia subito dopo essere stato inchiodato sulla croce, mentre i soldati si stanno dividendo le sue vesti come triste ricompensa del loro servizio. In un certo senso è con questo gesto che si chiude il processo della crocifissione.
Scrive san Luca: «Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: "Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno". Poi dividendo le sue vesti, le tirarono a sorte» (23,33-34).

La prima preghiera che Gesù rivolge al Padre è di intercessione: chiede il perdono per i propri carnefici. Con questo, Gesù compie in prima persona quanto aveva insegnato nel discorso della montagna quando aveva detto: «A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano» (Lc 6,27) e aveva anche promesso a quanti sanno perdonare: «la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo» (v. 35). Adesso, dalla croce, Egli non solo perdona i suoi carnefici, ma si rivolge direttamente al Padre intercedendo a loro favore.

Questo atteggiamento di Gesù trova un’«imitazione» commovente nel racconto della lapidazione di santo Stefano, primo martire. Stefano, infatti, ormai prossimo alla fine, «piegò le ginocchia e gridò a gran voce: "Signore, non imputare loro questo peccato". Detto questo, morì» (At 7,60): questa è stata la sua ultima parola.

Il confronto tra la preghiera di perdono di Gesù e quella del protomartire è significativo. Santo Stefano si rivolge al Signore Risorto e chiede che la sua uccisione – un gesto definito chiaramente con l’espressione «questo peccato» – non sia imputata ai suoi lapidatori. Gesù sulla croce si rivolge al Padre e non solo chiede il perdono per i suoi crocifissori, ma offre anche una lettura di quanto sta accadendo. Secondo le sue parole, infatti, gli uomini che lo crocifiggono «non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Egli pone cioè l’ignoranza, il «non sapere», come motivo della richiesta di perdono al Padre, perché questa ignoranza lascia aperta la via verso la conversione, come del resto avviene nelle parole che pronuncerà il centurione alla morte di Gesù: «Veramente, quest’uomo era giusto» (v. 47), era il Figlio di Dio. «Rimane una consolazione per tutti i tempi e per tutti gli uomini il fatto che il Signore, sia a riguardo di coloro che veramente non sapevano – i carnefici – sia di coloro che sapevano e lo avevano condannato, pone l'ignoranza quale motivo della richiesta di perdono – la vede come porta che può aprirci alla conversione» (Gesù di Nazaret, II, 233).

La seconda parola di Gesù sulla croce riportata da san Luca è una parola di speranza, è la risposta alla preghiera di uno dei due uomini crocifissi con Lui. Il buon ladrone davanti a Gesù rientra in se stesso e si pente, si accorge di trovarsi di fronte al Figlio di Dio, che rende visibile il Volto stesso di Dio, e lo prega: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (v. 42). La risposta del Signore a questa preghiera va ben oltre la richiesta; infatti dice: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (v. 43). Gesù è consapevole di entrare direttamente nella comunione col Padre e di riaprire all’uomo la via per il paradiso di Dio. Così attraverso questa risposta dona la ferma speranza che la bontà di Dio può toccarci anche nell’ultimo istante della vita e la preghiera sincera, anche dopo una vita sbagliata, incontra le braccia aperte del Padre buono che attende il ritorno del figlio.

Ma fermiamoci sulle ultime parole di Gesù morente. L’Evangelista racconta: «Era già verso mezzogiorno e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, perché il sole si era eclissato. Il velo del tempio si squarciò a metà. Gesù, gridando a gran voce, disse: "Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito". Detto questo, spirò» (vv. 44-46). Alcuni aspetti di questa narrazione sono diversi rispetto al quadro offerto in Marco e in Matteo.

Le tre ore di oscurità in Marco non sono descritte, mentre in Matteo sono collegate con una serie di diversi avvenimenti apocalittici, come il terremoto, l’apertura dei sepolcri, i morti che risuscitano (cfr Mt 27,51-53). In Luca, le ore di oscurità hanno la loro causa nell’eclissarsi del sole, ma in quel momento avviene anche il lacerarsi del velo del tempio. In questo modo il racconto lucano presenta due segni, in qualche modo paralleli, nel cielo e nel tempio. Il cielo perde la sua luce, la terra sprofonda, mentre nel tempio, luogo della presenza di Dio, si lacera il velo che protegge il santuario. La morte di Gesù è caratterizzata esplicitamente come evento cosmico e liturgico; in particolare, segna l’inizio di un nuovo culto, in un tempio non costruito da uomini, perché è il Corpo stesso di Gesù morto e risorto, che raduna i popoli e li unisce nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue.

La preghiera di Gesù, in questo momento di sofferenza – «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» - è un forte grido di estremo e totale affidamento a Dio. Tale preghiera esprime la piena consapevolezza di non essere abbandonato. L’invocazione iniziale - «Padre» – richiama la sua prima dichiarazione di ragazzo dodicenne.

Allora era rimasto per tre giorni nel tempio di Gerusalemme, il cui velo ora si è squarciato. E quando i genitori gli avevano manifestato la loro preoccupazione, aveva risposto: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo essere in ciò che è del Padre mio?» (Lc 2,49). Dall'inizio alla fine, quello che determina completamente il sentire di Gesù, la sua parola, la sua azione, è la relazione unica con il Padre. Sulla croce Egli vive pienamente, nell’amore, questa sua relazione filiale con Dio, che anima la sua preghiera.

Le parole pronunciate da Gesù, dopo l'invocazione «Padre», riprendono un'espressione del Salmo 31: «Alle tue mani affido il mio spirito» (Sal 31,6). Queste parole, però, non sono una semplice citazione, ma piuttosto manifestano una decisione ferma: Gesù si «consegna» al Padre in un atto di totale abbandono. Queste parole sono una preghiera di «affidamento», piena di fiducia nell’amore di Dio. La preghiera di Gesù di fronte alla morte è drammatica come lo è per ogni uomo, ma, allo stesso tempo, è pervasa da quella calma profonda che nasce dalla fiducia nel Padre e dalla volontà di consegnarsi totalmente a Lui. Nel Getsemani, quando era entrato nella lotta finale e nella preghiera più intensa e stava per essere «consegnato nelle mani degli uomini» (Lc 9,44), il suo sudore era diventato «come gocce di sangue che cadono a terra» (Lc 22,44). Ma il suo cuore era pienamente obbediente alla volontà del Padre, e per questo «un angelo dal cielo» era venuto a confortarlo (cfr Lc 22,42-43). Ora, negli ultimi istanti, Gesù si rivolge al Padre dicendo quali sono realmente le mani a cui Egli consegna tutta la sua esistenza. Prima della partenza per il viaggio verso Gerusalemme, Gesù aveva insistito con i suoi discepoli: «Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini» (Lc 9,44). Adesso, che la vita sta per lasciarlo, Egli sigilla nella preghiera la sua ultima decisione: Gesù si è lasciato consegnare «nelle mani degli uomini», ma è nelle mani del Padre che Egli pone il suo spirito; così – come afferma l’Evangelista Giovanni – tutto è compiuto, il supremo atto di amore è portato sino alla fine, al limite e al di là del limite.

Cari fratelli e sorelle, le parole di Gesù sulla croce negli ultimi istanti della sua vita terrena offrono indicazioni impegnative alla nostra preghiera, ma la aprono anche ad una serena fiducia e ad una ferma speranza.

Gesù che chiede al Padre di perdonare coloro che lo stanno crocifiggendo, ci invita al difficile gesto di pregare anche per coloro che ci fanno torto, ci hanno danneggiato, sapendo perdonare sempre, affinché la luce di Dio possa illuminare il loro cuore; e ci invita a vivere, nella nostra preghiera, lo stesso atteggiamento di misericordia e di amore che Dio ha nei nostri confronti: «rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori», diciamo quotidianamente nel «Padre nostro».

Allo stesso tempo, Gesù, che nel momento estremo della morte si affida totalmente nelle mani di Dio Padre, ci comunica la certezza che, per quanto dure siano le prove, difficili i problemi, pesante la sofferenza, non cadremo mai fuori delle mani di Dio, quelle mani che ci hanno creato, ci sostengono e ci accompagnano nel cammino dell’esistenza, perché guidate da un amore infinito e fedele.

Grazie.

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Paparatzifan
00giovedì 16 febbraio 2012 20:36
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UDIENZA AI PARTECIPANTI AL SIMPOSIO DEI VESCOVI DI AFRICA E DI EUROPA, 16.02.2012

Alle ore 12.15 di oggi, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza i partecipanti al Simposio del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) e del Simposio delle Conferenze Episcopali di Africa e Madagascar (SECAM/SCEAM), che si è tenuto in questi giorni a Roma sul tema: "L’evangelizzazione oggi: comunione e collaborazione pastorale tra l’Africa e l’Europa. L’uomo e Dio: la missione della Chiesa di annunciare la presenza e l’amore di Dio".
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa rivolge ai presenti nel corso dell’udienza:

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Signori Cardinali,
Cari Fratelli nell’episcopato,
Cari fratelli e sorelle!

Sono lieto di accogliervi al termine del Simposio dei Vescovi d’Africa e d’Europa e vi saluto tutti con grande affetto, in particolare il Cardinale Péter Erdő, Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa, e il Cardinale Polycarp Pengo, Presidente del Simposio delle Conferenze Episcopali dell’Africa e del Madagascar, ringraziandoli per le gentili espressioni con le quali hanno introdotto questo nostro incontro. Esprimo il mio vivo apprezzamento a quanti hanno promosso le giornate di studio, durante le quali vi siete confrontati sul tema dell’evangelizzazione odierna delle vostre terre, alla luce della reciproca comunione e collaborazione pastorale che si è instaurata durante il primo simposio dell’anno 2004.

Con voi rendo grazie a Dio, per i frutti spirituali scaturiti dai rapporti di amicizia e dalla cooperazione tra le comunità ecclesiali dei vostri Continenti nel corso di questi anni. A partire da ambienti culturali, sociali ed economici differenti, voi avete valorizzato la comune tensione apostolica per annunciare alla vostra gente Gesù Cristo e il suo Vangelo, nello stile dello «scambio di doni».
Continuate su questa feconda strada di fraternità operosa e di unità di intenti, ampliando sempre più gli orizzonti dell’evangelizzazione. Per la Chiesa in Europa, infatti, l’incontro con la Chiesa in Africa è sempre un momento di grazia a motivo della speranza e della gioia con cui le comunità ecclesiali africane vivono e comunicano la fede, come ho potuto constatare nei miei viaggi apostolici. D’altra parte, è bello vedere come la Chiesa in Africa, pur vivendo in mezzo a tante difficoltà e con il bisogno di pace e di riconciliazione, è disponibile a condividere la sua fede.

Nei rapporti tra Chiesa in Africa e Chiesa in Europa, sia vostra cura tenere presente il fondamentale legame tra fede e carità, perché esse si illuminano a vicenda nella loro verità. La carità favorisce l’apertura e l’incontro con l’uomo di oggi, nella sua realtà concreta, per portare a lui Cristo e il suo amore per ogni persona e ogni famiglia, specialmente per quanti sono più poveri e soli. «Caritas Christi urget nos» (2 Cor 5,14): è infatti l’amore di Cristo che colma i cuori e spinge ad evangelizzare. Il divino Maestro, oggi come allora, invia i suoi discepoli per le strade del mondo per proclamare il suo messaggio di salvezza a tutti i popoli della terra (cfr Lett. ap. Porta fidei, 7).

Le odierne sfide che avete dinanzi, cari Fratelli, sono impegnative. Penso, in primo luogo, all’indifferenza religiosa, che porta molte persone a vivere come se Dio non ci fosse o ad accontentarsi di una religiosità vaga, incapace di misurarsi con la questione della verità e il dovere della coerenza. Oggi, soprattutto in Europa, ma anche in alcune parti dell’Africa, si sente il peso dell’ambiente secolarizzato e spesso ostile alla fede cristiana. Altra sfida per l’annuncio del Vangelo è l’edonismo, che ha contribuito a far penetrare la crisi dei valori nella vita quotidiana, nella struttura della famiglia, nel modo stesso di interpretare il senso dell’esistenza. Sintomo di una situazione di grave malessere sociale è pure il dilagare di fenomeni quali la pornografia e la prostituzione. Voi siete ben consapevoli di queste sfide, che provocano la vostra coscienza pastorale e il vostro senso di responsabilità. Esse non devono scoraggiarvi, ma piuttosto costituire occasione per rinnovare l’impegno e la speranza, la speranza che nasce dalla consapevolezza che la notte è avanzata, il giorno è vicino (cfr Rm 13,12), perché Cristo risorto è sempre con noi. Nelle società d’Africa e d’Europa sono presenti non poche forze buone, molte delle quali fanno capo alle parrocchie e si distinguono per l’impegno di santificazione personale e di apostolato. Auspico che, col vostro aiuto, esse possano diventare sempre più cellule vive e vitali della nuova evangelizzazione.

La famiglia sia al centro delle vostre attenzioni di Pastori: essa, chiesa domestica, è anche la più solida garanzia per il rinnovamento della società. Nella famiglia, che custodisce usanze, tradizioni, costumi, riti impregnati di fede, si trova il terreno più adatto per il fiorire delle vocazioni. L’odierna mentalità consumistica può avere ripercussioni negative sul sorgere e sulla cura delle vocazioni; di qui la necessità di prestare particolare attenzione alla promozione delle vocazioni sacerdotali e di speciale consacrazione. La famiglia è anche il fulcro formativo della gioventù. L’Europa e l’Africa hanno bisogno di giovani generosi, che sappiano farsi carico responsabilmente del loro futuro, e tutte le Istituzioni devono avere ben presente che in questi giovani è racchiuso l’avvenire e che è importante fare tutto il possibile perché il loro cammino non sia segnato dall’incertezza e dal buio. Cari Fratelli, seguite con speciale premura la loro crescita umana e spirituale, incoraggiando anche le iniziative di volontariato che possono avere valore educativo.

Nella formazione delle nuove generazioni assume un ruolo importante la dimensione culturale. Voi conoscete bene quanto la Chiesa stimi e promuova ogni autentica forma di cultura, a cui offre la ricchezza della Parola di Dio e della grazia che scaturisce dal Mistero pasquale di Cristo. La Chiesa rispetta ogni scoperta della verità, perché tutta la verità viene da Dio, ma sa che lo sguardo della fede fissato sul Cristo apre la mente e il cuore dell’uomo alla Verità Prima, che è Dio. Così la cultura nutrita dalla fede porta alla vera umanizzazione, mentre le false culture finiscono per condurre alla disumanizzazione: in Europa e in Africa ne abbiamo avuto tristi esempi. Quella della cultura deve essere quindi una costante preoccupazione che rientra nella vostra azione pastorale, tenendo sempre ben presente che la luce del Vangelo si inserisce nel tessuto culturale elevandolo e facendone fecondare le ricchezze.

Cari amici, il vostro Simposio vi ha offerto l’occasione per riflettere sui problemi della Chiesa nei due Continenti. Certo, essi non mancano, e sono talvolta rilevanti; ma, d’altra parte, sono anche la prova che la Chiesa è viva, è in crescita, e non ha paura di compiere la sua missione evangelizzatrice. Per questo essa ha bisogno della preghiera e dell’impegno di tutti i fedeli; infatti l’evangelizzazione è parte integrante della vocazione di tutti i battezzati, che è vocazione alla santità. I cristiani che hanno una fede viva e sono aperti all’azione dello Spirito Santo diventano testimoni con la parola e la vita del Vangelo di Cristo. Ai Pastori, però, è affidata una particolare responsabilità. Pertanto, «la vostra santità personale deve risplendere a beneficio di coloro che sono stati affidati alla vostra cura pastorale e che voi dovete servire. La vostra vita di preghiera irrigherà dall’interno il vostro apostolato. Un Vescovo deve essere un innamorato di Cristo. L’autorità morale e l’autorevolezza che sostengono l’esercizio del vostro potere giuridico, potranno provenire solo dalla santità della vostra vita» (Esort. ap. postsin. Africae munus, 100).

Affido i vostri propositi spirituali e i vostri progetti pastorali all’intercessione di Maria, Stella dell’evangelizzazione, mentre di cuore imparto una speciale Benedizione Apostolica a voi, alle Conferenze Episcopali d’Africa e d’Europa e a tutti i vostri sacerdoti e fedeli.

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Paparatzifan
00giovedì 16 febbraio 2012 20:39
Dal blog di Lella...

VISITA AL SEMINARIO ROMANO MAGGIORE IN OCCASIONE DELLA FESTA DELLA MADONNA DELLA FIDUCIA, 15.02.2012

Questo pomeriggio, alle ore 18.15, il Santo Padre Benedetto XVI si è recato in visita al Seminario Romano Maggiore, alla vigilia della Festa della Madonna della Fiducia, che ricorre sabato. Al Suo arrivo è stato accolto dal Cardinale Vicario Agostino Vallini e dal Rettore, don Concetto Occhipinti.
Alle 18.30, nella Cappella Maggiore del Seminario, dopo l’indirizzo di omaggio del Rettore, il Papa ha tenuto una lectio divina sul testo della Lettera di San Paolo Apostolo ai Romani, cap. 12, 1-2, per i Seminaristi del Seminario Romano Maggiore, del Seminario Romano Minore, dell’Almo Collegio Capranica, del Collegio diocesano "Redemptoris Mater" e del Seminario della Madonna del Divino Amore.
Pubblichiamo di seguito il testo della lectio divina del Santo Padre:

LECTIO DIVINA DEL SANTO PADRE

Eminenza,
cari Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari Seminaristi,
cari fratelli e sorelle,

è per me sempre una grande gioia vedere, nel giorno della Madonna della Fiducia, i miei seminaristi, i seminaristi di Roma, in cammino verso il sacerdozio, e vedere così la Chiesa di domani, la Chiesa che vive sempre.

Oggi abbiamo sentito un testo – lo sentiamo e lo meditiamo – della Lettera ai Romani: Paolo parla ai Romani e quindi parla a noi, perché parla ai Romani di tutti i tempi.

Questa Lettera non solo è la più grande di san Paolo, ma è anche straordinaria per il peso dottrinale e spirituale. E’ straordinaria anche perché è una lettera scritta a una comunità che non aveva fondato e neppure aveva visitato. Egli scrive per annunciare la sua visita ed esprimere il desiderio di visitare Roma, e preannuncia i contenuti essenziali del suo Kerygma; così prepara la Città alla sua visita.

Scrive a questa comunità che non conosce personalmente, perché è l’Apostolo dei Pagani - del passaggio del Vangelo dagli Ebrei ai Pagani - e Roma è la capitale dei Pagani e quindi il centro, alla fine, anche del suo messaggio. Qui deve giungere il suo Vangelo, perché sia realmente arrivato nel mondo pagano. Giungerà, ma in modo diverso da come lo aveva pensato. Paolo arriverà incatenato per Cristo e proprio in catene si sentirà libero di annunciare il Vangelo.

Nel primo capitolo della Lettera ai Romani, egli dice anche: della vostra fede, della fede della Chiesa di Roma si parla in tutto il mondo (cfr 1,8).

La cosa memorabile della fede di questa Chiesa è che se ne parla nel mondo intero, e possiamo riflettere come stia oggi. Anche oggi si parla molto della Chiesa di Roma, di tante cose, ma speriamo che si parli anche della nostra fede, della fede esemplare di questa Chiesa, e preghiamo il Signore perché possiamo far sì che si parli non di tante cose, ma della fede della Chiesa di Roma.

Il testo letto (Rm 12, 1-2) è l’inizio della quarta ed ultima parte della Lettera ai Romani e comincia con le parole "Vi esorto" (v. 1). Normalmente si dice che si tratti della parte morale che segue alla parte dogmatica, ma nel pensiero di san Paolo, e anche nel suo linguaggio, non si possono dividere così le cose: questa parola "esorto", in greco parakalo, porta in sé la parola paraklesis – parakletos, ha una profondità che va molto oltre la moralità; è una parola che certamente implica ammonizione, ma anche consolazione, cura per l’altro, tenerezza paterna, anzi materna; questa parola "misericordia" – in greco oiktirmon e in ebraico rachamim, grembo materno - esprime la misericordia, la bontà, la tenerezza di una madre. E se Paolo esorta, tutto questo è implicito: parla col cuore, parla con la tenerezza dell’amore di un padre e parla non solo lui. Paolo dice "per la misericordia di Dio" (v. 1): si fa strumento del parlare di Dio, si fa strumento del parlare di Cristo; Cristo parla a noi con questa tenerezza, con questo amore paterno, con questa cura per noi. E così anche non fa appello soltanto alla nostra moralità e alla nostra volontà, ma anche alla Grazia che è in noi, che lasciamo operare la Grazia. E’ quasi un atto nel quale la Grazia data nel Battesimo diventa operante in noi, dovrebbe essere operante in noi; così la Grazia, il dono di Dio, e il nostro cooperare vanno insieme.

A che cosa esorta, in questo senso, Paolo?

"Offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio" (v. 1). "Offrire i vostri corpi": parla della liturgia, parla di Dio, della priorità di Dio, ma non parla di liturgia come cerimonia, parla di liturgia come vita. Noi stessi, il nostro corpo; noi nel nostro corpo e come corpo dobbiamo essere liturgia. Questa è la novità del Nuovo Testamento, e lo vedremo ancora dopo: Cristo offre se stesso e sostituisce così tutti gli altri sacrifici. E vuole "tirare" noi stessi nella comunione del suo Corpo: il nostro corpo insieme con il suo diventa gloria di Dio, diventa liturgia. Così questa parola "offrire" – in greco parastesai – non è solo un’allegoria; allegoricamente anche la nostra vita sarebbe una liturgia, ma, al contrario, la vera liturgia è quella del nostro corpo, del nostro essere nel Corpo di Cristo, come Cristo stesso ha fatto la liturgia del mondo, la liturgia cosmica, che tende ad attirare a sé tutti.

"Nel vostro corpo, offrire il corpo": questa parola indica l’uomo nella sua totalità, indivisibile - alla fine - tra anima e corpo, spirito e corpo; nel corpo siamo noi stessi e il corpo animato dall’anima, il corpo stesso, deve essere la realizzazione della nostra adorazione. E pensiamo - forse direi che ognuno di noi poi rifletta su questa parola - che il nostro vivere quotidiano nel nostro corpo, nelle piccole cose, dovrebbe essere ispirato, profuso, immerso nella realtà divina, dovrebbe divenire azione insieme con Dio. Questo non vuol dire che dobbiamo sempre pensare a Dio, ma che dobbiamo essere realmente penetrati dalla realtà di Dio, così che tutta la nostra vita – e non solo alcuni pensieri – siano liturgia, siano adorazione. Paolo poi dice: "Offrire i vostri corpi come sacrifico vivente" (v. 1): la parola greca è logike latreia e appare poi nel Canone Romano, nella Prima Preghiera Eucaristica, "rationabile obsequium". E’ una definizione nuova del culto, ma preparata sia nell’Antico Testamento, sia nella filosofia greca: sono due fiumi – per così dire – che guidano verso questo punto e si uniscono nella nuova liturgia dei cristiani e di Cristo. Antico Testamento: dall’inizio hanno capito che Dio non ha bisogno di tori, di arieti, di queste cose. Nel Salmo 50 [49], Dio dice: Pensate che io mangi dei tori, che io beva sangue di arieti? Io non ho bisogno di queste cose, non mi piacciono. Io non bevo e non mangio queste cose. Non sono sacrificio per me. Sacrificio è la lode di Dio, se voi venite a me è lode di Dio (cfr vv. 13-15.23). Così la strada dell’Antico Testamento va verso un punto in cui queste cose esteriori, simboli, sostituzioni, scompaiono e l’uomo stesso diventa lode di Dio.

Lo stesso avviene nel mondo della filosofia greca. Anche qui si capisce sempre più che non si può glorificare Dio con queste cose – con animali od offerte –, ma che solo il "logos" dell’uomo, la sua ragione divenuta gloria di Dio, è realmente adorazione, e l’idea è che l’uomo dovrebbe uscire da se stesso e unirsi con il "Logos", con la grande Ragione del mondo e così essere veramente adorazione.

Ma qui manca qualcosa: l’uomo, secondo questa filosofia, dovrebbe lasciare – per così dire – il corpo, spiritualizzarsi; solo lo spirito sarebbe adorazione.

Il Cristianesimo, invece, non è semplicemente spiritualizzazione o moralizzazione: è incarnazione, cioè Cristo è il "Logos", è la Parola incarnata, e Lui ci raccoglie tutti, cosicché in Lui e con Lui, nel suo Corpo, come membri di questo Corpo diventiamo realmente glorificazione di Dio.

Teniamo presente questo: da una parte certamente uscire da queste cose materiali per un concetto più spirituale dell’adorazione di Dio, ma arrivare all’incarnazione dello spirito, arrivare al punto in cui il nostro corpo sia riassunto nel Corpo di Cristo e la nostra lode di Dio non sia pura parola, pura attività, ma sia realtà di tutta la nostra vita. Penso che dobbiamo riflettere su questo e pregare Dio, perché ci aiuti affinché lo spirito diventi carne anche in noi, e la carne diventi piena dello Spirito di Dio.

La stessa realtà la troviamo anche nel capitolo quarto del Vangelo di San Giovanni, dove il Signore dice alla samaritana: Non si adorerà in futuro su quel colle o sul quell’altro, con questi o altri riti; si adorerà in spirito e in verità (cfr Gv 4,21-23). Certamente è spiritualizzazione, uscire da questi riti carnali, ma questo spirito, questa verità non è un qualunque spirito astratto: lo spirito è lo Spirito Santo, e la verità è Cristo. Adorare in spirito e verità vuol dire realmente entrare attraverso lo Spirito Santo nel Corpo di Cristo, nella verità dell’essere. E così noi diventiamo verità e diventiamo glorificazione di Dio. Divenire verità in Cristo esige il nostro coinvolgimento totale.

E poi continuiamo: "Santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale" (Rm 12,1). Secondo versetto: dopo questa definizione fondamentale della nostra vita come liturgia di Dio, incarnazione della Parola in noi, ogni giorno, con Cristo - la Parola incarnata -, san Paolo continua: "Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare, rinnovando il vostro modo di pensare" (v. 2). "Non conformatevi a questo mondo".

C’è un non conformismo del cristiano, che non si fa conformare. Questo non vuol dire che noi vogliamo fuggire dal mondo, che a noi non interessa il mondo; al contrario vogliamo trasformare noi stessi e lasciarci trasformare, trasformando così il mondo. E dobbiamo tenere presente che nel Nuovo Testamento, soprattutto nel Vangelo di San Giovanni, la parola "mondo" ha due significati e indica quindi il problema e la realtà della quale si tratta. Da una parte il "mondo" creato da Dio, amato da Dio, fino al punto di dare se stesso e il suo Figlio per questo mondo; il mondo è creatura di Dio, Dio lo ama e vuol dare se stesso affinché esso sia realmente creazione e risposta al suo amore.

Ma c’è anche l’altro concetto del "mondo", kosmos houtos: il mondo che sta nel male, che sta nel potere del male, che riflette il peccato originale.

Vediamo questo potere del male oggi, per esempio, in due grandi poteri, che di per sé stessi sono utili e buoni, ma che sono facilmente abusabili: il potere della finanza e il potere dei media. Ambedue necessari, perché possono essere utili, ma talmente abusabili che spesso diventano il contrario delle loro vere intenzioni.

Vediamo come il mondo della finanza possa dominare sull’uomo, che l’avere e l’apparire dominano il mondo e lo schiavizzano. Il mondo della finanzia non rappresenta più uno strumento per favorire il benessere, per favorire la vita dell’uomo, ma diventa un potere che lo opprime, che deve essere quasi adorato: "Mammona", la vera divinità falsa che domina il mondo. Contro questo conformismo della sottomissione a questo potere, dobbiamo essere non conformisti: non conta l’avere, ma conta l’essere! Non sottomettiamoci a questo, usiamolo come mezzo, ma con la libertà dei figli di Dio.

Poi l’altro, il potere dell’opinione pubblica.

Certamente abbiamo bisogno di informazioni, di conoscenza delle realtà del mondo, ma può essere poi un potere dell’apparenza; alla fine, quanto è detto conta di più che la realtà stessa. Un’apparenza si sovrappone alla realtà, diventa più importante, e l’uomo non segue più la verità del suo essere, ma vuole soprattutto apparire, essere conforme a queste realtà. E anche contro questo c’è il non conformismo cristiano: non vogliamo sempre "essere conformati", lodati, vogliamo non l’apparenza, ma la verità e questo ci dà libertà e la libertà vera cristiana: il liberarsi da questa necessità di piacere, di parlare come la massa pensa che dovrebbe essere, e avere la libertà della verità, e così ricreare il mondo in modo che non sia oppresso dall’opinione, dall’apparenza che non lascia più emergere la realtà stessa; il mondo virtuale diventa più vero, più forte e non si vede più il mondo reale della creazione di Dio. Il non conformismo del cristiano ci redime, ci restituisce alla verità. Preghiamo il Signore perché ci aiuti ad essere uomini liberi in questo non conformismo che non è contro il mondo, ma è il vero amore del mondo.

E san Paolo continua: "Trasformare, rinnovando il vostro modo di pensare" (v. 2). Due parole molto importanti: "trasformare", dal greco metamorphon, e "rinnovare", in greco anakainosis. Trasformare noi stessi, lasciarsi trasformare dal Signore nella forma dell’immagine di Dio, trasformarci ogni giorno di nuovo, attraverso la sua realtà, nella verità del nostro essere. E "rinnovamento"; questa è la vera novità: che non ci sottoponiamo alle opinioni, alle apparenze, ma alla Grazia di Dio, alla sua rivelazione. Lasciamoci formare, plasmare perché appaia realmente nell’uomo l’immagine di Dio.

"Rinnovando - dice Paolo in modo sorprendente per me - il vostro modo di pensare". Quindi questo rinnovamento, questa trasformazione comincia con il rinnovamento del pensare. San Paolo dice "o nous": tutto il modo del nostro ragionare, la ragione stessa deve essere rinnovata. Rinnovata non secondo le categorie del consueto, ma rinnovare vuol dire realmente lasciarci illuminare dalla Verità che ci parla nella Parola di Dio. E così, finalmente, imparare il nuovo modo di pensare, che è il modo che non obbedisce al potere e all’avere, all’apparire eccetera, ma obbedisce alla verità del nostro essere che abita profondamente in noi e ci è ridonata nel Battesimo.

"Rinnovare il modo di pensare": ogni giorno è un compito proprio nel cammino dello studio della Teologia, della preparazione per il sacerdozio. Studiare bene la Teologia, spiritualmente, pensarla fino in fondo, meditare la Scrittura ogni giorno; questo modo di studiare la Teologia con l’ascolto di Dio stesso che ci parla è il cammino di rinnovamento del pensare, di trasformazione del nostro essere e del mondo.

E, infine, "Facciamo tutto - secondo Paolo - per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a Lui gradito e perfetto" (cfr v. 2). Discernere la volontà di Dio: possiamo imparare questo soltanto in un cammino obbediente, umile, con la Parola di Dio, con la Chiesa, con i Sacramenti, con la meditazione della Sacra Scrittura. Conoscere e discernere la volontà di Dio, quanto è buono. Questo è fondamentale nella nostra vita.

E, nel giorno della Madonna della Fiducia, vediamo nella Madonna proprio la realtà di tutto questo, la persona che è realmente nuova, che è realmente trasformata, che è realmente sacrificio vivente. La Madonna vede la volontà di Dio, vive nella volontà di Dio, dice "sì", e questo "sì" della Madonna è tutto il suo essere, e così ci mostra la strada, ci aiuta.

Quindi, in questo giorno, preghiamo la Madonna, che è l’icona vivente dell’uomo nuovo. Ci aiuti a trasformare, a lasciar trasformare il nostro essere, ad essere realmente uomini nuovi, ad essere anche poi, se Dio vuole, Pastori della sua Chiesa. Grazie.

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Al termine il Santo Padre si è fermato al Seminario per la cena. Quindi è rientrato in Vaticano.


Paparatzifan
00sabato 18 febbraio 2012 12:20
Dal blog di Lella...

CONCISTORO PER LA CREAZIONE DI NUOVI CARDINALI - OMELIA DEL SANTO PADRE

«Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam».

Venerati Fratelli,
cari fratelli e sorelle!

Con queste parole il canto d’ingresso ci ha introdotto nel solenne e suggestivo rito del Concistoro ordinario pubblico per la creazione dei nuovi Cardinali, l’imposizione della berretta, la consegna dell’anello e l’assegnazione del titolo. Sono le parole efficaci con le quali Gesù ha costituito Pietro quale saldo fondamento della Chiesa. Di tale fondamento la fede rappresenta il fattore qualificativo: infatti Simone diventa Pietro – roccia – in quanto ha professato la sua fede in Gesù Messia e Figlio di Dio. Nell’annuncio di Cristo la Chiesa viene legata a Pietro e Pietro viene posto nella Chiesa come roccia; ma colui che edifica la Chiesa è Cristo stesso, Pietro deve essere un elemento particolare della costruzione. Deve esserlo mediante la fedeltà alla sua confessione fatta presso Cesarea di Filippo, in forza dell’affermazione: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».

Le parole rivolte da Gesù a Pietro mettono bene in risalto il carattere ecclesiale dell’odierno evento. I nuovi Cardinali, infatti, tramite l’assegnazione del titolo di una chiesa di questa Città o di una Diocesi suburbicaria, vengono inseriti a tutti gli effetti nella Chiesa di Roma guidata dal Successore di Pietro, per cooperare strettamente con lui nel governo della Chiesa universale. Questi cari Confratelli, che fra poco entreranno a far parte del Collegio Cardinalizio, si uniranno con nuovi e più forti legami non solo al Romano Pontefice ma anche all’intera comunità dei fedeli sparsa in tutto il mondo.

Nello svolgimento del loro particolare servizio a sostegno del ministero petrino, i neo-porporati saranno infatti chiamati a considerare e valutare le vicende, i problemi e i criteri pastorali che toccano la missione di tutta la Chiesa. In questo delicato compito sarà loro di esempio e di aiuto la testimonianza di fede resa con la vita e con la morte dal Principe degli Apostoli, il quale, per amore di Cristo, ha donato tutto se stesso fino all’estremo sacrificio.
E’ con questo significato che è da intendere anche l’imposizione della berretta rossa.

Ai nuovi Cardinali è affidato il servizio dell’amore: amore per Dio, amore per la sua Chiesa, amore per i fratelli con una dedizione assoluta e incondizionata, fino all’effusione del sangue, se necessario, come recita la formula di imposizione della berretta e come indica il colore rosso degli abiti indossati. A loro, inoltre, è chiesto di servire la Chiesa con amore e vigore, con la limpidezza e la sapienza dei maestri, con l’energia e la fortezza dei pastori, con la fedeltà e il coraggio dei martiri. Si tratta di essere eminenti servitori della Chiesa che trova in Pietro il visibile fondamento dell’unità.

Nel brano evangelico poc’anzi proclamato, Gesù si presenta come servo, offrendosi quale modello da imitare e da seguire. Dallo sfondo del terzo annuncio della passione, morte e risurrezione del Figlio dell’uomo, si stacca con stridente contrasto la scena dei due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, che inseguono ancora sogni di gloria accanto a Gesù. Essi gli chiesero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (Mc 10,37). Folgorante è la replica di Gesù e inatteso il suo interrogativo: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo?» (v. 38).

L’allusione è chiarissima: il calice è quello della passione, che Gesù accetta per attuare la volontà del Padre. Il servizio a Dio e ai fratelli, il dono di sé: questa è la logica che la fede autentica imprime e sviluppa nel nostro vissuto quotidiano e che non è invece lo stile mondano del potere e della gloria.

Giacomo e Giovanni con la loro richiesta mostrano di non comprendere la logica di vita che Gesù testimonia, quella logica che - secondo il Maestro - deve caratterizzare il discepolo, nel suo spirito e nelle sue azioni.

E la logica errata non abita solo nei due figli di Zebedeo perché, secondo l’evangelista, contagia anche «gli altri dieci» apostoli che «cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni» (v. 41). Si indignano, perché non è facile entrare nella logica del Vangelo e lasciare quella del potere e della gloria. San Giovanni Crisostomo afferma che tutti gli apostoli erano ancora imperfetti, sia i due che vogliono innalzarsi sopra i dieci, sia gli altri che hanno invidia di loro (cfr Commento a Matteo, 65, 4: PG 58, 622). E commentando i passi paralleli nel Vangelo secondo Luca, san Cirillo di Alessandria aggiunge: «I discepoli erano caduti nella debolezza umana e stavano discutendo l’un l’altro su chi fosse il capo e superiore agli altri … Questo è accaduto e ci è stato raccontato per il nostro vantaggio… Quanto è accaduto ai santi Apostoli può rivelarsi per noi un incentivo all’umiltà» (Commento a Luca, 12, 5, 24: PG 72, 912). Questo episodio dà modo a Gesù di rivolgersi a tutti i discepoli e «chiamarli a sé», quasi per stringerli a sé, a formare come un corpo unico e indivisibile con Lui e indicare qual è la strada per giungere alla vera gloria, quella di Dio: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (Mc 10,42-44).

Dominio e servizio, egoismo e altruismo, possesso e dono, interesse e gratuità: queste logiche profondamente contrastanti si confrontano in ogni tempo e in ogni luogo. Non c’è alcun dubbio sulla strada scelta da Gesù: Egli non si limita a indicarla con le parole ai discepoli di allora e di oggi, ma la vive nella sua stessa carne.

Spiega infatti: «Anche il Figlio dell’uomo non è venuto a farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto di molti» (v. 45). Queste parole illuminano con singolare intensità l’odierno Concistoro pubblico. Esse risuonano nel profondo dell’anima e rappresentano un invito e un richiamo, una consegna e un incoraggiamento specialmente per voi, cari e venerati Fratelli che state per essere annoverati nel Collegio Cardinalizio.
Secondo la tradizione biblica, il Figlio dell’uomo è colui che riceve il potere e il dominio da Dio. Così nel Libro di Daniele (cfr Dn 7,13s). Gesù interpreta la sua missione sulla terra sovrapponendo alla figura del Figlio dell’uomo quella del Servo sofferente, descritto da Isaia (cfr Is 53,1-12). Egli riceve il potere e la gloria solo in quanto «servo»; ma è servo in quanto accoglie su di sé il destino di dolore e di peccato di tutta l’umanità. Il suo servizio si attua nella fedeltà totale e nella responsabilità piena verso gli uomini. Per questo la libera accettazione della sua morte violenta diventa il prezzo di liberazione per molti, diventa l’inizio e il fondamento della redenzione di ciascun uomo e dell’intero genere umano.

Cari Fratelli che state per essere annoverati nel Collegio Cardinalizio! Il dono totale di sé offerto da Cristo sulla croce sia per voi principio, stimolo e forza per una fede che opera nella carità. La vostra missione nella Chiesa e nel mondo sia sempre e solo «in Cristo», risponda alla sua logica e non a quella del mondo, sia illuminata dalla fede e animata dalla carità che provengono a noi dalla Croce gloriosa del Signore.

Sull’anello che tra poco vi consegnerò, sono raffigurati i santi Pietro e Paolo, con al centro una stella che evoca la Madonna. Portando questo anello, voi siete richiamati quotidianamente a ricordare la testimonianza che i due Apostoli hanno dato a Cristo fino alla morte per martirio qui a Roma, fecondando così la Chiesa con il loro sangue. Mentre il richiamo alla Vergine Maria, sarà sempre per voi un invito a seguire colei che fu salda nella fede e umile serva del Signore.
Concludendo questa breve riflessione, vorrei rivolgere il mio cordiale saluto e ringraziamento a tutti voi presenti, in particolare alle Delegazioni ufficiali di vari Paesi e alle Rappresentanze di numerose Diocesi. I nuovi Cardinali, nel loro servizio, sono chiamati a rimanere sempre fedeli a Cristo, lasciandosi guidare unicamente dal suo Vangelo. Cari fratelli e sorelle, pregate perché in essi possa rispecchiarsi al vivo il nostro unico Pastore e Maestro, il Signore Gesù, fonte di ogni sapienza, che indica la strada a tutti. E pregate anche per me, affinché possa sempre offrire al Popolo di Dio la testimonianza della dottrina sicura e reggere con mite fermezza il timone della santa Chiesa. Amen.

© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana


Paparatzifan
00domenica 19 febbraio 2012 21:14
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SANTA MESSA CON I NUOVI CARDINALI NELLA SOLENNITÀ DELLA CATTEDRA DI SAN PIETRO APOSTOLO, 19.02.2012

Alle ore 9.30 di oggi, Solennità della Cattedra di San Pietro, Apostolo, il Santo Padre Benedetto XVI presiede nella Basilica Vaticana la concelebrazione eucaristica con i nuovi 22 Cardinali creati nel Concistoro di ieri.
All’inizio della Santa Messa l’Em.mo Fernando Filoni, Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, primo tra i nuovi Cardinali, rivolge al Papa un indirizzo di saluto e gratitudine, a nome di tutti i Porporati.
Riportiamo di seguito il testo dell’omelia che il Santo Padre tiene dopo la proclamazione del Santo Vangelo, e l’indirizzo di omaggio del Card. Filoni:

OMELIA DEL SANTO PADRE

Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!

Nella solennità della Cattedra di san Pietro Apostolo, abbiamo la gioia di radunarci intorno all’Altare del Signore insieme con i nuovi Cardinali, che ieri ho aggregato al Collegio Cardinalizio. Ad essi, innanzitutto, rivolgo il mio cordiale saluto, ringraziando il Cardinale Fernando Filoni per le cortesi parole rivoltemi a nome di tutti.
Estendo il mio saluto agli altri Porporati e a tutti Presuli presenti, come pure alle distinte Autorità, ai Signori Ambasciatori, ai sacerdoti, ai religiosi e a tutti i fedeli, venuti da varie parti del mondo per questa lieta circostanza, che riveste uno speciale carattere di universalità.

Nella seconda Lettura poc’anzi proclamata, l’Apostolo Pietro esorta i “presbiteri” della Chiesa ad essere pastori zelanti e premurosi del gregge di Cristo (cfr 1 Pt 5,1-2). Queste parole sono anzitutto rivolte a voi, cari e venerati Fratelli, che già avete molti meriti presso il Popolo di Dio per la vostra generosa e sapiente opera svolta nel Ministero pastorale in impegnative Diocesi, o nella direzione dei Dicasteri della Curia Romana, o nel servizio ecclesiale dello studio e dell’insegnamento. La nuova dignità che vi è stata conferita vuole manifestare l’apprezzamento per il vostro fedele lavoro nella vigna del Signore, rendere onore alle Comunità e alle Nazioni da cui provenite e di cui siete degni rappresentanti nella Chiesa, investirvi di nuove e più importanti responsabilità ecclesiali, ed infine chiedervi un supplemento di disponibilità per Cristo e per l’intera Comunità cristiana.

Questa disponibilità al servizio del Vangelo è saldamente fondata sulla certezza della fede. Sappiamo infatti che Dio è fedele alle sue promesse ed attendiamo nella speranza la realizzazione di queste parole dell’apostolo Pietro: “E quando apparirà il Pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce” (1 Pt 5,4).

Il brano evangelico odierno presenta Pietro che, mosso da un’ispirazione divina, esprime la propria salda fede in Gesù, il Figlio di Dio ed il Messia promesso. In risposta a questa limpida professione di fede, fatta da Pietro anche a nome degli altri Apostoli, Cristo gli rivela la missione che intende affidargli, quella cioè di essere la “pietra”, la “roccia”, il fondamento visibile su cui è costruito l’intero edificio spirituale della Chiesa (cfr Mt 16,16-19).

Tale denominazione di “roccia-pietra” non fa riferimento al carattere della persona, ma va compresa solo a partire da un aspetto più profondo, dal mistero: attraverso l’incarico che Gesù gli conferisce, Simon Pietro diventerà ciò che egli non è attraverso «la carne e il sangue».

L’esegeta Joachim Jeremias ha mostrato che sullo sfondo è presente il linguaggio simbolico della «roccia santa». Al riguardo può aiutarci un testo rabbinico in cui si afferma: «Il Signore disse: “Come posso creare il mondo, quando sorgeranno questi senza-Dio e mi si rivolteranno contro?”. Ma quando Dio vide che doveva nascere Abramo, disse: “Guarda, ho trovato una roccia, sulla quale posso costruire e fondare il mondo”. Perciò egli chiamò Abramo una roccia». Il profeta Isaia vi fa riferimento quando ricorda al popolo «guardate alla roccia da cui siete stati tagliati… ad Abramo vostro padre» (51,1-2). Abramo, il padre dei credenti, con la sua fede viene visto come la roccia che sostiene la creazione. Simone, che per primo ha confessato Gesù come il Cristo ed è stato il primo testimone della risurrezione, diventa ora, con la sua fede rinnovata, la roccia che si oppone alle forze distruttive del male.

Cari fratelli e sorelle! Questo episodio evangelico che abbiamo ascoltato trova una ulteriore e più eloquente spiegazione in un conosciutissimo elemento artistico che impreziosisce questa Basilica Vaticana: l’altare della Cattedra.

Quando si percorre la grandiosa navata centrale e, oltrepassato il transetto, si giunge all’abside, ci si trova davanti a un enorme trono di bronzo, che sembra librarsi, ma che in realtà è sostenuto dalle quattro statue di grandi Padri della Chiesa d’Oriente e d’Occidente. E sopra il trono, circondata da un trionfo di angeli sospesi nell’aria, risplende nella finestra ovale la gloria dello Spirito Santo. Che cosa ci dice questo complesso scultoreo, dovuto al genio del Bernini? Esso rappresenta una visione dell’essenza della Chiesa e, all’interno di essa, del magistero petrino.

La finestra dell’abside apre la Chiesa verso l’esterno, verso l’intera creazione, mentre l’immagine della colomba dello Spirito Santo mostra Dio come la fonte della luce. Ma c’è anche un altro aspetto da evidenziare: la Chiesa stessa è, infatti, come una finestra, il luogo in cui Dio si fa vicino, si fa incontro al nostro mondo.

La Chiesa non esiste per se stessa, non è il punto d’arrivo, ma deve rinviare oltre sé, verso l’alto, al di sopra di noi. La Chiesa è veramente se stessa nella misura in cui lascia trasparire l’Altro - con la “A” maiuscola - da cui proviene e a cui conduce. La Chiesa è il luogo dove Dio “arriva” a noi, e dove noi “partiamo” verso di Lui; essa ha il compito di aprire oltre se stesso quel mondo che tende a chiudersi in se stesso e portargli la luce che viene dall’alto, senza la quale diventerebbe inabitabile.

La grande cattedra di bronzo racchiude un seggio ligneo del IX secolo, che fu a lungo ritenuto la cattedra dell’apostolo Pietro e fu collocato proprio su questo altare monumentale a motivo del suo alto valore simbolico.

Esso, infatti, esprime la presenza permanente dell’Apostolo nel magistero dei suoi successori. Il seggio di san Pietro, possiamo dire, è il trono della verità, che trae origine dal mandato di Cristo dopo la confessione a Cesarea di Filippo. Il seggio magisteriale rinnova in noi anche la memoria delle parole rivolte dal Signore a Pietro nel Cenacolo: “Io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32).

La cattedra di Pietro evoca un altro ricordo: la celebre espressione di sant’Ignazio di Antiochia, che nella sua lettera ai Romani chiama la Chiesa di Roma “quella che presiede nella carità” (Inscr.: PG 5, 801). In effetti, il presiedere nella fede è inscindibilmente legato al presiedere nell’amore.

Una fede senza amore non sarebbe più un’autentica fede cristiana. Ma le parole di sant’Ignazio hanno anche un altro risvolto, molto più concreto: il termine “carità”, infatti, veniva utilizzato dalla Chiesa delle origini per indicare anche l’Eucaristia.

L’Eucaristia, infatti, è Sacramentum caritatis Christi, mediante il quale Egli continua ad attirarci tutti a sé, come fece dall’alto della croce (cfr Gv 12,32). Pertanto, “presiedere nella carità” significa attirare gli uomini in un abbraccio eucaristico - l’abbraccio di Cristo -, che supera ogni barriera e ogni estraneità, e crea la comunione dalle molteplici differenze.

Il ministero petrino è dunque primato nell’amore in senso eucaristico, ovvero sollecitudine per la comunione universale della Chiesa in Cristo. E l’Eucaristia è forma e misura di questa comunione, e garanzia che essa si mantenga fedele al criterio della tradizione della fede.

La grande Cattedra è sostenuta dai Padri della Chiesa.

I due maestri dell’Oriente, san Giovanni Crisostomo e sant’Atanasio, insieme con i latini, sant’Ambrogio e sant’Agostino, rappresentano la totalità della tradizione e, quindi, la ricchezza dell’espressione della vera fede dell’unica Chiesa. Questo elemento dell’altare ci dice che l’amore poggia sulla fede. Esso si sgretola se l’uomo non confida più in Dio e non obbedisce a Lui. Tutto nella Chiesa poggia sulla fede: i Sacramenti, la Liturgia, l’evangelizzazione, la carità.

Anche il diritto, anche l’autorità nella Chiesa poggiano sulla fede. La Chiesa non si auto-regola, non dà a se stessa il proprio ordine, ma lo riceve dalla Parola di Dio, che ascolta nella fede e cerca di comprendere e di vivere. I Padri della Chiesa hanno nella comunità ecclesiale la funzione di garanti della fedeltà alla Sacra Scrittura. Essi assicurano un’esegesi affidabile, solida, capace di formare con la cattedra di Pietro un complesso stabile e unitario. Le Sacre Scritture, interpretate autorevolmente dal Magistero alla luce dei Padri, illuminano il cammino della Chiesa nel tempo, assicurandole un fondamento stabile in mezzo ai mutamenti storici.

Dopo aver considerato i diversi elementi dell’altare della Cattedra, rivolgiamo ad esso uno sguardo d’insieme. E vediamo che è attraversato da un duplice movimento: di ascesa e di discesa. E’ la reciprocità tra la fede e l’amore. La Cattedra è posta in grande risalto in questo luogo, poiché qui vi è la tomba dell’apostolo Pietro, ma anch’essa tende verso l’amore di Dio. In effetti, la fede è orientata all’amore. Una fede egoistica sarebbe una fede non vera. Chi crede in Gesù Cristo ed entra nel dinamismo d’amore che nell’Eucaristia trova la sorgente, scopre la vera gioia e diventa a sua volta capace di vivere secondo la logica di questo dono.

La vera fede è illuminata dall’amore e conduce all’amore, verso l’alto, come l’altare della Cattedra eleva verso la finestra luminosa, la gloria dello Spirito Santo, che costituisce il vero punto focale per lo sguardo del pellegrino quando varca la soglia della Basilica Vaticana. A quella finestra il trionfo degli angeli e le grandi raggiere dorate danno il massimo risalto, con un senso di pienezza traboccante che esprime la ricchezza della comunione con Dio. Dio non è solitudine, ma amore glorioso e gioioso, diffusivo e luminoso.

Cari fratelli e sorelle, a noi, ad ogni cristiano è affidato il dono di questo amore: un dono da donare, con la testimonianza della nostra vita. Questo è, in particolare, il vostro compito, venerati Fratelli Cardinali: testimoniare la gioia dell’amore di Cristo. Alla Vergine Maria, presente nella Comunità apostolica riunita in preghiera in attesa dello Spirito Santo (cfr At 1,14), affidiamo ora il vostro nuovo servizio ecclesiale. Ella, Madre del Verbo Incarnato, protegga il cammino della Chiesa, sostenga con la sua intercessione l’opera dei Pastori ed accolga sotto il suo manto l’intero Collegio cardinalizio. Amen!

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Paparatzifan
00domenica 19 febbraio 2012 21:27
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LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 19.02.2012

Al termine della Concelebrazione eucaristica con i nuovi Cardinali creati nel Concistoro di ieri, il Santo Padre Benedetto XVI si affaccia alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare l’Angelus con i fedeli ed i pellegrini convenuti in Piazza San Pietro per il consueto appuntamento domenicale.
Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:

PRIMA DELL'ANGELUS

Cari fratelli e sorelle!

Questa domenica è particolarmente festosa qui in Vaticano, a motivo del Concistoro, avvenuto ieri, in cui ho creato 22 nuovi Cardinali. Con loro ho avuto la gioia, stamani, di concelebrare l’Eucaristia nella Basilica di San Pietro, intorno alla Tomba dell’Apostolo che Gesù chiamò ad essere la “pietra” su cui costruire la sua Chiesa (cfr Mt 16,18). Perciò invito tutti voi ad unire anche la vostra preghiera per questi venerati Fratelli, che ora sono ancora più impegnati a collaborare con me nella guida della Chiesa universale e a dare testimonianza al Vangelo fino al sacrificio della propria vita. Questo significa il colore rosso dei loro abiti: il colore del sangue e dell’amore. Alcuni di essi lavorano a Roma, al servizio della Santa Sede, altri sono Pastori di importanti Chiese diocesane; altri si sono distinti per una lunga e apprezzata attività di studio e di insegnamento. Ora fanno parte del Collegio che più strettamente coadiuva il Papa nel suo ministero di comunione e di evangelizzazione: li accogliamo con gioia, ricordando ciò che disse Gesù ai dodici Apostoli: “Chi vuol essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,44-45).

Questo evento ecclesiale si colloca sullo sfondo liturgico della festa della Cattedra di San Pietro, anticipata ad oggi, perché il prossimo 22 Febbraio – data di tale festa – sarà il Mercoledì delle Ceneri, inizio della Quaresima.

La “cattedra” è il seggio riservato al Vescovo, da cui deriva il nome “cattedrale” dato alla chiesa in cui, appunto, il Vescovo presiede la liturgia e insegna al popolo. La Cattedra di San Pietro, rappresentata nell’abside della Basilica Vaticana da una monumentale scultura del Bernini, è simbolo della speciale missione di Pietro e dei suoi Successori di pascere il gregge di Cristo tenendolo unito nella fede e nella carità.

Già a agli inizi del secondo secolo, sant’Ignazio di Antiochia attribuiva alla Chiesa che è in Roma un singolare primato, salutandola, nella sua lettera ai Romani, come quella che “presiede nella carità”. Tale speciale compito di servizio deriva alla Comunità romana e al suo Vescovo dal fatto che in questa Città hanno versato il loro sangue gli Apostoli Pietro e Paolo, oltre a numerosi altri Martiri. Ritorniamo, così, alla testimonianza del sangue e della carità.

La Cattedra di Pietro, dunque, è sì segno di autorità, ma di quella di Cristo, basata sulla fede e sull’amore.

Cari amici, affidiamo i nuovi Cardinali alla materna protezione di Maria Santissima, perché li assista sempre nel loro servizio ecclesiale e li sostenga nelle prove. Maria, Madre della Chiesa, aiuti me e i miei collaboratori a lavorare instancabilmente per l’unità del Popolo di Dio e per annunciare a tutte le genti il messaggio di salvezza, compiendo umilmente e coraggiosamente il servizio della verità nella carità.

DOPO L'ANGELUS

J’accueille avec joie les pèlerins francophones, en particulier les pèlerins de Belgique et tous ceux qui sont venus accompagner les nouveaux Cardinaux. Je salue également les jeunes des collèges Charles-Péguy de Paris et de Bobigny. C’est aujourd’hui, au Vatican, la fête du rappel de la mission que le Christ a confiée à Pierre et à ses successeurs sur la Chaire épiscopale de Rome. Je vous invite à prier pour que l’Église demeure fidèle à l’enseignement du Christ qui a choisi Pierre, pour faire paître ses brebis. Mercredi commencera le Carême. Sachons profiter de ce temps de grâce et de conversion pour revenir vers Dieu, par l’aumône, la prière et le jeûne ! À tous, je souhaite un bon dimanche, un bon pèlerinage à Rome et une bonne entrée en Carême !

I welcome all the English-speaking visitors present for this Angelus prayer, especially those accompanying the new Cardinals. In today’s Gospel, Jesus grants healing and life in body and soul in response to faith. May we too believe and trust in Christ, and seek from him both forgiveness of sin and the power to live a new life of grace. Upon all of you I invoke God’s blessings of joy and peace!

Gerne grüße ich alle Brüder und Schwestern deutscher Sprache, sowie die Pilger aus den Niederlanden, die zum Konsistorium der Kardinäle nach Rom gekommen sind. Bei der heutigen Messe im Petersdom haben wir für die neuen Kardinäle gedankt und das Fest der Kathedra des heilegen Petrus gefeiert. Christus hat seine Kirche auf das Glaubensbekenntnis des Petrus gegründet und ihm den Auftrag gegeben, die Brüder im Glauben zu stärken. Begleitet den Nachfolger des Petrus, den Papst, und die Kardinäle, die ihn in besonderer Weise in seinem Petrus dienst unterstützen, mit eurem Gebet, daß wir den Auftrag des Herrn treu erfüllen und die Kirche recht leiten können. Gesegneten Sonntag euch allen!

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española, en especial a los Obispos, presbíteros, personas consagradas y fieles han venido para acompañar a los nuevos Cardenales. Acompañadlos también con la oración y la colaboración en su nueva responsabilidad. Saludo también a los Jóvenes de San José de Barcelona y a los diversos grupos parroquiales de Sevilla. En la celebración de la Cátedra de San Pedro, invito a todos a ser fieles al mensaje de Cristo transmitido por los Apóstoles y a tener presentes en la plegaria a cuantos han recibido el ministerio de hacer llegar la luz del Evangelio a través de los tiempos en todos los rincones de la tierra. Feliz domingo.

Saúdo, com viva gratidão e afecto, os grupos de fiéis das paróquias Aldeia Galega da Merceana, Brandoa e Laveiras-Caxias e restantes peregrinos de língua portuguesa, particularmente os familiares e amigos dos novos Cardeais, pedindo que continueis a acompanhá-los com a vossa oração e estima para poderem corresponder, com plena e constante fidelidade, ao dom recebido. Confio-os, eles e todos vós, à materna protecção da Virgem Maria.

Salut pelerinii de limba română veniÅ£i la Roma pentru Consistoriu. Rugăciunea la Mormintele Apostolilor să vă întărească credinÅ£a ÅŸi entuziasmul de a vesti Evanghelia. Lăudat să fie Isus Cristos!

[Saluto i pellegrini di lingua romena venuti a Roma per il Concistoro. La preghiera alle Tombe degli Apostoli rafforzi la vostra fede e l’entusiasmo di annunciare il Vangelo. Sia lodato Gesù Cristo!]

Zdravím české poutníky, účastnící se konzistoÅ™e. AÅ¥ modlitba u hrobů svatých apoštolů posílí vaši víru a podnítí horlivé hlásání evangelia.

[Saluto i pellegrini di lingua ceca venuti a Roma per il Concistoro. La preghiera alle Tombe degli Apostoli rafforzi la fede e l’entusiasmo di annunciare il Vangelo.]

Serdeczne pozdrowienie kierujÄ™ do Polaków, a dziÅ› szczególnie do wszystkich polskich KardynaÅ‚ów. Konsystorz jest zgromadzeniem tych, którzy zostali powoÅ‚ani do wspierania nastÄ™pcy Piotra w jego posÅ‚udze utwierdzania braci w wierze i gÅ‚oszenia Ewangelii Chrystusa oraz wymownym znakiem jednoÅ›ci caÅ‚ego KoÅ›cioÅ‚a. Módlmy siÄ™, aby Å›wiatÅ‚o i moc Ducha ÅšwiÄ™tego towarzyszyÅ‚y wszystkim, a zwÅ‚aszcza nowym, kardynaÅ‚om. Niech Bóg wam bÅ‚ogosÅ‚awi!

[Un cordiale saluto rivolgo ai polacchi, e oggi in particolare a tutti i Cardinali polacchi. Il Concistoro è un raduno di coloro che sono stati chiamati a sostenere il Successore di Pietro nel suo ministero di confermare i fratelli nella fede e di proclamare il Vangelo di Cristo, nonché un eloquente segno dell’unità di tutta la Chiesa. Preghiamo perché la luce e la potenza dello Spirito Santo accompagnino tutti e soprattutto i nuovi Cardinali. Dio vi benedica!]

E rivolgo infine un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare a quelli venuti per festeggiare i nuovi Cardinali. Saluto anche i bambini della Prima Comunione di Caravaggio, i cresimandi con catechisti e genitori di Galzignano Terme, Creola e Saccolongo, Montorfano, Robilante e Lodi, i fedeli di Verona e di Eraclea, i ragazzi di Saiano e quelli di Altavilla Vicentina e Valmarana. A tutti auguro una buona domenica, una buona settimana. Buona domenicia a tutti voi!

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Paparatzifan
00lunedì 20 febbraio 2012 20:00
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UDIENZA AI NUOVI CARDINALI, CON I FAMILIARI E I FEDELI CONVENUTI PER IL CONCISTORO, 20.02.2012

Alle ore 11 di questa mattina, nell’Aula Paolo VI, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza gli Em.mi Cardinali creati sabato 18 febbraio, accompagnati dai familiari e dai fedeli delle loro diocesi convenuti a Roma per il Concistoro, e rivolge loro il discorso che riportiamo di seguito:

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Signori Cardinali,
Cari Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,
Cari Fratelli e Sorelle!

Con grande gioia mi incontro con voi, familiari e amici dei neo-Cardinali, all’indomani delle solenni celebrazioni del Concistoro, in cui questi vostri amati Pastori sono stati chiamati a far parte del Collegio Cardinalizio. Mi è data così la possibilità di porgere in modo più diretto e più intimo il mio cordiale saluto a tutti e, in particolare, le mie felicitazioni e il mio augurio ai nuovi Porporati. L’avvenimento così importante e suggestivo del Concistoro sia, per voi qui presenti e per quanti sono legati a vario titolo ai nuovi Cardinali, motivo e stimolo a stringervi con affetto attorno ad essi: sentitevi ancora di più vicini al loro cuore e alla loro ansia apostolica; ascoltate con viva speranza le loro parole di Padri e di Maestri. Siate uniti a loro e tra di voi nella fede e nella carità, per essere sempre più fervorosi e coraggiosi testimoni di Cristo.

Saluto anzitutto voi, cari Porporati della Chiesa che è in Italia! Il Cardinale Fernando Filoni, Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli; il Cardinale Antonio Maria Vegliò, Presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti; il Cardinale Giuseppe Bertello, Presidente della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano e Presidente del Governatorato del medesimo Stato; il Cardinale Francesco Coccopalmerio, Presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi; il Cardinale Domenico Calcagno, Presidente dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica; il Cardinale Giuseppe Versaldi, Presidente della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede; e infine il Cardinale Giuseppe Betori, Arcivescovo di Firenze. Venerati Fratelli, l’affetto e la preghiera di tante persone a voi care vi sostengano nel servizio alla Chiesa, affinché ciascuno di voi possa rendere generosa testimonianza al Vangelo della verità e della carità.

Je salue cordialement les pèlerins francophones, et plus particulièrement les Belges qui ont accompagné Monsieur le Cardinal Julien Ries. Puisse notre loyauté au Christ être ferme et décidée afin de rendre crédible notre témoignage. Notre société, qui connaît des moments d’incertitudes et de doute, a besoin de la clarté du Christ. Que chaque chrétien en témoigne avec foi et courage, et le temps de Carême qui approche, permet de revenir vers Dieu. Bon pèlerinage à tous!

I am pleased to extend a warm greeting to the English-speaking Prelates whom I had the joy of raising to the dignity of Cardinal in Saturday’s Consistory: Cardinal Edwin Frederick O’Brien, Grand Master of the Equestrian Order of the Holy Sepulchre of Jerusalem; Cardinal George Alencherry, Major Archbishop of Ernakulam-Angamaly of the Syro-Malabars (India); Cardinal Thomas Christopher Collins, Archbishop of Toronto (Canada); Cardinal Timothy Michael Dolan, Archbishop of New York (the United States of America); Cardinal John Tong Hon, Bishop of Hong Kong (the People’s Republic of China); Cardinal Prosper Grech, O.S.A., Emeritus Professor of various Roman Universities and Consultor of the Congregation for the Doctrine of the Faith.

I also extend a cordial welcome to the family members and friends who join them today. I ask you to continue to support the new Cardinals by your prayers as they take up their important responsibilities in the service of the Apostolic See.

Einen ganz herzlichen Gruß richte ich an die neuernannten Kardinäle deutscher Sprache, an den Erzbischof von Berlin Rainer Maria Kardinal Woelki und an Karl Josef Kardinal Becker aus der Gesellschaft Jesu. Ich versichere ihnen meine Verbundenheit und mein Gebet für den besonderen Dienst, der ihnen in der Universalkirche anvertraut ist, und empfehle sie dem Schutz Marias, der Mutter der Kirche.

Mit Freude begrüße ich auch die Familienangehörigen und Freunde, die Pilger aus den Heimatdiözesen Berlin und Köln, die Mitarbeiter in den verschiedenen kirchlichen Einrichtungen, die Vertreter der Politik und des öffentlichen Lebens sowie alle Landsleute, die zu diesem Konsistorium nach Rom gekommen sind. Auch eurem Gebet möchte ich die neuen Kardinäle empfehlen, damit sie gemäß dem Zeichen des Purpur, den sie nun tragen, als opferbereite Zeugen der Wahrheit und treue Mitarbeiter des Nachfolgers Petri wirken.

Saludo con afecto al Cardenal Santos Abril y Castelló, Arcipreste de la Basílica Santa María la Mayor, así como a sus familiares, a los Obispos, sacerdotes, religiosos y laicos venidos especialmente de España para esta ocasión. Les invito a todos a acompañar con sus plegarias y cercanía espiritual a los nuevos miembros del Colegio de cardenales para que, llenos de amor a Dios y estrechamente unidos al Sucesor de Pedro, continúen la misión espiritual y apostólica con plena fidelidad al Evangelio.

Saúdo os novos Cardeais de língua portuguesa, com seus familiares, amigos e colaboradores, e ainda os diversos representantes da comunidade eclesial e civil, para quem redunda também a honra que acaba de ser conferida ao Cardeal João Braz de Aviz, que guia a Congregação para os Institutos de Vida Consagrada e as Sociedades de Vida Apostólica, e ao Cardeal Manuel Monteiro de Castro, que preside à Penitenciaria Apostólica. À Virgem Mãe, confio vossas vidas devotadas ao serviço da unidade e da santidade do Povo de Deus.

S láskou zdravím Otce kardinála Dominika Duku a vás, věřící z České republiky, kteří sdílíte jeho radost. Ať ve vás tyto sváteční dny modlitby obnoví lásku ke Kristu a jeho církvi. Všem vám žehnám. Chvála Kristu a Panně Marii.

[Rivolgo un affettuoso saluto al neo-Cardinale Dominik Duka e a tutti voi, fedeli giunti dalla Repubblica Ceca per condividere la sua gioia. Questi giorni di festa e di preghiera suscitino in voi un rinnovato amore a Cristo e alla sua Chiesa. A tutti la mia benedizione! Siano lodati Gesù e Maria.]

Gaarne begroet ik Kardinaal Willem Jacobus Eijk, Aartsbisschop van Utrecht, en tevens de gelovigen die hem vergezellen. Mogen deze dagen van intense spiritualiteit bij iedereen een nog grotere liefde voor Christus en Zijn Kerk opwekken. Blijft Uw Aartsbisschop steunen met Uw gebed zo dat hij met herderlijke ijver degenen die hem zijn toevertrouwd leiding kan geven.

[Saluto il Cardinale Willem Jacobus Eijk, Arcivescovo di Utrecht e i fedeli che lo accompagnano. Auspico che queste giornate di fervida spiritualità suscitino in ciascuno un rinnovato amore a Cristo e alla Chiesa. Continuate a sostenere il vostro Arcivescovo con la preghiera, affinché possa continuare a guidare con zelo pastorale il popolo a lui affidato.]

Salut cu bucurie pe Preafericirea Sa Lucian Mureşan şi pe voi toţi, credincioşi din România, care aţi dorit să vă strângeţi în jurul iubitului vostru Păstor, pe care l-am creat Cardinal. Împreună cu voi salut întregul popor român şi Patria voastră, legată acum şi mai mult de Sediul Sfântului Petru! Binecuvântarea mea să vă susţină mereu.

[Saluto con gioia Sua Beatitudine Lucian Mureşan e tutti voi, fedeli di Romania, che avete voluto stringervi al vostro amato Pastore, che ho creato Cardinale. Con voi saluto l’intero popolo rumeno e la vostra Patria, ora ancora più legata alla Sede di San Pietro! La mia benedizione vi sostenga sempre.]

Cari amici, ancora grazie per la vostra significativa presenza. La creazione dei nuovi Cardinali è occasione per riflettere sulla universale missione della Chiesa nella storia degli uomini: nelle vicende umane, spesso così convulse e contrastanti, la Chiesa è sempre presente, portando Cristo, luce e speranza per l’intera umanità. Rimanere uniti alla Chiesa e al messaggio di salvezza che essa diffonde, significa ancorarsi alla Verità, rafforzare il senso dei veri valori, essere sereni di fronte ad ogni avvenimento. Vi esorto pertanto a rimanere sempre uniti ai vostri Pastori, come pure ai nuovi Cardinali, per essere in comunione con la Chiesa. L’unità nella Chiesa è dono divino da difendere e far crescere. Alla protezione della Madre di Dio e degli Apostoli Pietro e Paolo affido voi, Venerati Fratelli Cardinali e i fedeli che vi accompagnano. Con tali sentimenti vi imparto di cuore la mia Benedizione Apostolica.

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Paparatzifan
00mercoledì 22 febbraio 2012 21:10
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L’UDIENZA GENERALE, 22.02.2012

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 nell’Aula Paolo VI dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di fedeli e pellegrini provenienti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa ha tenuto una meditazione sul significato del tempo quaresimale, che inizia oggi, Mercoledì delle Ceneri.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre Benedetto XVI ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

Mercoledì delle Ceneri

Cari fratelli e sorelle,

in questa Catechesi vorrei soffermarmi brevemente sul tempo della Quaresima, che inizia oggi con la Liturgia del Mercoledì delle Ceneri.
Si tratta di un itinerario di quaranta giorni che ci condurrà al Triduo pasquale, memoria della passione, morte e risurrezione del Signore, il cuore del mistero della nostra salvezza. Nei primi secoli di vita della Chiesa questo era il tempo in cui coloro che avevano udito e accolto l’annuncio di Cristo iniziavano, passo dopo passo, il loro cammino di fede e di conversione per giungere a ricevere il sacramento del Battesimo. Si trattava di un avvicinamento al Dio vivo e di una iniziazione alla fede da compiersi gradualmente, mediante un cambiamento interiore da parte dei catecumeni, cioè di quanti desideravano diventare cristiani ed essere incorporati a Cristo e alla Chiesa.

Successivamente, anche i penitenti e poi tutti i fedeli furono invitati a vivere questo itinerario di rinnovamento spirituale, per conformare sempre più la propria esistenza a quella di Cristo. La partecipazione dell’intera comunità ai diversi passaggi del percorso quaresimale sottolinea una dimensione importante della spiritualità cristiana: è la redenzione non di alcuni, ma di tutti, ad essere disponibile grazie alla morte e risurrezione di Cristo.

Pertanto, sia coloro che percorrevano un cammino di fede come catecumeni per ricevere il Battesimo, sia coloro che si erano allontanati da Dio e dalla comunità della fede e cercavano la riconciliazione, sia coloro che vivevano la fede in piena comunione con la Chiesa, tutti insieme sapevano che il tempo che precede la Pasqua è un tempo di metanoia, cioè del cambiamento interiore, del pentimento; il tempo che identifica la nostra vita umana e tutta la nostra storia come un processo di conversione che si mette in movimento ora per incontrare il Signore alla fine dei tempi.

Con una espressione diventata tipica nella Liturgia, la Chiesa denomina il periodo nel quale siamo entrati oggi «Quadragesima», cioè tempo di quaranta giorni e, con un chiaro riferimento alla Sacra Scrittura ci introduce così in un preciso contesto spirituale. Quaranta è infatti il numero simbolico con cui l’Antico e il Nuovo Testamento rappresentano i momenti salienti dell’esperienza della fede del Popolo di Dio. E’ una cifra che esprime il tempo dell’attesa, della purificazione, del ritorno al Signore, della consapevolezza che Dio è fedele alle sue promesse. Questo numero non rappresenta un tempo cronologico esatto, scandito dalla somma dei giorni. Indica piuttosto una paziente perseveranza, una lunga prova, un periodo sufficiente per vedere le opere di Dio, un tempo entro cui occorre decidersi ad assumere le proprie responsabilità senza ulteriori rimandi. E’ il tempo delle decisioni mature.

Il numero quaranta appare anzitutto nella storia di Noè.

Quest’uomo giusto, a causa del diluvio trascorre quaranta giorni e quaranta notti nell’arca, insieme alla sua famiglia e agli animali che Dio gli aveva detto di portare con sé. E attende altri quaranta giorni, dopo il diluvio, prima di toccare la terraferma, salvata dalla distruzione (cfr Gen 7,4.12; 8,6). Poi, la prossima tappa: Mosè rimane sul monte Sinai, alla presenza del Signore, quaranta giorni e quaranta notti, per accogliere la Legge. In tutto questo tempo digiuna (cfr Es 24,18). Quaranta sono gli anni di viaggio del popolo ebraico dall’Egitto alla Terra promessa, tempo adatto per sperimentare la fedeltà di Dio. «Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni… Il tuo mantello non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni», dice Mosè nel Deuteronomio alla fine di questi quarant'anni di migrazione (Dt 8,2.4). Gli anni di pace di cui gode Israele sotto i Giudici sono quaranta (cfr Gdc 3,11.30), ma, trascorso questo tempo, inizia la dimenticanza dei doni di Dio e il ritorno al peccato. Il profeta Elia impiega quaranta giorni per raggiungere l’Oreb, il monte dove incontra Dio (cfr 1 Re 19,8). Quaranta sono i giorni durante i quali i cittadini di Ninive fanno penitenza per ottenere il perdono di Dio (cfr Gn 3,4). Quaranta sono anche gli anni dei regni di Saul (cfr At 13,21), di Davide (cfr 2 Sam 5,4-5) e di Salomone (cfr 1 Re 11,41), i tre primi re d’Israele. Anche i Salmi riflettono sul significato biblico dei quaranta anni, come ad esempio il Salmo 95, del quale abbiamo sentito un brano: «Se ascoltaste oggi la sua voce! “Non indurite il cuore come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere. Per quarant'anni mi disgustò quella generazione e dissi: sono un popolo dal cuore traviato, non conoscono le mie vie”» (vv. 7c-10).

Nel Nuovo Testamento Gesù, prima di iniziare la vita pubblica, si ritira nel deserto per quaranta giorni, senza mangiare né bere (cfr Mt 4,2): si nutre della Parola di Dio, che usa come arma per vincere il diavolo. Le tentazioni di Gesù richiamano quelle che il popolo ebraico affrontò nel deserto, ma che non seppe vincere. Quaranta sono i giorni durante i quali Gesù risorto istruisce i suoi, prima di ascendere al Cielo e inviare lo Spirito Santo (cfr At 1,3).

Con questo ricorrente numero di quaranta è descritto un contesto spirituale che resta attuale e valido, e la Chiesa, proprio mediante i giorni del periodo quaresimale, intende mantenerne il perdurante valore e renderne a noi presente l’efficacia.

La liturgia cristiana della Quaresima ha lo scopo di favorire un cammino di rinnovamento spirituale, alla luce di questa lunga esperienza biblica e soprattutto per imparare ad imitare Gesù, che nei quaranta giorni trascorsi nel deserto insegnò a vincere la tentazione con la Parola di Dio. I quarant’anni della peregrinazione di Israele nel deserto presentano atteggiamenti e situazioni ambivalenti. Da una parte essi sono la stagione del primo amore con Dio e tra Dio e il suo popolo, quando Egli parlava al suo cuore, indicandogli continuamente la strada da percorrere. Dio aveva preso, per così dire, dimora in mezzo a Israele, lo precedeva dentro una nube o una colonna di fuoco, provvedeva ogni giorno al suo nutrimento facendo scendere la manna e facendo sgorgare l’acqua dalla roccia. Pertanto, gli anni trascorsi da Israele nel deserto si possono vedere come il tempo della speciale elezione di Dio e della adesione a Lui da parte del popolo: tempo del primo amore. D’altro canto, la Bibbia mostra anche un’altra immagine della peregrinazione di Israele nel deserto: è anche il tempo delle tentazioni e dei pericoli più grandi, quando Israele mormora contro il suo Dio e vorrebbe tornare al paganesimo e si costruisce i propri idoli, poiché avverte l’esigenza di venerare un Dio più vicino e tangibile. E' anche il tempo della ribellione contro il Dio grande e invisibile.

Questa ambivalenza, tempo della speciale vicinanza di Dio - tempo del primo amore -, e tempo della tentazione – tentazione del ritorno al paganesimo -, la ritroviamo in modo sorprendente nel cammino terreno di Gesù, naturalmente senza alcun compromesso col peccato.

Dopo il battesimo di penitenza al Giordano, nel quale assume su di sé il destino del Servo di Dio che rinuncia a se stesso e vive per gli altri e si pone tra i peccatori per prendere su di sé il peccato del mondo, Gesù si reca nel deserto per stare quaranta giorni in profonda unione con il Padre, ripetendo così la storia di Israele, tutti quei ritmi di quaranta giorni o anni a cui ho accennato.

Questa dinamica è una costante nella vita terrena di Gesù, che ricerca sempre momenti di solitudine per pregare il Padre suo e rimanere in intima comunione, in intima solitudine con Lui, in esclusiva comunione con Lui, e poi ritornare in mezzo alla gente. Ma in questo tempo di “deserto” e di incontro speciale col Padre, Gesù si trova esposto al pericolo ed è assalito dalla tentazione e dalla seduzione del Maligno, il quale gli propone una via messianica altra, lontana dal progetto di Dio, perché passa attraverso il potere, il successo, il dominio e non attraverso il dono totale sulla Croce. Questa è l'alternativa: un messianesimo di potere, di successo, o un messianesimo di amore, di dono di sé.

Questa situazione di ambivalenza descrive anche la condizione della Chiesa in cammino nel “deserto” del mondo e della storia. In questo “deserto” noi credenti abbiamo certamente l’opportunità di fare una profonda esperienza di Dio che rende forte lo spirito, conferma la fede, nutre la speranza, anima la carità; un’esperienza che ci fa partecipi della vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte mediante il Sacrificio d’amore sulla Croce. Ma il “deserto” è anche l’aspetto negativo della realtà che ci circonda: l’aridità, la povertà di parole di vita e di valori, il secolarismo e la cultura materialista, che rinchiudono la persona nell’orizzonte mondano dell’esistere sottraendolo ad ogni riferimento alla trascendenza. E’ questo anche l’ambiente in cui il cielo sopra di noi è oscuro, perché coperto dalle nubi dell’egoismo, dell’incomprensione e dell’inganno. Nonostante questo, anche per la Chiesa di oggi il tempo del deserto può trasformarsi in tempo di grazia, poiché abbiamo la certezza che anche dalla roccia più dura Dio può far scaturire l’acqua viva che disseta e ristora.

Cari fratelli e sorelle, in questi quaranta giorni che ci condurranno alla Pasqua di Risurrezione possiamo ritrovare nuovo coraggio per accettare con pazienza e con fede ogni situazione di difficoltà, di afflizione e di prova, nella consapevolezza che dalle tenebre il Signore farà sorgere il giorno nuovo. E se saremo stati fedeli a Gesù seguendolo sulla via della Croce, il chiaro mondo di Dio, il mondo della luce, della verità e della gioia ci sarà come ridonato: sarà l’alba nuova creata da Dio stesso. Buon cammino di Quaresima a voi tutti!

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto le Ancelle del Sacro Cuore di Gesù riunite per il Capitolo Generale, i Diaconi di Milano e i vari gruppi parrocchiali: vi invito tutti a costruire sempre la vostra vita secondo la logica del Vangelo, la logica del “non conformismo cristiano”. Saluto con affetto la delegazione dei Mondiali Juniores di Sci come pure i rappresentanti della Lega italiana contro i tumori a novant’anni dalla fondazione. Il gesto dell’imposizione delle Ceneri, che segna l’inizio della Quaresima, ci invita a guardare con più umiltà a noi stessi per ricentrare la nostra vita su Dio. Un cordiale benvenuto agli avvocati dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura Italiana: vi esorto a svolgere il vostro lavoro seguendo sempre i criteri di amore alla giustizia e di servizio al bene comune.

Saluto infine i giovani, gli ammalati e gli sposi novelli. La Quaresima è un tempo favorevole per intensificare la vostra vita spirituale: la pratica del digiuno vi sia di aiuto, cari giovani, per acquisire un sempre maggiore dominio su voi stessi; la preghiera sia per voi, cari ammalati, il mezzo per affidare a Dio le vostre sofferenze e sentirlo sempre vicino; le opere di misericordia, infine, aiutino voi, cari sposi novelli, a vivere la vostra esistenza coniugale aprendola alle necessità dei fratelli. Buona Quaresima a tutti!

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Paparatzifan
00mercoledì 22 febbraio 2012 21:20
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SANTA MESSA, BENEDIZIONE E IMPOSIZIONE DELLE CENERI

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Venerati Fratelli,
cari fratelli e sorelle!

Con questo giorno di penitenza e di digiuno – il Mercoledì delle Ceneri – iniziamo un nuovo cammino verso la Pasqua di Risurrezione: il cammino della Quaresima.

Vorrei soffermarmi brevemente a riflettere sul segno liturgico della cenere, un segno materiale, un elemento della natura, che diventa nella Liturgia un simbolo sacro, molto importante in questa giornata che dà inizio all’itinerario quaresimale. Anticamente, nella cultura ebraica, l’uso di cospargersi il capo di cenere come segno di penitenza era comune, abbinato spesso al vestirsi di sacco o di stracci. Per noi cristiani, invece, vi è quest’unico momento, che ha peraltro una notevole rilevanza rituale e spirituale.

Anzitutto, la cenere è uno di quei segni materiali che portano il cosmo all’interno della Liturgia. I principali sono evidentemente quelli dei Sacramenti: l’acqua, l’olio, il pane e il vino, che diventano vera e propria materia sacramentale, strumento attraverso cui si comunica la grazia di Cristo che giunge fino a noi. Nel caso della cenere si tratta invece di un segno non sacramentale, ma pur sempre legato alla preghiera e alla santificazione del Popolo cristiano: è prevista infatti, prima dell’imposizione individuale sul capo, una specifica benedizione delle ceneri – che faremo tra poco -, con due possibili formule. Nella prima esse sono definite «austero simbolo»; nella seconda si invoca direttamente su di esse la benedizione e si fa riferimento al testo del Libro della Genesi, che può anche accompagnare il gesto dell’imposizione: «Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai» (cfr Gen 3,19).

Fermiamoci un momento su questo passo della Genesi. Esso conclude il giudizio pronunciato da Dio dopo il peccato originale: Dio maledice il serpente, che ha fatto cadere nel peccato l’uomo e la donna; poi punisce la donna annunciandole i dolori del parto e una relazione sbilanciata con il marito; infine punisce l’uomo, gli annuncia la fatica nel lavorare e maledice il suolo. «Maledetto il suolo per causa tua!» (Gen 3,17), a causa del tuo peccato. Dunque, l’uomo e la donna non sono maledetti direttamente come lo è invece il serpente, ma, a causa del peccato di Adamo, è maledetto il suolo, da cui egli era stato tratto. Rileggiamo il magnifico racconto della creazione dell’uomo dalla terra: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato» (Gen 2,7-8); così nel Libro della Genesi.

Ecco dunque che il segno della cenere ci riporta al grande affresco della creazione, in cui si dice che l’essere umano è una singolare unità di materia e di soffio divino, attraverso l’immagine della polvere del suolo plasmata da Dio e animata dal suo respiro insufflato nelle narici della nuova creatura. Possiamo osservare come nel racconto della Genesi il simbolo della polvere subisca una trasformazione negativa a causa del peccato.

Mentre prima della caduta il suolo è una potenzialità totalmente buona, irrigata da una polla d’acqua (Gen 2,6) e capace, per l’opera di Dio, di germinare «ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare» (Gen 2,9), dopo la caduta e la conseguente maledizione divina esso produrrà «spine e cardi» e solo in cambio di «dolore» e «sudore del volto» concederà all’uomo i suoi frutti (cfr Gen 3,17-18). La polvere della terra non richiama più solo il gesto creatore di Dio, tutto aperto alla vita, ma diventa segno di un inesorabile destino di morte: «Polvere tu sei e in polvere ritornerai» (Gen 3,19).

E’ evidente nel testo biblico che la terra partecipa della sorte dell’uomo. Dice in proposito san Giovanni Crisostomo in una sua omelia: «Vedi come dopo la sua disobbedienza tutto viene imposto su di lui [l’uomo] in un modo contrario al suo precedente stile di vita» (Omelie sulla Genesi 17, 9: PG 53, 146). Questa maledizione del suolo ha una funzione medicinale per l’uomo, che dalle «resistenze» della terra dovrebbe essere aiutato a mantenersi nei suoi limiti e riconoscere la propria natura (cfr ibid.). Così, con una bella sintesi, si esprime un altro antico commento, che dice: «Adamo fu creato puro da Dio per il suo servizio. Tutte le creature gli furono concesse per servirlo. Egli era destinato ad essere il signore e re di tutte le creature. Ma quando il male giunse a lui e conversò con lui, egli lo ricevette per mezzo di un ascolto esterno. Poi penetrò nel suo cuore e si impadronì del suo intero essere. Quando così fu catturato, la creazione, che lo aveva assistito e servito, fu catturata con lui» (Pseudo-Macario, Omelie 11, 5: PG 34, 547).

Dicevamo poco fa, citando san Giovanni Crisostomo, che la maledizione del suolo ha una funzione «medicinale». Ciò significa che l’intenzione di Dio, che è sempre benefica, è più profonda della maledizione. Questa, infatti, è dovuta non a Dio ma al peccato, però Dio non può non infliggerla, perché rispetta la libertà dell’uomo e le sue conseguenze, anche negative. Dunque, all’interno della punizione, e anche all’interno della maledizione del suolo, permane una intenzione buona che viene da Dio. Quando Egli dice all’uomo: «Polvere tu sei e in polvere ritornerai!», insieme con la giusta punizione intende anche annunciare una via di salvezza, che passerà proprio attraverso la terra, attraverso quella «polvere», quella «carne» che sarà assunta dal Verbo.

E’ in questa prospettiva salvifica che la parola della Genesi viene ripresa dalla Liturgia del Mercoledì delle Ceneri: come invito alla penitenza, all’umiltà, ad avere presente la propria condizione mortale, ma non per finire nella disperazione, bensì per accogliere, proprio in questa nostra mortalità, l’impensabile vicinanza di Dio, che, oltre la morte, apre il passaggio alla risurrezione, al paradiso finalmente ritrovato. In questo senso ci orienta un testo di Origene, che dice: «Ciò che inizialmente era carne, dalla terra, un uomo di polvere (cfr 1 Cor 15,47), e fu dissolto attraverso la morte e di nuovo reso polvere e cenere – infatti è scritto: sei polvere, e nella polvere ritornerai – viene fatto risorgere di nuovo dalla terra. In seguito, secondo i meriti dell’anima che abita il corpo, la persona avanza verso la gloria di un corpo spirituale» (Sui Princìpi 3, 6, 5: Sch, 268, 248).

I «meriti dell’anima», di cui parla Origene, sono necessari; ma fondamentali sono i meriti di Cristo, l’efficacia del suo Mistero pasquale. San Paolo ce ne ha offerto una formulazione sintetica nella Seconda Lettera ai Corinzi, oggi seconda Lettura: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2 Cor 5,21).

La possibilità per noi del perdono divino dipende essenzialmente dal fatto che Dio stesso, nella persona del suo Figlio, ha voluto condividere la nostra condizione, ma non la corruzione del peccato. E il Padre lo ha risuscitato con la potenza del suo Santo Spirito e Gesù, il nuovo Adamo, è diventato, come dice san Paolo, «spirito datore di vita» (1 Cor 15,45), la primizia della nuova creazione.

Lo stesso Spirito che ha risuscitato Gesù dai morti può trasformare i nostri cuori da cuori di pietra in cuori di carne (cfr Ez 36,26). Lo abbiamo invocato poco fa con il Salmo Miserere: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, / rinnova in me uno spirito saldo. / Non scacciarmi dalla tua presenza / e non privarmi del tuo santo spirito» (Sal 50,12-13). Quel Dio che scacciò i progenitori dall’Eden, ha mandato il proprio Figlio nella nostra terra devastata dal peccato, non lo ha risparmiato, affinché noi, figli prodighi, possiamo ritornare, pentiti e redenti dalla sua misericordia, nella nostra vera patria. Così sia, per ciascuno di noi, per tutti i credenti, per ogni uomo che umilmente si riconosce bisognoso di salvezza. Amen.

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Paparatzifan
00venerdì 24 febbraio 2012 18:32
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INCONTRO CON I PARROCI E I SACERDOTI DELLA DIOCESI DI ROMA, 23.02.2012

Alle ore 11 di questa mattina, nell’Aula Paolo VI, il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato il Clero della diocesi di Roma per il tradizionale appuntamento di inizio Quaresima.
Dopo il saluto del Cardinale Vicario Agostino Vallini, il Santo Padre ha proposto una Lectio divina incentrata su un passo della Lettera agli Efesini (4, 1-16).
Pubblichiamo di seguito la trascrizione delle parole del Papa al clero della Sua diocesi:

LECTIO DIVINA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli,

è per me una grande gioia vedere ogni anno, all’inizio della Quaresima, il mio clero, il clero di Roma, ed è bello per me vedere oggi come siamo numerosi. Io pensavo che in questa grande aula saremmo stati un gruppo quasi perso, ma vedo che siamo un forte esercito di Dio e possiamo con forza entrare in questo nostro tempo, nelle battaglie necessarie per promuovere, per far andare avanti il Regno di Dio. Siamo entrati ieri per la porta della Quaresima, rinnovamento annuale del nostro Battesimo; ripetiamo quasi il nostro catecumenato, andando di nuovo nella profondità del nostro essere battezzati, riprendendo, ritornando al nostro essere battezzati e così incorporati in Cristo. In questo modo, possiamo anche cercare di guidare le nostre comunità nuovamente in questa comunione intima con la morte e risurrezione di Cristo, divenire sempre più conformi a Cristo, divenire sempre più realmente cristiani.

Il brano della Lettera di san Paolo agli Efesini che abbiamo ascoltato (4,1-16) è uno dei grandi testi ecclesiali del Nuovo Testamento.

Comincia con l’autopresentazione dell’autore: «Io Paolo, prigioniero a motivo del Signore» (v. 1). La parola greca desmios dice «incatenato»: Paolo, come un criminale, è in catene, incatenato per Cristo e così inizia nella comunione con la passione di Cristo.

Questo è il primo elemento dell’autopresentazione: egli parla incatenato, parla nella comunione della passione di Cristo e così sta in comunione anche con la risurrezione di Cristo, con la sua nuova vita.

Sempre noi, quando parliamo, dobbiamo parlare in comunione con la sua passione e anche accettare le nostre passioni, le nostre sofferenze e prove, in questo senso: sono proprio prove della presenza di Cristo, che Lui è con noi e che andiamo, in comunione alla sua passione, verso la novità della vita, verso la risurrezione. «Incatenato», quindi, è prima una parola della teologia della croce, della comunione necessaria di ogni evangelizzatore, di ogni Pastore con il Pastore supremo, che ci ha redenti «dandosi», soffrendo per noi. L’amore è sofferenza, è un darsi, è un perdersi, e proprio in questo modo è fecondo. Ma così, nell’elemento esteriore delle catene, della libertà non più presente, appare e traspare anche un altro aspetto: la vera catena che lega Paolo a Cristo è la catena dell’amore. «Incatenato per amore»: un amore che dà libertà, un amore che lo fa capace di rendere presente il Messaggio di Cristo e Cristo stesso. E questo dovrebbe essere, anche per noi tutti, l’ultima catena che ci libera, collegati con la catena dell’amore a Cristo. Così troviamo la libertà e la vera strada della vita, e possiamo, con l’amore di Cristo, guidare a questo amore, che è la gioia, la libertà, anche gli uomini affidatici.

E poi dice «Esorto» (Ef 4,1): è il suo compito quello di esortare, ma non è un ammonimento moralistico. Esorto dalla comunione con Cristo; è Cristo stesso, ultimamente, che esorta, che invita con l’amore di un padre e di una madre. «Comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto» (v. 1); cioè, primo elemento: abbiamo ricevuto una chiamata. Io non sono anonimo o senza senso nel mondo: c’è una chiamata, c’è una voce che mi ha chiamato, una voce che seguo. E la mia vita dovrebbe essere un entrare sempre più profondamente nel cammino della chiamata, seguire questa voce e così trovare la vera strada e guidare gli altri su questa strada.

Sono «chiamato con una chiamata». Direi che abbiamo la grande prima chiamata del Battesimo, di essere con Cristo; la seconda grande chiamata di essere Pastori al suo servizio, e dobbiamo essere sempre più in ascolto di questa chiamata, in modo da poter chiamare o meglio aiutare anche altri affinché sentano la voce del Signore che chiama. La grande sofferenza della Chiesa di oggi nell’Europa e nell’Occidente è la mancanza di vocazioni sacerdotali, ma il Signore chiama sempre, manca l’ascolto. Noi abbiamo ascoltato la sua voce e dobbiamo essere attenti alla voce del Signore anche per altri, aiutare perché ci sia ascolto, e così sia accettata la chiamata, si apra una strada della vocazione ad essere Pastori con Cristo. San Paolo ritorna su questa parola «chiamata» alla fine di questo primo capoverso, e parla di una vocazione, di una chiamata che è alla speranza - la chiamata stessa è una speranza – e così dimostra le dimensioni della chiamata: non è solo individuale, la chiamata è già un fenomeno dialogico, un fenomeno nel «noi»; nell’«io e tu» e nel «noi». «Chiamata alla speranza». Vediamo così le dimensioni della chiamata; esse sono tre. Chiamata, ultimamente, secondo questo testo, verso Dio. Dio è la fine; alla fine arriviamo semplicemente in Dio e tutto il cammino è un cammino verso Dio. Ma questo cammino verso Dio non è mai isolato, un cammino solo nell’«io», è un cammino verso il futuro, verso il rinnovamento del mondo, e un cammino nel «noi» dei chiamati che chiama altri, fa ascoltare loro questa chiamata. Perciò la chiamata è sempre anche una vocazione ecclesiale. Essere fedeli alla chiamata del Signore implica scoprire questo «noi» nel quale e per il quale siamo chiamati, come pure andare insieme e realizzare le virtù necessarie. La «chiamata» implica l’ecclesialità, implica quindi la dimensione verticale e orizzontale, che vanno inscindibilmente insieme, implica ecclesialità nel senso di lasciarci aiutare per il «noi» e di costruire questo «noi» della Chiesa. In tale senso, san Paolo illustra la chiamata con questa finalità: un Dio unico, solo, ma con questa direzione verso il futuro; la speranza è nel «noi» di quelli che hanno la speranza, che amano all’interno della speranza, con alcune virtù che sono proprio gli elementi dell’andare insieme.

La prima è: «con ogni umiltà» (Ef 4,2). Vorrei soffermarmi un po’ di più su questa perché è una virtù che nel catalogo delle virtù precristiane non appare; è una virtù nuova, la virtù della sequela di Cristo.

Pensiamo alla Lettera ai Filippesi, al capitolo due: Cristo, essendo uguale a Dio, si è umiliato, accettando forma di servo e obbedendo fino alla croce (cfr Fil 2,6-8). Questo è il cammino dell’umiltà del Figlio che noi dobbiamo imitare. Seguire Cristo vuol dire entrare in questo cammino dell’umiltà. Il testo greco dice tapeinophrosyne (cfr Ef 4,2): non pensare in grande di se stessi, avere la misura giusta.

Umiltà. Il contrario dell’umiltà è la superbia, come la radice di tutti i peccati. La superbia che è arroganza, che vuole soprattutto potere, apparenza, apparire agli occhi degli altri, essere qualcuno o qualcosa, non ha l’intenzione di piacere a Dio, ma di piacere a se stessi, di essere accettati dagli altri e – diciamo – venerati dagli altri. L’«io» al centro del mondo: si tratta del mio io superbo, che sa tutto.

Essere cristiano vuol dire superare questa tentazione originaria, che è anche il nucleo del peccato originale: essere come Dio, ma senza Dio; essere cristiano è essere vero, sincero, realista.

L’umiltà è soprattutto verità, vivere nella verità, imparare la verità, imparare che la mia piccolezza è proprio la grandezza, perché così sono importante per il grande tessuto della storia di Dio con l’umanità. Proprio riconoscendo che io sono un pensiero di Dio, della costruzione del suo mondo, e sono insostituibile, proprio così, nella mia piccolezza, e solo in questo modo, sono grande. Questo è l’inizio dell’essere cristiano: è vivere la verità. E solo vivendo la verità, il realismo della mia vocazione per gli altri, con gli altri, nel corpo di Cristo, vivo bene.

Vivere contro la verità è sempre vivere male. Viviamo la verità! Impariamo questo realismo: non voler apparire, ma voler piacere a Dio e fare quanto Dio ha pensato di me e per me, e così accettare anche l’altro. L’accettare l’altro, che forse è più grande di me, suppone proprio questo realismo e l’amore della verità; suppone accettare me stesso come «pensiero di Dio», così come sono, nei miei limiti e, in questo modo, nella mia grandezza. Accettare me stesso e accettare l’altro vanno insieme: solo accettando me stesso nel grande tessuto divino posso accettare anche gli altri, che formano con me la grande sinfonia della Chiesa e della creazione.

Io penso che le piccole umiliazioni, che giorno per giorno dobbiamo vivere, sono salubri, perché aiutano ognuno a riconoscere la propria verità ed essere così liberi da questa vanagloria che è contro la verità e non mi può rendere felice e buono. Accettare e imparare questo, e così imparare ad accettare la mia posizione nella Chiesa, il mio piccolo servizio come grande agli occhi di Dio. E proprio questa umiltà, questo realismo, rende liberi.

Se sono arrogante, se sono superbo, vorrei sempre piacere e se non ci riesco sono misero, sono infelice e devo sempre cercare questo piacere. Quando invece sono umile ho la libertà anche di essere in contrasto con un’opinione prevalente, con pensieri di altri, perché l’umiltà mi dà la capacità, la libertà della verità.

E così, direi, preghiamo il Signore perché ci aiuti, ci aiuti ad essere realmente costruttori della comunità della Chiesa; che cresca, che noi stessi cresciamo nella grande visione di Dio, del «noi», e siamo membra del Corpo di Cristo, appartenente così, in unità, al Figlio di Dio.

La seconda virtù - ma siamo più brevi – è la «dolcezza», dice la traduzione italiana (Ef 4,2), in greco è praus, cioè «mite, mansueto»; e anche questa è una virtù cristologica come l’umiltà, che è seguire Cristo su questa strada della umiltà. Così anche praus, essere mite, essere mansueto, è sequela di Cristo che dice: Venite da me, io sono mite di cuore (cfr Mt 11,29).

Questo non vuol dire debolezza. Cristo può essere anche duro, se necessario, ma sempre con un cuore buono, rimane sempre visibile la bontà, la mansuetudine.

Nella Sacra Scrittura, qualche volta, «i mansueti» è semplicemente il nome dei credenti, del piccolo gregge dei poveri che, in tutte le prove, rimangono umili e fermi nella comunione del Signore: cercare questa mitezza, che è il contrario della violenza. La terza beatitudine. Il Vangelo di san Matteo dice: felici i mansueti, perché possederanno la terra (cfr Mt 5,5).

Non i violenti possiedono la terra, alla fine rimangono i mansueti: essi hanno la grande promessa, e così noi dobbiamo essere proprio sicuri della promessa di Dio, della mitezza che è più forte della violenza. In questa parola della mansuetudine si nasconde il contrasto con la violenza: i cristiani sono i non violenti, sono gli oppositori della violenza.

E san Paolo prosegue: «con magnanimità» (Ef 4,2): Dio è magnanimo.

Nonostante le nostre debolezze e i nostri peccati, sempre di nuovo comincia con noi. Mi perdona, anche se sa che domani cadrò di nuovo nel peccato; distribuisce i suoi doni, anche se sa che siamo spesso amministratori insufficienti. Dio è magnanimo, di grande cuore, ci affida la sua bontà. E questa magnanimità, questa generosità fa parte proprio della sequela di Cristo, di nuovo.

Infine, «sopportandovi a vicenda nell’amore» (Ef 4,2); mi sembra che proprio dall’umiltà segua questa capacità di accettare l’altro. L’alterità dell’altro è sempre un peso. Perché l’altro è diverso? Ma proprio questa diversità, questa alterità è necessaria per la bellezza della sinfonia di Dio. E dobbiamo, proprio con l’umiltà nella quale riconosco i miei limiti, la mia alterità nel confronto con l’altro, il peso che io sono per l’altro, divenire capaci non solo di sopportare l’altro, ma, con amore, trovare proprio nell’alterità anche la ricchezza del suo essere e delle idee e della fantasia di Dio.

Tutto questo, quindi, serve come virtù ecclesiale alla costruzione del Corpo di Cristo, che è lo Spirito di Cristo, perché divenga di nuovo esempio, di nuovo corpo, e cresca. Paolo lo dice poi in concreto, affermando che tutta questa varietà dei doni, dei temperamenti, dell’essere uomo, serve per l’unità (cfr Ef 4,11-13). Tutte queste virtù sono anche virtù dell’unità. Per esempio, per me è molto significativo che la prima Lettera dopo il Nuovo Testamento, la Prima Lettera di Clemente, sia indirizzata ad una comunità, quella dei Corinzi, divisa e sofferente per la divisione (cfr PG 1, 201-328). In questa Lettera, proprio la parola «umiltà» è una parola chiave: sono divisi perché manca l’umiltà, l’assenza dell’umiltà distrugge l’unità. L’umiltà è una fondamentale virtù dell’unità e solo così cresce l’unità del Corpo di Cristo, diventiamo realmente uniti e riceviamo la ricchezza e la bellezza dell’unità. Perciò è logico che l’elenco di queste virtù, che sono virtù ecclesiali, cristologiche, virtù dell’unità, vada verso l’unità esplicita: «un solo Signore, una sola fede, un solo Battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti» (Ef 4,5). Una sola fede e un solo Battesimo, come realtà concreta della Chiesa che sta sotto l’unico Signore.

Battesimo e fede sono inseparabili. Il Battesimo è il Sacramento della fede e la fede ha un duplice aspetto.

E’ un atto profondamente personale: io conosco Cristo, mi incontro con Cristo e do fiducia a Lui. Pensiamo alla donna che tocca il suo vestito nella speranza di essere salvata (cfr Mt 9, 20-21); si affida a Lui totalmente e il Signore dice: Sei salva, perché hai creduto (cfr Mt 9, 22). Anche ai lebbrosi, all’unico che ritorna, dice: La tua fede ti ha salvato (cfr Lc 17, 19). Quindi la fede inizialmente è soprattutto un incontro personale, un toccare il vestito di Cristo, un essere toccato da Cristo, essere in contatto con Cristo, affidarsi al Signore, avere e trovare l’amore di Cristo e, nell’amore di Cristo, la chiave anche della verità, dell’universalità. Ma proprio per questo, perché chiave dell’universalità dell’unico Signore, tale fede non è solo un atto personale di fiducia, ma un atto che ha un contenuto. La fides qua esige la fides quae, il contenuto della fede, e il Battesimo esprime questo contenuto: la formula trinitaria è l’elemento sostanziale del credo dei cristiani. Esso, di per sé, è un «sì» a Cristo, e così al Dio Trinitario, con questa realtà, con questo contenuto che mi unisce a questo Signore, a questo Dio, che ha questo Volto: vive come Figlio del Padre nell’unità dello Spirito Santo e nella comunione del Corpo di Cristo. Quindi, questo mi sembra molto importante: la fede ha un contenuto e non è sufficiente, non è un elemento di unificazione se non c’è e non viene vissuto e confessato questo contenuto della unica fede.

Perciò, «Anno della Fede», Anno del Catechismo - per essere molto pratico - sono collegati imprescindibilmente. Rinnoveremo il Concilio solo rinnovando il contenuto - condensato poi di nuovo - del Catechismo della Chiesa Cattolica.

E un grande problema della Chiesa attuale è la mancanza di conoscenza della fede, è l’«analfabetismo religioso», come hanno detto i Cardinali venerdì scorso circa questa realtà. «Analfabetismo religioso»; e con questo analfabetismo non possiamo crescere, non può crescere l’unità. Perciò dobbiamo noi stessi appropriarci di nuovo di questo contenuto, come ricchezza dell’unità e non come un pacchetto di dogmi e di comandamenti, ma come una realtà unica che si rivela nella sua profondità e bellezza. Dobbiamo fare il possibile per un rinnovamento catechistico, perché la fede sia conosciuta e così Dio sia conosciuto, Cristo sia conosciuto, la verità sia conosciuta e cresca l’unità nella verità.

Poi tutte queste unità finiscono nel: «un solo Dio e Padre di tutti». Tutto quanto non è umiltà, tutto quanto non è fede comune, distrugge l’unità, distrugge la speranza e rende invisibile il Volto di Dio. Dio è Uno e Unico. Il monoteismo era il grande privilegio di Israele, che ha conosciuto l’unico Dio, e rimane elemento costitutivo della fede cristiana. Il Dio Trinitario - lo sappiamo - non sono tre divinità, ma è un unico Dio; e vediamo meglio che cosa voglia dire unità: unità è unità dell’amore. E’ così: proprio perché è il circolo di amore, Dio è Uno e Unico.

Per Paolo, come abbiamo visto, l’unità di Dio si identifica con la nostra speranza. Perché? In che modo? Perché l’unità di Dio è speranza, perché questa ci garantisce che, alla fine, non ci sono diversi poteri, alla fine non c’è dualismo tra poteri diversi e contrastanti, alla fine non rimane il capo del drago che si potrebbe levare contro Dio, non rimane la sporcizia del male e del peccato.

Alla fine rimane solo la luce! Dio è unico ed è l’unico Dio: non c’è altro potere contro di Lui! Sappiamo che oggi, con i mali che viviamo nel mondo sempre più crescenti, molti dubitano dell’Onnipotenza di Dio; anzi diversi teologi – anche buoni – dicono che Dio non sarebbe Onnipotente, perché non sarebbe compatibile con l’onnipotenza quanto vediamo nel mondo; e così essi vogliono creare una nuova apologia, scusare Dio e «discolpare» Dio da questi mali. Ma questo non è il modo giusto, perché se Dio non è Onnipotente, se ci sono e rimangono altri poteri, non è veramente Dio e non è speranza, perché alla fine rimarrebbe il politeismo, alla fine rimarrebbe la lotta, il potere del male. Dio è Onnipotente, l’unico Dio. Certo, nella storia si è dato un limite alla sua onnipotenza, riconoscendo la nostra libertà. Ma alla fine tutto ritorna e non rimane altro potere; questa è la speranza: che la luce vince, l’amore vince! Alla fine non rimane la forza del male, rimane solo Dio! E così siamo nel cammino della speranza, camminando verso l’unità dell’unico Dio, rivelatosi per lo Spirito Santo, nell’Unico Signore, Cristo.

Poi da questa grande visione, san Paolo scende un po’ ai dettagli e dice di Cristo: «Asceso in alto ha portato con sé i prigionieri, ha distribuito doni agli uomini» (Ef 4,8). L’Apostolo cita il Salmo 68, che descrive in modo poetico la salita di Dio con l’Arca dell’Alleanza verso le altezze, verso la cima del Monte Sion, verso il tempio: Dio come vincitore che ha superato gli altri, che sono prigionieri, e, come un vero vincitore, distribuisce doni. Il Giudaismo ha visto in questo piuttosto un’immagine di Mosé, che sale verso il Monte Sinai per ricevere nell’altezza la volontà di Dio, i Comandamenti, non considerati come peso, ma come il dono di conoscere il Volto di Dio, la volontà di Dio. Paolo, alla fine, vede qui un’immagine dell’ascesa di Cristo che sale in alto dopo essere sceso; sale e tira l’umanità verso Dio, fà posto per la carne e il sangue in Dio stesso; ci tira verso l’altezza del suo essere Figlio e ci libera dalla prigionia del peccato, ci rende liberi perché vincitore. Essendo vincitore, Egli distribuisce i doni. E così siamo arrivati dall’ascesa di Cristo alla Chiesa. I doni sono la charis come tale, la grazia: essere nella grazia, nell’amore di Dio. E poi i carismi che concretizzano la charis nelle singole funzioni e missioni: apostoli, profeti, evangelisti, pastori e maestri per edificare così il Corpo di Cristo (cfr Ef 4,11).

Non vorrei entrare adesso in un’esegesi dettagliata. E’ molto discusso qui che cosa voglia dire apostoli, profeti… In ogni caso, possiamo dire che la Chiesa è costruita sul fondamento della fede apostolica, che rimane sempre presente: gli Apostoli, nella successione apostolica, sono presenti nei Pastori, che siamo noi, per la grazia di Dio e nonostante tutta la nostra povertà.

E siamo grati a Dio che ci ha voluto chiamare per stare nella successione apostolica e continuare ad edificare il Corpo di Cristo. Qui appare un elemento che mi sembra importante: i ministeri – i cosiddetti ministeri – sono chiamati «doni di Cristo», sono carismi; cioè, non c’è questa opposizione: da una parte il ministero, come una cosa giuridica, e dall’altra i carismi, come dono profetico, vivace, spirituale, come presenza dello Spirito e la sua novità. No! Proprio i ministeri sono dono del Risorto e sono carismi, sono articolazioni della sua grazia; uno non può essere sacerdote senza essere carismatico. E’ un carisma essere sacerdote. Questo - mi sembra - dobbiamo tenerlo presente: essere chiamato al sacerdozio, essere chiamato con un dono del Signore, con un carisma del Signore. E così, ispirati dal suo Spirito, dobbiamo cercare di vivere questo nostro carisma. Solo in questo modo penso si possa capire che la Chiesa in Occidente ha collegato inscindibilmente sacerdozio e celibato: essere in un’esistenza escatologica verso l’ultima destinazione della nostra speranza, verso Dio.

Proprio perché il sacerdozio è un carisma e deve essere anche collegato con un carisma: se non fosse questo e fosse solamente una cosa giuridica, sarebbe assurdo imporre un carisma, che è un vero carisma; ma se il sacerdozio stesso è carisma, è normale che conviva con il carisma, con lo stato carismatico della vita escatologica.

Preghiamo il Signore perché ci aiuti a capire sempre di più questo, a vivere sempre più nel carisma dello Spirito Santo e a vivere così anche questo segno escatologico della fedeltà al Signore Unico, che proprio per il nostro tempo è necessario, con la decomposizione del matrimonio e della famiglia, che possono comporsi solo nella luce di questa fedeltà all’unica chiamata del Signore.

Un ultimo punto. San Paolo parla della crescita dell’uomo perfetto, che raggiunge la misura della pienezza di Cristo: non saremo più fanciulli in balia delle onde, trasportati da qualsiasi vento di dottrina (cfr Ef 4,13-14). «Al contrario, agendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa, tendendo a Lui» (Ef 4,15). Non si può vivere in una fanciullezza spirituale, in una fanciullezza di fede: purtroppo, in questo nostro mondo, vediamo questa fanciullezza. Molti, oltre la prima catechesi, non sono più andati avanti; forse è rimasto questo nucleo, forse si è anche distrutto. E del resto, essi sono sulle onde del mondo e nient’altro; non possono, come adulti, con competenza e con convinzione profonda, esporre e rendere presente la filosofia della fede - per così dire - la grande saggezza, la razionalità della fede, che apre gli occhi anche degli altri, che apre gli occhi proprio su quanto è buono e vero nel mondo. Manca questo essere adulti nella fede e rimane la fanciullezza nella fede.

Certo, in questi ultimi decenni, abbiamo vissuto anche un altro uso della parola «fede adulta». Si parla di «fede adulta», cioè emancipata dal Magistero della Chiesa. Fino a quando sono sotto la madre, sono fanciullo, devo emanciparmi; emancipato dal Magistero, sono finalmente adulto. Ma il risultato non è una fede adulta, il risultato è la dipendenza dalle onde del mondo, dalle opinioni del mondo, dalla dittatura dei mezzi di comunicazione, dall’opinione che tutti pensano e vogliono. Non è vera emancipazione, l’emancipazione dalla comunione del Corpo di Cristo! Al contrario, è cadere sotto la dittatura delle onde, del vento del mondo. La vera emancipazione è proprio liberarsi da questa dittatura, nella libertà dei figli di Dio che credono insieme nel Corpo di Cristo, con il Cristo Risorto, e vedono così la realtà, e sono capaci di rispondere alle sfide del nostro tempo.

Mi sembra che dobbiamo pregare molto il Signore, perché ci aiuti ad essere emancipati in questo senso, liberi in questo senso, con una fede realmente adulta, che vede, fa vedere e può aiutare anche gli altri ad arrivare alla vera perfezione, alla vera età adulta, in comunione con Cristo.

In questo contesto c’è la bella espressione dell’aletheuein en te agape, essere veri nella carità, vivere la verità, essere verità nella carità: i due concetti vanno insieme. Oggi il concetto di verità è un po’ sotto sospetto perché si combina verità con violenza. Purtroppo nella storia ci sono stati anche episodi dove si cercava di difendere la verità con la violenza. Ma le due sono contrarie. La verità non si impone con altri mezzi, se non da se stessa! La verità può arrivare solo tramite se stessa, la propria luce. Ma abbiamo bisogno della verità; senza verità non conosciamo i veri valori e come potremo ordinare il kosmos dei valori? Senza verità siamo ciechi nel mondo, non abbiamo strada.

Il grande dono di Cristo è proprio che vediamo il Volto di Dio e, anche se in modo enigmatico, molto insufficiente, conosciamo il fondo, l’essenziale della verità in Cristo, nel suo Corpo. E conoscendo questa verità, cresciamo anche nella carità che è la legittimazione della verità e ci mostra che è verità. Direi proprio che la carità è il frutto della verità - l’albero si conosce dai frutti – e se non c’è carità, anche la verità non è propriamente appropriata, vissuta; e dove è la verità, nasce la carità. Grazie a Dio, lo vediamo in tutti i secoli: nonostante i fatti negativi, il frutto della carità è sempre stato presente nella cristianità e lo è oggi! Lo vediamo nei martiri, lo vediamo in tante suore, frati e sacerdoti che servono umilmente i poveri, i malati, che sono presenza della carità di Cristo. E così sono il grande segno che qui è la verità.

Preghiamo il Signore perché ci aiuti a portare il frutto della carità ed essere così testimoni della sua verità. Grazie.

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Paparatzifan
00venerdì 24 febbraio 2012 19:02
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UDIENZA AI SOCI DEL CIRCOLO SAN PIETRO, 24.02.2012

Alle ore 12.15 di oggi, nella Sala dei Papi del Palazzo Apostolico, il Santo Padre riceve in Udienza una delegazione dei soci del Circolo San Pietro, in occasione della Festa della Cattedra di San Pietro, celebrata quest’anno domenica 19 febbraio.
Riportiamo di seguito il discorso che il Papa rivolge ai presenti nel corso dell’incontro:

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Cari Soci del Circolo di San Pietro!

Sono lieto di accogliervi in questo incontro che ha luogo in prossimità della Festa della Cattedra di San Pietro, circostanza questa che vi offre l’occasione di manifestare la peculiare fedeltà alla Sede Apostolica che, da sempre, contraddistingue il vostro benemerito Circolo. Vi saluto tutti con viva cordialità. Saluto il Presidente Generale, il Duca Leopoldo Torlonia, ringraziandolo per le affettuose e devote parole che ha voluto rivolgermi, interpretando i sentimenti di voi tutti, e saluto l’Assistente ecclesiastico.

Abbiamo appena iniziato il cammino quaresimale e, come ho ricordato nel mio recente Messaggio (cfr L’Osservatore Romano, 8 febbraio 2012, p. 8), questo Tempo liturgico ci invita a riflettere sul cuore della vita cristiana: la carità. La Quaresima è un tempo propizio affinché, con l’aiuto della Parola di Dio e dei Sacramenti, ci rinnoviamo nella fede e nell’amore, a livello sia personale che comunitario. E’ un percorso segnato dalla preghiera e dalla condivisione, dal silenzio e dal digiuno, in attesa di vivere la gioia pasquale. La Lettera agli Ebrei ci esorta con queste parole: "Prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone" (Eb 10,24).

Cari amici, oggi come ieri, la testimonianza della carità tocca in modo particolare il cuore degli uomini; la nuova evangelizzazione, specialmente in una città cosmopolita come Roma, richiede grande apertura di spirito e sapiente disponibilità verso tutti. In tale senso, bene si pone la rete di interventi assistenziali che voi, ogni giorno, realizzate a favore di quanti si trovano nel bisogno. Mi piace ricordare la generosa opera che svolgete nelle Cucine, nell’Asilo notturno, nella Casa famiglia, nel Centro polifunzionale, come pure la testimonianza silenziosa, ma quanto mai eloquente che offrite a sostegno dei malati e dei loro familiari nell’Hospice Fondazione Roma, senza dimenticare l’impegno missionario in Laos e le adozioni a distanza.

Noi sappiamo che l’autenticità della nostra fedeltà al Vangelo si verifica anche in base all’attenzione e alla sollecitudine concreta che ci sforziamo di manifestare verso il prossimo, specialmente verso i più deboli ed emarginati. L’attenzione all’altro comporta desiderare per lui il bene, sotto tutti gli aspetti: fisico, morale e spirituale. Anche se la cultura contemporanea sembra aver smarrito il senso del bene e del male, occorre ribadire con forza che il bene esiste e vince. La responsabilità verso il prossimo significa allora volere e fare il bene dell’altro, desiderando che egli si apra alla logica del bene; interessarsi al fratello significa aprire gli occhi sulle sue necessità, superando la durezza di cuore che rende ciechi alle sofferenze altrui. Così il servizio caritativo diventa una forma privilegiata di evangelizzazione, alla luce dell’insegnamento di Gesù, il quale riterrà come fatto a se stesso quanto avremo fatto ai nostri fratelli, specialmente a chi tra loro è piccolo e trascurato (cfr Mt 25,40). Occorre armonizzare il nostro cuore con il cuore di Cristo, affinché il sostegno amorevole offerto agli altri si traduca in partecipazione e consapevole condivisione delle loro sofferenze e delle loro speranze, rendendo così visibile, da una parte la misericordia infinita di Dio verso ogni uomo, che brilla sul volto di Cristo, e dall’altra la nostra fede in Lui. L’incontro con l’altro e l’aprire il cuore al suo bisogno sono occasione di salvezza e di beatitudine.

Cari componenti del Circolo di San Pietro, come ogni anno, siete venuti quest’oggi a consegnarmi l’obolo per la carità del Papa, che avete raccolto nelle parrocchie di Roma. Esso rappresenta un concreto aiuto offerto al Successore di Pietro, perché possa rispondere alle innumerevoli richieste che gli provengono da ogni parte del mondo, specialmente dai Paesi più poveri. Vi ringrazio di cuore per tutta l’attività che svolgete generosamente e con spirito di sacrificio e che nasce dalla vostra fede, dal rapporto con il Signore coltivato ogni giorno. Fede, carità e testimonianza continuino ad essere le linee-guida del vostro apostolato. E come, poi, non ricordare la vostra presenza durante le Celebrazioni liturgiche nella Basilica di San Pietro? Essa torna tanto maggiormente a vostro onore, in quanto manifestate con essa la costante dedizione e la devota fedeltà che vi uniscono alla Sede dell’Apostolo Pietro. Il Signore ve ne renda merito e ricolmi di benedizioni il vostro Circolo; aiuti ciascuno di voi a realizzare la propria vocazione cristiana in famiglia, nel lavoro e all’interno della vostra Associazione.

Cari amici, nel rinnovare il mio apprezzamento per il servizio che rendete alla Chiesa, vi affido, insieme alle vostre famiglie, all’aiuto materno della Vergine Maria Salus Populi Romani e dei Santi vostri Protettori. Da parte mia, assicuro il ricordo nella preghiera per voi, per quanti vi affiancano nelle varie iniziative e per coloro che incontrate nel vostro apostolato quotidiano, mentre con affetto imparto a tutti una speciale Benedizione Apostolica.

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Paparatzifan
00sabato 25 febbraio 2012 19:58
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UDIENZA AI PARTECIPANTI ALL’ASSEMBLEA GENERALE DELLA PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA, 25.02.2012

Alle ore 11.45 di questa mattina, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza, a conclusione dei lavori, i partecipanti alla XVIII Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita, che si è svolta nell’Aula nuova del Sinodo in Vaticano dal 23 al 25 febbraio, sul tema: "Diagnosi e terapia dell’infertilità".
Riportiamo di seguito il discorso che il Papa rivolge ai presenti nel corso dell’incontro:

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Signori Cardinali,
venerati fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle,

sono lieto di incontrarvi in occasione dei lavori della XVIII Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita. Saluto e ringrazio voi tutti per il generoso servizio in difesa e a favore della vita, in particolare il Presidente, Mons. Ignacio Carrasco de Paula, per le parole che mi ha rivolto anche a nome vostro. L’impostazione che avete dato ai vostri lavori manifesta la fiducia che la Chiesa ha sempre riposto nelle possibilità della ragione umana e in un lavoro scientifico rigorosamente condotto, che tengano sempre presente l’aspetto morale. Il tema da voi scelto quest’anno, "Diagnosi e terapia dell’infertilità", oltre che avere una rilevanza umana e sociale, possiede un peculiare valore scientifico ed esprime la possibilità concreta di un fecondo dialogo tra dimensione etica e ricerca biomedica.

Davanti al problema dell’infertilità della coppia, infatti, avete scelto di richiamare e considerare attentamente la dimensione morale, ricercando le vie per una corretta valutazione diagnostica ed una terapia che corregga le cause dell’infertilità.

Questo approccio muove dal desiderio non solo di donare un figlio alla coppia, ma di restituire agli sposi la loro fertilità e tutta la dignità di essere responsabili delle proprie scelte procreative, per essere collaboratori di Dio nella generazione di un nuovo essere umano.

La ricerca di una diagnosi e di una terapia rappresenta l’approccio scientificamente più corretto alla questione dell’infertilità, ma anche quello maggiormente rispettoso dell’umanità integrale dei soggetti coinvolti. Infatti, l’unione dell’uomo e della donna in quella comunità di amore e di vita che è il matrimonio, costituisce l’unico "luogo" degno per la chiamata all’esistenza di un nuovo essere umano, che è sempre un dono.

È mio desiderio, pertanto, incoraggiare l’onestà intellettuale del vostro lavoro, espressione di una scienza che mantiene desto il suo spirito di ricerca della verità, a servizio dell’autentico bene dell’uomo, e che evita il rischio di essere una pratica meramente funzionale. La dignità umana e cristiana della procreazione, infatti, non consiste in un "prodotto", ma nel suo legame con l’atto coniugale, espressione dell’amore dei coniugi, della loro unione non solo biologica, ma anche spirituale.

L’Istruzione Donum vitae ci ricorda, a questo proposito, che "per la sua intima struttura, l’atto coniugale, mentre unisce con profondissimo vincolo gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite, secondo leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna" (n. 126). Le legittime aspirazioni genitoriali della coppia che si trova in una condizione di infertilità devono pertanto trovare, con l’aiuto della scienza, una risposta che rispetti pienamente la loro dignità di persone e di sposi. L’umiltà e la precisione con cui approfondite queste problematiche, ritenute da alcuni vostri colleghi desuete dinanzi al fascino della tecnologia della fecondazione artificiale, merita incoraggiamento e sostegno. In occasione del X anniversario dell’Enciclica Fides et ratio, ricordavo come "il facile guadagno o, peggio ancora, l’arroganza di sostituirsi al Creatore svolgono, a volte, un ruolo determinante. È questa una forma di hybris della ragione, che può assumere caratteristiche pericolose per la stessa umanità" (Discorso ai Partecipanti al Congresso Internazionale promosso dalla Pontificia Università Lateranense, 18 ottobre 2008: AAS 100 [2008], 788-789). Effettivamente lo scientismo e la logica del profitto sembrano oggi dominare il campo dell’infertilità e della procreazione umana, giungendo a limitare anche molte altre aree di ricerca.

La Chiesa presta molta attenzione alla sofferenza delle coppie con infertilità, ha cura di esse e, proprio per questo, incoraggia la ricerca medica. La scienza, tuttavia, non sempre è in grado di rispondere ai desideri di tante coppie.

Vorrei allora ricordare agli sposi che vivono la condizione dell’infertilità, che non per questo la loro vocazione matrimoniale viene frustrata. I coniugi, per la loro stessa vocazione battesimale e matrimoniale, sono sempre chiamati a collaborare con Dio nella creazione di un’umanità nuova. La vocazione all’amore, infatti, è vocazione al dono di sé e questa è una possibilità che nessuna condizione organica può impedire. Dove, dunque, la scienza non trova una risposta, la risposta che dona luce viene da Cristo.

Desidero incoraggiare tutti voi qui convenuti per queste giornate di studio e che talora lavorate in un contesto medico-scientifico dove la dimensione della verità risulta offuscata: proseguite il cammino intrapreso di una scienza intellettualmente onesta e affascinata dalla ricerca continua del bene dell’uomo. Nel vostro percorso intellettuale non disdegnate il dialogo con la fede. Rivolgo a voi l’accorato appello espresso nell’Enciclica Deus caritas est: "Per poter operare rettamente, la ragione deve sempre di nuovo essere purificata, perché il suo accecamento etico, derivante dal prevalere dell'interesse e del potere che l'abbagliano, è un pericolo mai totalmente eliminabile. […] La fede permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio" (n. 28). D’altro canto proprio la matrice culturale creata dal cristianesimo – radicata nell’affermazione dell’esistenza della Verità e dell’intelligibilità del reale alla luce della Somma Verità – ha reso possibile nell’Europa del Medioevo lo sviluppo del sapere scientifico moderno, sapere che nelle culture precedenti era rimasto solo in germe.

Illustri scienziati e voi tutti membri dell’Accademia impegnati a promuovere la vita e la dignità della persona umana, tenete sempre presente anche il fondamentale ruolo culturale che svolgete nella società e l’influenza che avete nel formare l’opinione pubblica. Il mio predecessore, il beato Giovanni Paolo II ricordava che gli scienziati, "proprio perché sanno di più, sono chiamati a servire di più" (Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 11 novembre 2002: AAS 95 [2003], 206). La gente ha fiducia in voi che servite la vita, ha fiducia nel vostro impegno a sostegno di chi ha bisogno di conforto e di speranza. Non cedete mai alla tentazione di trattare il bene delle persone riducendolo ad un mero problema tecnico! L’indifferenza della coscienza nei confronti del vero e del bene rappresenta una pericolosa minaccia per un autentico progresso scientifico.

Vorrei concludere rinnovando l’augurio che il Concilio Vaticano II rivolse agli uomini di pensiero e di scienza: "Felici sono coloro che, possedendo la verità, la continuano a cercare, per rinnovarla, per approfondirla, per donarla agli altri" (Messaggio agli uomini di pensiero e di scienza, 8 dicembre 1965: AAS 58 [1966], 12). È con questi auspici che imparto a voi tutti qui presenti e ai vostri cari la Benedizione Apostolica.

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Paparatzifan
00domenica 26 febbraio 2012 20:01
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LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS , 26.02.2012

Alle ore 12 di oggi, I Domenica di Quaresima, il Santo Padre Benedetto XVI si affaccia alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare l’Angelus con i fedeli ed i pellegrini convenuti in Piazza San Pietro.
Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:

PRIMA DELL’ANGELUS

Cari fratelli e sorelle!

In questa prima domenica di Quaresima, incontriamo Gesù che, dopo aver ricevuto il battesimo nel fiume Giordano da Giovanni il Battista (cfr Mc 1,9), subisce la tentazione nel deserto (cfr Mc 1,12-13). La narrazione di san Marco è concisa, priva dei dettagli che leggiamo negli altri due Vangeli di Matteo e di Luca.
Il deserto di cui si parla ha diversi significati. Può indicare lo stato di abbandono e di solitudine, il “luogo” della debolezza dell’uomo dove non vi sono appoggi e sicurezze, dove la tentazione si fa più forte. Ma esso può indicare anche un luogo di rifugio e di riparo, come lo fu per il popolo di Israele scampato alla schiavitù egiziana, dove si può sperimentare in modo particolare la presenza di Dio. Gesù «nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana» ci dice san Luca. San Leone Magno commenta che «il Signore ha voluto subire l’attacco del tentatore per difenderci con il suo aiuto e per istruirci col suo esempio» (Tractatus XXXIX,3 De ieiunio quadragesimae: CCL 138/A, Turnholti 1973, 214-215).
Che cosa può insegnarci questo episodio? Come leggiamo nel Libro dell’Imitazione di Cristo, «l’uomo non è mai del tutto esente dalla tentazione finché vive… ma è con la pazienza e con la vera umiltà che diventeremo più forti di ogni nemico» (Liber I, c. XIII, Città del Vaticano 1982, 37), la pazienza e l’umiltà di seguire ogni giorno il Signore, imparando a costruire la nostra vita non al di fuori di Lui o come se non esistesse, ma in Lui e con Lui, perché è la fonte della vera vita. La tentazione di rimuovere Dio, di mettere ordine da soli in se stessi e nel mondo contando solo sulle proprie capacità, è sempre presente nella storia dell’uomo.
Gesù proclama che «il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino» (Mc 1,15), annuncia che in Lui accade qualcosa di nuovo: Dio si rivolge all’uomo in modo inaspettato, con una vicinanza unica concreta, piena di amore; Dio si incarna ed entra nel mondo dell’uomo per prendere su di sé il peccato, per vincere il male e riportare l’uomo nel mondo di Dio. Ma questo annuncio è accompagnato dalla richiesta di corrispondere ad un dono così grande.

Gesù, infatti, aggiunge: «convertitevi e credete nel vangelo» (Mc 1,15); è l’invito ad avere fede in Dio e a convertire ogni giorno la nostra vita alla sua volontà, orientando al bene ogni nostra azione e pensiero. Il tempo della Quaresima è il momento propizio per rinnovare e rendere più saldo il nostro rapporto con Dio, attraverso la preghiera quotidiana, i gesti di penitenza, le opere di fraternità.

Supplichiamo con fervore Maria Santissima perché accompagni il nostro cammino quaresimale con la sua protezione e ci aiuti ad imprimere nel nostro cuore e nella nostra vita le parole di Gesù Cristo, per convertirci a Lui. Affido, inoltre, alla vostra preghiera la settimana di Esercizi spirituali che questa sera inizierò con i miei Collaboratori della Curia Romana.

DOPO L'ANGELUS

En ce premier dimanche de Carême je suis heureux de vous accueillir, chers frères et sœurs francophones. Le temps du Carême est exigeant car il nous invite à revenir vers Dieu. Jésus après son baptême, au début de sa mission, est conduit au désert. Avec Lui, expérimentons ce temps de désert et de solitude. Sachons rejeter tout ce qui peut nous conduire loin de Dieu et profitons de ce Carême pour revenir vers Lui. Prenons avec courage les chemins de la prière. Redécouvrons l’importance de notre relation à Dieu et « faisons attention les uns aux autres pour nous stimuler dans la charité et les œuvres bonnes » (He 10,24). Que la Vierge Marie nous aide à faire totalement la volonté de notre Dieu ! Bon Carême à tous !

I am pleased to greet all the English-speaking visitors and pilgrims present for this moment of prayer. In these first days of Lent, I invite you to embrace the spirit of this holy season, through prayer, fasting and almsgiving. As we do so, may the Lord accompany us, so that, at the end of Lent, we may worthily celebrate his victory on the cross. God bless all of you abundantly!

Von Herzen heiße ich an diesem ersten Fastensonntag alle deutschsprachigen Pilger und Besucher willkommen. Die österliche Bußzeit ist eine Einladung zu Gebet und Umkehr, um zu einer tieferen Erkenntnis Jesu Christi zu gelangen. Sie will uns helfen, den Glauben mit neuem Schwung zu leben und vermehrt die Nächstenliebe zu üben. Dazu leitet uns auch das Wort aus dem Hebräerbrief an, das ich der diesjährigen Botschaft zur Fastenzeit vorangestellt habe: „Laßt uns aufeinander achten und uns zur Liebe und zu guten Taten anspornen" (Hebr 10,24). Gehen wir daher gemeinsam mit dem Herrn den Weg durch diese heiligen vierzig Tage. Er geleitet uns auf sicheren Pfaden.

Saludo con afecto a los peregrinos de lengua española, en particular a los fieles de la Hermandad de La Virgen de la Victoria, de Huelva. En el Evangelio de este primer domingo de Cuaresma, Jesús es conducido por el Espíritu al desierto «para ser tentado por el diablo». Él supera la tentación y proclama con vigor el preludio de la gran sinfonía de la redención, invitando a la conversión y la fe. Al comenzar este santo tiempo, animo a todos a que, guiados por la fuerza de Dios, intensifiquen la oración, la penitencia y la práctica de la caridad, para así llegar victoriosos y purificados a las celebraciones pascuales. Confiemos a la Virgen María estas intenciones. Muchas gracias.

Słowo serdecznego pozdrowienia kieruję do wszystkich Polaków. „Bliskie jest królestwo Boże. Nawracajcie się i wierzcie w Ewangelię!" (Mk 1,15). Tymi słowami, Chrystus wzywa nas dzisiaj do pokuty i przemiany życia. Bądźmy dla świata ewangelicznym zaczynem prawdy przez gesty miłosierdzia, przebaczenia i pojednania. Życzę wszystkim obfitych owoców duchowych Wielkiego Postu i z serca błogosławię.

[Rivolgo il mio cordiale saluto a tutti i Polacchi. "Il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo" (Mc 1,15). Con tali parole, Cristo ci esorta a fare penitenza e a cambiare vita. Bisogna che diventiamo per il mondo lievito evangelico della verità attraverso i gesti della misericordia, del perdono e della riconciliazione. Auguro a ciascuno di voi abbondanti frutti spirituali nella Quaresima e di cuore vi benedico.]

Saluto con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli venuti da Cento di Ferrara e dalla Diocesi di Bologna, da Vicenza, Bari e Modugno. Saluto i ragazzi di alcune Parrocchie della Diocesi di Milano che si stanno preparando alla professione di fede, come pure la delegazione dei "Consigli Comunali dei Ragazzi" della Provincia di Catania. A tutti auguro una buona domenica e una buona Quaresima.

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Paparatzifan
00sabato 3 marzo 2012 13:59
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LETTERA DEL SANTO PADRE ALL’EM.MO CARD. LAURENT MONSENGWO PASINYA, PREDICATORE DEGLI ESERCIZI SPIRITUALI, 03.03.2012

Pubblichiamo di seguito il testo della Lettera che il Santo Padre Benedetto XVI ha indirizzato al Card. Laurent Monsengwo Pasinya, Arcivescovo di Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo), al termine degli Esercizi Spirituali da lui predicati questa mattina in Vaticano per il Papa e la Curia Romana:

LETTERA DEL SANTO PADRE

Al Venerato Fratello
Cardinale LAURENT MONSENGWO PASINYA
Arcivescovo di Kinshasa

Al termine della settimana di Esercizi Spirituali, in cui Lei ha proposto le meditazioni sul tema della comunione con Dio, desidero esprimerLe, venerato Fratello, la mia cordiale gratitudine per il prezioso servizio da Lei offerto a me e ai miei collaboratori.

Commentando alcuni passi della Prima Lettera di San Giovanni, Lei ci ha guidato in un itinerario di riscoperta del mistero di comunione in cui siamo stati inseriti a partire dal nostro Battesimo. Grazie anche a questo percorso da Lei sapientemente predisposto, il silenzio e la preghiera di questi giorni, in modo speciale l’adorazione eucaristica, sono stati ricolmi di profonda riconoscenza verso Dio, per il "grande amore" (1 Gv 3,1) che ci ha dato e con il quale ci ha legati a Sé in una relazione filiale, che fin d’ora costituisce la nostra più profonda realtà e che si manifesterà pienamente quando "i nostri occhi vedranno il [suo] volto e noi saremo simili a [Lui]" (Messale Romano, Pregh. euc. III).

Un motivo di particolare letizia è stato per me il poter cogliere nella sua stessa presenza e nel suo stile, venerato Fratello, la peculiare testimonianza di fede della Chiesa che crede, spera e ama nel Continente africano: un patrimonio spirituale che costituisce una grande ricchezza per tutto il Popolo di Dio e per il mondo intero, specialmente nella prospettiva della nuova evangelizzazione.

Quale figlio della Chiesa in Africa, Ella ci ha fatto sperimentare ancora una volta quello scambio di doni che è uno degli aspetti più belli della comunione ecclesiale, in cui la varietà delle provenienze geografiche e culturali trova modo di esprimersi in maniera sinfonica nell’unità del Corpo mistico.

Mentre invoco per Lei, caro Fratello, l’abbondanza delle ricompense divine, e nel formulare ogni miglior augurio per il suo impegnativo ministero, di cuore Le imparto una speciale Benedizione Apostolica, che volentieri estendo ai sacerdoti e ai fedeli affidati alle sue cure pastorali.

Dal Vaticano, 3 marzo 2012

BENEDICTUS PP. XVI

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Paparatzifan
00domenica 4 marzo 2012 16:12
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VISITA ALLA PARROCCHIA ROMANA DI SAN GIOVANNI BATTISTA DE LA SALLE

SALUTO AI BAMBINI ALL’ARRIVO IN PARROCCHIA

Cari bambini!

Buona domenica, buona giornata!

Per me è una grande gioia vedere tanti bambini. Allora Roma vive e vivrà anche domani! Voi siete in cammino di Catechesi: imparate Gesù, imparate che cosa ha fatto, detto, sofferto; imparate, così, anche la Chiesa, i Sacramenti e così imparate anche a vivere, perché vivere è un’arte, e Gesù ci mostra quest’arte.

Auguro a tutti un buona domenica. E poi già oggi vi auguro anche buona Pasqua.

Grazie per la vostra cordialità!

OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle della Parrocchia di San Giovanni Battista de La Salle!

Innanzitutto vorrei dire, con tutto il mio cuore, grazie per questa accoglienza così cordiale, calorosa. Grazie al buon Parroco per le sue belle parole, grazie per questo spirito di familiarità che trovo. Siamo realmente famiglia di Dio e il fatto che vedete nel Papa anche il papà, è per me una cosa molto bella che mi incoraggia! Ma adesso dobbiamo pensare che anche il Papa non è l’ultima istanza: l’ultima istanza è il Signore e guardiamo al Signore per percepire, per capire – in quanto possibile – qualcosa del messaggio di questa seconda Domenica della Quaresima.

La liturgia di questo giorno ci prepara sia al mistero della Passione – lo abbiamo sentito nella prima Lettura – sia alla gioia della Risurrezione.

La prima Lettura ci riferisce l’episodio in cui Dio mette alla prova Abramo (cfr Gen 22,1-18). Egli aveva un unico figlio, Isacco, natogli in vecchiaia. Era il figlio della promessa, il figlio che avrebbe dovuto portare poi la salvezza anche ai popoli. Ma un giorno Abramo riceve da Dio il comando di offrirlo in sacrificio. L’anziano patriarca si trova di fronte alla prospettiva di un sacrificio che per lui, padre, è certamente il più grande che si possa immaginare. Tuttavia non esita neppure un istante e, dopo aver preparato il necessario, parte insieme ad Isacco per il luogo stabilito.

E possiamo immaginare questa camminata verso la cima del monte, che cosa sia successo nel suo cuore e nel cuore del figlio. Costruisce un altare, colloca la legna e, legato il ragazzo, afferra il coltello per immolarlo. Abramo si fida totalmente di Dio, da essere disposto anche a sacrificare il proprio figlio e, con il figlio, il futuro, perché senza figlio la promessa della terra era niente, finisce nel niente. E sacrificando il figlio sacrifica se stesso, tutto il suo futuro, tutta la promessa. È realmente un atto di fede radicalissimo. In questo momento viene fermato da un ordine dall’alto: Dio non vuole la morte, ma la vita, il vero sacrificio non dà morte, ma è la vita e l’obbedienza di Abramo è diventa fonte di una immensa benedizione fino ad oggi. Lasciamo questo, ma possiamo meditare questo mistero.

Nella seconda Lettura, san Paolo afferma che Dio stesso ha compiuto un sacrificio: ci ha dato il suo proprio Figlio, lo ha donato sulla Croce per vincere il peccato e la morte, per vincere il maligno e per superare tutta la malizia che esiste nel mondo. E questa straordinaria misericordia di Dio suscita l’ammirazione dell’Apostolo e una profonda fiducia nella forza dell’amore di Dio per noi; afferma, infatti san Paolo: «[Dio], che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?» (Rm 8,32).

Se Dio dà se stesso nel Figlio, ci dà tutto. E Paolo insiste sulla potenza del sacrificio redentore di Cristo contro ogni altro potere che può insidiare la nostra vita. Egli si chiede: «Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi ci condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!» (vv. 33-34).

Noi siamo nel cuore di Dio, questa è la nostra grande fiducia. Questo crea amore e nell’amore andiamo verso Dio. Se Dio ha donato il proprio Figlio per tutti noi, nessuno potrà accusarci, nessuno potrà condannarci, nessuno potrà separarci dal suo immenso amore. Proprio il sacrificio supremo di amore sulla Croce, che il Figlio di Dio ha accettato e scelto volontariamente, diventa fonte della nostra giustificazione, della nostra salvezza. E pensiamo che nella Sacra Eucaristia è sempre presente questo atto del Signore che nel suo cuore rimane in eterno, e questo atto del suo cuore ci attira, ci unisce con se stesso.

Finalmente, il Vangelo ci parla dell’episodio della trasfigurazione (cfr Mc 9,2-10): Gesù si manifesta nella sua gloria prima del sacrificio della Croce e Dio Padre lo proclama suo Figlio prediletto, l’amato, e invita i discepoli ad ascoltarlo. Gesù sale su un alto monte e prende con sé tre apostoli – Pietro, Giacomo e Giovanni –, che gli saranno particolarmente vicini nell’estrema agonia, su un altro monte, quello degli Ulivi.

Da poco il Signore aveva annunciato la sua passione e Pietro non era riuscito a capire perché il Signore, il Figlio di Dio, parlasse di sofferenza, di rifiuto, di morte, di croce, anzi si era opposto con decisione a questa prospettiva. Ora Gesù prende con sé i tre discepoli per aiutarli a comprendere che la strada per giungere alla gloria, la strada dell’amore luminoso che vince le tenebre, passa attraverso il dono totale di sé, passa attraverso lo scandalo della Croce. E il Signore sempre di nuovo deve prendere con sé anche noi, almeno per cominciare a capire che questo è il cammino necessario.

La trasfigurazione è un momento anticipato di luce che aiuta anche noi a guardare alla passione di Gesù con lo sguardo della fede. Essa, sì, è un mistero di sofferenza, ma è anche la «beata passione» perché è - nel nucleo - un mistero di amore straordinario di Dio; è l’esodo definitivo che ci apre la porta verso la libertà e la novità della Risurrezione, della salvezza dal male. Ne abbiamo bisogno nel nostro cammino quotidiano, spesso segnato anche dal buio del male!

Cari fratelli e sorelle! Come ho già detto, sono molto lieto di essere in mezzo a voi, oggi, per celebrare il Giorno del Signore. Saluto cordialmente il Cardinale Vicario, il Vescovo Ausiliare del Settore, il vostro Parroco, don Giampaolo Perugini, che ringrazio, ancora una volta, per le gentili parole che mi ha rivolto a nome di tutti voi e anche per i graditi doni che mi avete offerto. Saluto i Vicari Parrocchiali. E saluto le Suore Francescane Missionarie del Cuore Immacolato di Maria, qui presenti da tanti anni, particolarmente benemerite per la vita di questa parrocchia, che ha trovato pronta e generosa ospitalità nella loro casa nei primi tre anni di vita. Estendo poi il mio saluto ai Fratelli delle Scuole Cristiane, naturalmente affezionati a questa chiesa parrocchiale che porta il nome del loro Fondatore. Saluto, inoltre, quanti sono attivi nell’ambito della Parrocchia: mi riferisco ai catechisti, ai membri delle Associazioni e dei Movimenti, come pure dei diversi gruppi parrocchiali. Vorrei infine estendere il mio pensiero a tutti gli abitanti del quartiere, specialmente agli anziani, ai malati, alle persone sole e in difficoltà.

Venendo oggi in mezzo a voi, ho notato la particolare posizione di questa chiesa, posta nel punto più alto del quartiere, e dotata di un campanile slanciato, quasi un dito o una freccia verso il cielo. Mi pare sia questa una indicazione importante: come i tre apostoli del Vangelo, anche noi abbiamo bisogno di salire sul monte della trasfigurazione per ricevere la luce di Dio, perché il suo Volto illumini il nostro volto.

Ed è nella preghiera personale e comunitaria che noi incontriamo il Signore non come un’idea, o come una proposta morale, ma come una Persona che vuole entrare in rapporto con noi, che vuole essere amico e vuole rinnovare la nostra vita per renderla come la sua.

E questo incontro non è solo un fatto personale; questa vostra chiesa posta nel punto più alto del quartiere vi ricorda che il Vangelo deve essere comunicato, annunciato a tutti. Non aspettiamo che altri vengano a portare messaggi diversi, che non conducono alla vera vita, fatevi voi stessi missionari di Cristo ai fratelli là dove vivono, lavorano, studiano o soltanto trascorrono il tempo libero.

Conosco le tante e significative opere di evangelizzazione che state attuando, in particolare attraverso l’oratorio chiamato «Stella polare», - sono felice di portare anche questa camicia [la maglietta dell’oratorio] - dove, grazie al volontariato di persone competenti e generose e con il coinvolgimento delle famiglie, si favorisce l’aggregazione dei ragazzi attraverso l’attività sportiva, senza trascurare però la formazione culturale, attraverso l’arte e la musica, e soprattutto si educa al rapporto con Dio, ai valori cristiani e ad una sempre più consapevole partecipazione alla celebrazione eucaristica domenicale.

Mi rallegro che il senso di appartenenza alla comunità parrocchiale sia venuto sempre più maturando e consolidandosi nel corso degli anni. La fede va vissuta insieme e la parrocchia è un luogo in cui si impara a vivere la propria fede nel «noi» della Chiesa. E desidero incoraggiarvi affinché cresca anche la corresponsabilità pastorale, in una prospettiva di autentica comunione fra tutte le realtà presenti, che sono chiamate a camminare insieme, a vivere la complementarietà nella diversità, a testimoniare il «noi» della Chiesa, della famiglia di Dio. Conosco l’impegno che mettete nella preparazione dei ragazzi e dei giovani ai Sacramenti della vita cristiana.

Il prossimo «Anno della fede» sia un’occasione propizia anche per questa parrocchia per far crescere e consolidare l’esperienza della catechesi sulle grandi verità della fede cristiana, in modo da permettere a tutto il quartiere di conoscere e approfondire il Credo della Chiesa, e superare quell’«analfabetismo religioso» che è uno dei più grandi problemi del nostro oggi.

Cari amici! La vostra è una comunità giovane – si vede -costituita da famiglie giovani, e tanti sono, grazie a Dio, i bambini e i ragazzi che la popolano. A questo proposito, vorrei ricordare il compito della famiglia e dell’intera comunità cristiana di educare alla fede, aiutati in ciò dal tema del corrente anno pastorale, dagli orientamenti pastorali proposti dalla Conferenza Episcopale Italiana e senza dimenticare il profondo e sempre attuale insegnamento di san Giovanni Battista de La Salle. In particolare, care famiglie, voi siete l’ambiente di vita in cui si muovono i primi passi della fede; siate comunità in cui si impara a conoscere ed amare sempre di più il Signore, comunità in cui ci si arricchisce a vicenda per vivere una fede veramente adulta.

Vorrei, infine, richiamare a voi tutti l’importanza e la centralità dell’Eucaristia nella vita personale e comunitaria. La santa Messa sia al centro della vostra Domenica, che va riscoperta e vissuta come giorno di Dio e della comunità, giorno in cui lodare e celebrare Colui che è morto e risorto per la nostra salvezza, giorno in cui vivere insieme nella gioia di una comunità aperta e pronta ad accogliere ogni persona sola o in difficoltà.

Riuniti attorno all’Eucaristia, infatti, avvertiamo più facilmente come la missione di ogni comunità cristiana sia quella di recare il messaggio dell’amore di Dio a tutti gli uomini. Ecco perché è importante che l’Eucaristia sia sempre il cuore della vita dei fedeli, come lo è quest’oggi.

Cari fratelli e sorelle! Dal Tabor, il monte della Trasfigurazione, l’itinerario quaresimale ci conduce fino al Golgota, monte del supremo sacrificio di amore dell’unico Sacerdote della nuova ed eterna Alleanza. In quel sacrificio è racchiusa la più grande forza di trasformazione dell’uomo e della storia. Assumendo su di sé ogni conseguenza del male e del peccato, Gesù è risorto il terzo giorno come vincitore della morte e del Maligno. La Quaresima ci prepara a partecipare personalmente a questo grande mistero della fede, che celebreremo nel Triduo della passione, morte e risurrezione di Cristo. Alla Vergine Maria affidiamo il nostro cammino quaresimale, come quello della Chiesa intera. Ella, che ha seguito il suo Figlio Gesù fino alla Croce, ci aiuti ad essere discepoli fedeli di Cristo, cristiani maturi, per poter partecipare insieme con Lei alla pienezza della gioia pasquale. Amen!

PAROLE DI CONGEDO DEL SANTO PADRE

Cari amici,

grazie per questa bella celebrazione e per la chiesa, con la Madonna e i Santi. Siamo una famiglia con tutti i Santi.

Domenica scorsa il Signore ci ha guidato nel deserto; questa domenica, al monte: sono sempre luoghi privilegiati per essere un po’ più vicino a Dio, uscire da tutte le cose di ogni giorno e percepire che c’è Dio, che è il centro della nostra vita.

Vi auguro che possiate sentire la vicinanza di Dio e che vi guidi ogni giorno.

Buona domenica, buona Quaresima a tutti voi!

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Paparatzifan
00domenica 4 marzo 2012 16:15
Dal blog di Lella...

LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 04.03.2012

Di ritorno dalla visita pastorale alla Parrocchia romana di San Giovanni Battista de La Salle al Torrino, a mezzogiorno il Santo Padre Benedetto XVI si affaccia alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare l’Angelus con i fedeli ed i pellegrini convenuti in Piazza San Pietro per il consueto appuntamento domenicale.
Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:

PRIMA DELL'ANGELUS

Cari fratelli e sorelle!

Questa domenica, la seconda di Quaresima, si caratterizza come domenica della Trasfigurazione di Cristo.
Infatti, nell’itinerario quaresimale, la liturgia, dopo averci invitato a seguire Gesù nel deserto, per affrontare e vincere con Lui le tentazioni, ci propone di salire insieme a Lui sul “monte” della preghiera, per contemplare sul suo volto umano la luce gloriosa di Dio.
L’episodio della trasfigurazione di Cristo è attestato in maniera concorde dagli Evangelisti Matteo, Marco e Luca.
Gli elementi essenziali sono due: anzitutto, Gesù sale con i discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni su un alto monte e là “fu trasfigurato davanti a loro” (Mc 9,2), il suo volto e le sue vesti irradiarono una luce sfolgorante, mentre accanto a Lui apparvero Mosè ed Elia; in secondo luogo, una nube avvolse la cima del monte e da essa uscì una voce che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato; ascoltatelo!» (Mc 9,7). Dunque, la luce e la voce: la luce divina che risplende sul volto di Gesù, e la voce del Padre celeste che testimonia per Lui e comanda di ascoltarlo.
Il mistero della trasfigurazione non va staccato dal contesto del cammino che Gesù sta percorrendo. Egli si è ormai decisamente diretto verso il compimento della sua missione, ben sapendo che, per giungere alla risurrezione, dovrà passare attraverso la passione e la morte di croce. Di questo ha parlato apertamente ai discepoli, i quali però non hanno capito, anzi, hanno rifiutato questa prospettiva, perché non ragionano secondo Dio, ma secondo gli uomini (cfr Mt 16,23).
Per questo Gesù porta con sé tre di loro sulla montagna e rivela la sua gloria divina, splendore di Verità e d’Amore. Gesù vuole che questa luce possa illuminare i loro cuori quando attraverseranno il buio fitto della sua passione e morte, quando lo scandalo della croce sarà per loro insopportabile. Dio è luce, e Gesù vuole donare ai suoi amici più intimi l’esperienza di questa luce, che dimora in Lui. Così, dopo questo avvenimento, Egli sarà in loro luce interiore, capace di proteggerli dagli assalti delle tenebre. Anche nella notte più oscura, Gesù è la lampada che non si spegne mai. Sant’Agostino riassume questo mistero con una espressione bellissima: «Ciò che per gli occhi del corpo è il sole che vediamo, lo è [Cristo] per gli occhi del cuore» (S. Agostino, Discorsi 78, 2).
Cari fratelli e sorelle, tutti noi abbiamo bisogno di luce interiore per superare le prove della vita. Questa luce viene da Dio, ed è Cristo a donarcela, Lui, in cui abita la pienezza della divinità (cfr Col 2,9). Saliamo con Gesù sul monte della preghiera e, contemplando il suo volto pieno d’amore e di verità, lasciamoci colmare interiormente dalla sua luce. Chiediamo alla Vergine Maria, nostra guida nel cammino della fede, di aiutarci a vivere questa esperienza nel tempo della Quaresima, trovando ogni giorno qualche momento per la preghiera silenziosa e l’ascolto della Parola di Dio.

DOPO L'ANGELUS

Je suis heureux de saluer les jeunes de Dambach-la-Ville et d’Epfig et les lycéens de Saint-Vincent de Paul à Loos-les-Lille. Chers jeunes francophones, n’ayez pas honte d’être chrétiens et de vivre le Carême dans vos lieux de vie. Offrez chaque jour au Seigneur un temps de prière ; montrez-vous bons et charitables avec qui est dans le besoin ; et privez-vous, non de nourriture terrestre nécessaire à votre âge mais, de ce qui vous éloigne de Dieu et du prochain. Il existe d’innombrables manières de jeûner qui sont adaptées à tout âge. À l’exemple de la Vierge Marie, accueillez en vous la vie de Dieu, enracinez votre vie en Dieu ! Je souhaite à tous une belle montée vers Pâques !

I greet all the English-speaking pilgrims and visitors present at this Angelus prayer, especially students from the United States of America. In today’s Gospel, Jesus is transfigured, and shows his disciples that his Passion will lead to the Resurrection. By God’s grace, may our Lenten observance lead to a renewal of his radiance within us. Upon you and your loved ones, I invoke God’s abundant blessings!

Mit Freude grüße ich alle Pilger und Besucher deutscher Sprache. Die Fastenzeit bietet uns eine besondere Gelegenheit, unsere Freundschaft mit Gott zu vertiefen. Er spricht zu uns, wenn wir mit ihm sprechen. Er segnet uns, wenn wir danach trachten, seinen Willen zu tun. In der ersten Lesung dieses Sonntags hören wir von Abraham, von seinem Glauben und von seinem Vertrauen in die Verheißungen Gottes. Abraham hört auf Gott und läßt sich von seiner Weisung leiten. Nehmen wir uns diesen großen betenden und glaubenden Menschen zum Vorbild, daß auch wir in den vielfältigen Erfahrungen unseres Lebens immer die gütige Hand des himmlischen Vaters suchen und daß wir sie auch erkennen können. Der Herr begleite euch auf allen euren Wegen.

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española, en particular a los jóvenes de Ibiza, Santa Eulalia y Formentera que se preparan para recibir la Confirmación, así como a los grupos parroquiales de Sevilla y Madrid. El momento de la transfiguración del Señor, que nos relata el Evangelio de hoy, es una invitación a poner los ojos en el esplendor de la gloria divina, que Jesús nos ha traído y hacia la cual hemos de caminar, siguiendo sus palabras y su ejemplo. Que, en este tiempo de Cuaresma, todos nos sintamos animados por la gloria de la Pascua, y fortalecidos por la Palabra de Dios en el camino de conversión para llegar a ella. Feliz domingo.

[Saluto cordialmente tutti i Polacchi partecipanti alla preghiera dell’ Angelus. “Offri la testimonianza della carità e aiuta la Chiesa nei paesi missionari” – ecco il motto della Domenica “Ad Gentes” che celebrate oggi in Polonia. Sia per tutti l’ispirazione all’aiuto spirituale e materiale alle opere missionarie della Chiesa. Benedico di cuore tutti coloro che con la loro preghiera e l’elemosina sostengono queste opere, in modo particolare i missionari e le missionarie.]

Rivolgo infine un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare ai trecento ragazzi cresimati della diocesi di Ravenna-Cervia, guidati dall’Arcivescovo Mons. Giuseppe Verucchi; come pure agli alunni delle scuole “San Giuseppe” di Bassano del Grappa, “Don Carlo Costamagna” di Busto Arsizio, “Santa Dorotea” di Montecchio Emilia e “Pietro Leone” di Caltanissetta. Saluto inoltre i fedeli di Sanguinetto, presso Verona, quelli della Val Tiglione e gli altri gruppi parrocchiali. A tutti auguro una buona domenica, una buona settimana. Grazie a voi per la presenza. Buona domenica!

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Paparatzifan
00mercoledì 7 marzo 2012 22:08
Dal blog di Lella...

L’UDIENZA GENERALE, 07.03.2012

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 in Piazza San Pietro dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di fedeli e pellegrini provenienti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana il Papa, concludendo il ciclo di catechesi sulla preghiera di Gesù, ha incentrato la sua meditazione sull’importanza del silenzio nel nostro rapporto con Dio.
Al termine della catechesi, il Papa ha rivolto un saluto a Sua Beatitudine Nerses Bedros XIX Tarmouni, Patriarca di Cilicia degli Armeni Cattolici, e ai Vescovi giunti a Roma da vari Continenti per la celebrazione del Sinodo della Chiesa Armena Cattolica.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre Benedetto XVI ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

Il silenzio nella preghiera di Gesù

Cari fratelli e sorelle,

in una serie di catechesi precedenti ho parlato della preghiera di Gesù e non vorrei concludere questa riflessione senza soffermarmi brevemente sul tema del silenzio di Gesù, così importante nel rapporto con Dio.

Nell'Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini, avevo fatto riferimento al ruolo che il silenzio assume nella vita di Gesù, soprattutto sul Golgota: «Qui siamo posti di fronte alla “Parola della croce” (1 Cor 1, 18). Il Verbo ammutolisce, diviene silenzio mortale, poiché si è “detto” fino a tacere, non trattenendo nulla di ciò che ci doveva comunicare» (n. 12).


Davanti a questo silenzio della croce, san Massimo il Confessore mette sulle labbra della Madre di Dio la seguente espressione: «È senza parola la Parola del Padre, che ha fatto ogni creatura che parla; senza vita sono gli occhi spenti di colui alla cui parola e al cui cenno si muove tutto ciò che ha vita» (La vita di Maria, n. 89: Testi mariani del primo millennio, 2, Roma 1989, p. 253).

La croce di Cristo non mostra solo il silenzio di Gesù come sua ultima parola al Padre, ma rivela anche che Dio parla per mezzo del silenzio: «Il silenzio di Dio, l'esperienza della lontananza dell'Onnipotente e Padre è tappa decisiva nel cammino terreno del Figlio di Dio, Parola incarnata. Appeso al legno della croce, ha lamentato il dolore causatoGli da tale silenzio: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” (Mc 15, 34; Mt 27, 46).

Procedendo nell'obbedienza fino all'estremo alito di vita, nell'oscurità della morte, Gesù ha invocato il Padre. A Lui si è affidato nel momento del passaggio, attraverso la morte, alla vita eterna: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23, 46)» (Esort. ap. postsin. Verbum Domini, 21). L'esperienza di Gesù sulla croce è profondamente rivelatrice della situazione dell'uomo che prega e del culmine dell'orazione: dopo aver ascoltato e riconosciuto la Parola di Dio, dobbiamo misurarci anche con il silenzio di Dio, espressione importante della stessa Parola divina.

La dinamica di parola e silenzio, che segna la preghiera di Gesù in tutta la sua esistenza terrena, soprattutto sulla croce, tocca anche la nostra vita di preghiera in due direzioni.

La prima è quella che riguarda l'accoglienza della Parola di Dio. È necessario il silenzio interiore ed esteriore perché tale parola possa essere udita. E questo è un punto particolarmente difficile per noi nel nostro tempo. Infatti, la nostra è un'epoca in cui non si favorisce il raccoglimento; anzi a volte si ha l'impressione che ci sia paura a staccarsi, anche per un istante, dal fiume di parole e di immagini che segnano e riempiono le giornate. Per questo nella già menzionata Esortazione Verbum Domini ho ricordato la necessità di educarci al valore del silenzio: «Riscoprire la centralità della Parola di Dio nella vita della Chiesa vuol dire anche riscoprire il senso del raccoglimento e della quiete interiore. La grande tradizione patristica ci insegna che i misteri di Cristo sono legati al silenzio e solo in esso la Parola può trovare dimora in noi, come è accaduto in Maria, inseparabilmente donna della Parola e del silenzio» (n. 66). Questo principio -- che senza silenzio non si sente, non si ascolta, non si riceve una parola -- vale per la preghiera personale soprattutto, ma anche per le nostre liturgie: per facilitare un ascolto autentico, esse devono essere anche ricche di momenti di silenzio e di accoglienza non verbale. Vale sempre l'osservazione di sant'Agostino: Verbo crescente, verba deficiunt -- «Quando il Verbo di Dio cresce, le parole dell'uomo vengono meno» (cfr. Sermo 288, 5: pl 38, 1307; Sermo 120, 2: pl 38, 677).

I Vangeli presentano spesso, soprattutto nelle scelte decisive, Gesù che si ritira tutto solo in un luogo appartato dalle folle e dagli stessi discepoli per pregare nel silenzio e vivere il suo rapporto filiale con Dio.

Il silenzio è capace di scavare uno spazio interiore nel profondo di noi stessi, per farvi abitare Dio, perché la sua Parola rimanga in noi, perché l'amore per Lui si radichi nella nostra mente e nel nostro cuore, e animi la nostra vita. Quindi la prima direzione: reimparare il silenzio, l'apertura per l'ascolto, che ci apre all'altro, alla Parola di Dio.

C'è però anche una seconda importante relazione del silenzio con la preghiera. Non c'è, infatti, solo il nostro silenzio per disporci all'ascolto della Parola di Dio; spesso, nella nostra preghiera, ci troviamo di fronte al silenzio di Dio, proviamo quasi un senso di abbandono, ci sembra che Dio non ascolti e non risponda.

Ma questo silenzio di Dio, come è avvenuto anche per Gesù, non segna la sua assenza. Il cristiano sa bene che il Signore è presente e ascolta, anche nel buio del dolore, del rifiuto e della solitudine. Gesù rassicura i discepoli e ciascuno di noi che Dio conosce bene le nostre necessità in qualunque momento della nostra vita.

Egli insegna ai discepoli: «Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6, 7-8): un cuore attento, silenzioso, aperto è più importante di tante parole. Dio ci conosce nell'intimo, più di noi stessi, e ci ama: e sapere questo deve essere sufficiente. Nella Bibbia l'esperienza di Giobbe è particolarmente significativa al riguardo. Quest'uomo in poco tempo perde tutto: familiari, beni, amici, salute; sembra proprio che l'atteggiamento di Dio verso di lui sia quello dell'abbandono, del silenzio totale.

Eppure Giobbe, nel suo rapporto con Dio, parla con Dio, grida a Dio; nella sua preghiera, nonostante tutto, conserva intatta la sua fede e, alla fine, scopre il valore della sua esperienza e del silenzio di Dio. E così alla fine, rivolgendosi al Creatore, può concludere: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (Gb 42, 5): noi tutti quasi conosciamo Dio solo per sentito dire e quanto più siamo aperti al suo silenzio e al nostro silenzio, tanto più cominciamo a conoscerlo realmente. Questa estrema fiducia che si apre all'incontro profondo con Dio è maturata nel silenzio. San Francesco Saverio pregava dicendo al Signore: io ti amo non perché puoi darmi il paradiso o condannarmi all'inferno, ma perché sei il mio Dio. Ti amo perché Tu sei Tu.

Avviandoci alla conclusione delle riflessioni sulla preghiera di Gesù, tornano alla mente alcuni insegnamenti del Catechismo della Chiesa Cattolica: «L'evento della preghiera ci viene pienamente rivelato nel Verbo che si è fatto carne e dimora in mezzo a noi. Cercare di comprendere la sua preghiera, attraverso ciò che i suoi testimoni ci dicono di essa nel Vangelo, è avvicinarci al santo Signore Gesù come al roveto ardente: dapprima contemplarlo mentre prega, poi ascoltare come ci insegna a pregare, infine conoscere come egli esaudisce la nostra preghiera» (n. 2598). E come Gesù ci insegna a pregare? Nel Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica troviamo una chiara risposta: «Gesù ci insegna a pregare, non solo con la preghiera del Padre nostro» -- certamente l'atto centrale dell'insegnamento di come pregare -- «ma anche quando [Egli stesso] prega. In questo modo, oltre al contenuto, ci mostra le disposizioni richieste per una vera preghiera: la purezza del cuore, che cerca il Regno e perdona i nemici; la fiducia audace e filiale, che va al di là di ciò che sentiamo e comprendiamo; la vigilanza, che protegge il discepolo dalla tentazione» (n. 544).

Percorrendo i Vangeli abbiamo visto come il Signore sia, per la nostra preghiera, interlocutore, amico, testimone e maestro. In Gesù si rivela la novità del nostro dialogo con Dio: la preghiera filiale, che il Padre aspetta dai suoi figli. E da Gesù impariamo come la preghiera costante ci aiuti ad interpretare la nostra vita, ad operare le nostre scelte, a riconoscere e ad accogliere la nostra vocazione, a scoprire i talenti che Dio ci ha dato, a compiere quotidianamente la sua volontà, unica via per realizzare la nostra esistenza.

A noi, spesso preoccupati dell'efficacia operativa e dei risultati concreti che conseguiamo, la preghiera di Gesù indica che abbiamo bisogno di fermarci, di vivere momenti di intimità con Dio, «staccandoci» dal frastuono di ogni giorno, per ascoltare, per andare alla «radice» che sostiene e alimenta la vita. Uno dei momenti più belli della preghiera di Gesù è proprio quando Egli, per affrontare malattie, disagi e limiti dei suoi interlocutori, si rivolge al Padre suo in orazione e insegna così a chi gli sta intorno dove bisogna cercare la fonte per avere speranza e salvezza. Ho già ricordato, come esempio commovente, la preghiera di Gesù alla tomba di Lazzaro. L'Evangelista Giovanni racconta: «Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l'ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato”. Detto questo, gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!”» (Gv 11, 41-43). Ma il punto più alto di profondità nella preghiera al Padre, Gesù lo raggiunge al momento della Passione e della Morte, in cui pronuncia l'estremo «sì» al progetto di Dio e mostra come la volontà umana trova il suo compimento proprio nell'adesione piena alla volontà divina e non nella contrapposizione. Nella preghiera di Gesù, nel suo grido al Padre sulla croce, confluiscono «tutte le angosce dell'umanità di ogni tempo, schiava del peccato e della morte, tutte le implorazioni e le intercessioni della storia della salvezza... Ed ecco che il Padre le accoglie e, al di là di ogni speranza, le esaudisce risuscitando il Figlio suo. Così si compie e si consuma l'evento della preghiera nell'Economia della creazione e della salvezza» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2606).

Cari fratelli e sorelle, chiediamo con fiducia al Signore di vivere il cammino della nostra preghiera filiale, imparando quotidianamente dal Figlio Unigenito fattosi uomo per noi come deve essere il nostro modo di rivolgerci a Dio. Le parole di san Paolo sulla vita cristiana in generale, valgono anche per la nostra preghiera: «Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8, 38-39).
Grazie.

Cari Fratelli e Sorelle,

desidero ora salutare, con fraterno affetto, Sua Beatitudine Nerses Bedros XIX Tarmouni, Patriarca di Cilicia degli Armeni Cattolici, e i Vescovi giunti a Roma da vari Continenti per la celebrazione del Sinodo. Esprimo ad essi sincera gratitudine per la fedeltà al patrimonio della loro veneranda tradizione cristiana e al Successore dell'Apostolo Pietro, fedeltà che li ha sempre sostenuti nelle innumerevoli prove della storia. Accompagno con la fervida preghiera e con la Benedizione Apostolica i lavori sinodali, auspicando che possano favorire ancora di più la comunione e l'intesa fra i Pastori, così che essi sappiano guidare con rinnovato impulso evangelico i cattolici armeni sui sentieri di una generosa e gioiosa testimonianza a Cristo e alla Chiesa. Mentre affido il Sinodo Armeno alla materna intercessione della Santissima Madre di Dio, estendo il mio orante pensiero alle Regioni del Medio Oriente, incoraggiando Pastori e fedeli tutti a perseverare con speranza nelle gravi sofferenze che affliggono quelle care popolazioni.

Il Signore vi benedica.

Grazie.

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Paparatzifan
00venerdì 9 marzo 2012 19:10
Dal blog di Lella...

UDIENZA AI PARTECIPANTI AL CORSO SUL FORO INTERNO PROMOSSO DALLA PENITENZIERIA APOSTOLICA, 09.03.2012

Dal 5 al 9 marzo 2012 si è svolto, presso il Palazzo della Cancelleria in Roma, il XXIII Corso sul Foro Interno promosso dalla Penitenzieria Apostolica.
In occasione della conclusione del Congresso, alle ore 12 di oggi, nell’Aula Paolo VI, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza i partecipanti al Corso annuale sul Foro interno e - dopo l’indirizzo di omaggio del Penitenziere Maggiore, il Card. Manuel Monteiro de Castro - il Papa rivolge ai presenti il discorso che riportiamo di seguito:

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Cari Amici,

sono molto lieto di incontrarvi in occasione dell’annuale Corso sul Foro Interno, organizzato dalla Penitenzieria Apostolica. Rivolgo un cordiale saluto al Cardinale Manuel Monteiro de Castro, Penitenziere Maggiore, che, per la prima volta in questa veste, ha presieduto le vostre sessioni di studio, e lo ringrazio per le cordiali espressioni che ha voluto rivolgermi. Saluto altresì Mons. Gianfranco Girotti, Reggente, il personale della Penitenzieria e ciascuno di voi che, con la vostra presenza, richiamate a tutti l’importanza che ha per la vita di fede il Sacramento della Riconciliazione, evidenziando sia la necessità permanente di un’adeguata preparazione teologica, spirituale e canonica per poter essere confessori, sia, soprattutto, il legame costitutivo tra celebrazione sacramentale e annuncio del Vangelo.

I Sacramenti e l’annuncio della Parola, infatti, non devono mai essere concepiti come separati, ma, al contrario, «Gesù afferma che l’annuncio del Regno di Dio è lo scopo della sua missione; questo annuncio, però, non è solo un "discorso", ma include, nel medesimo tempo, il suo stesso agire; i segni, i miracoli che Gesù compie indicano che il Regno viene come realtà presente e che coincide alla fine con la sua stessa persona, con il dono di sé. […] Il sacerdote rappresenta Cristo, l’Inviato del Padre, ne continua la missione, mediante la "parola" e il "sacramento", in questa totalità di corpo e anima, di segno e parola» (Udienza generale, 5 maggio 2010).

Proprio questa totalità, che affonda le radici nel mistero stesso dell’Incarnazione, ci suggerisce che la celebrazione del Sacramento della Riconciliazione è essa stessa annuncio e perciò via da percorrere per l’opera della nuova evangelizzazione.

In che senso allora la Confessione sacramentale è "via" per la nuova evangelizzazione? Anzitutto perché la nuova evangelizzazione trae linfa vitale dalla santità dei figli della Chiesa, dal cammino quotidiano di conversione personale e comunitaria per conformarsi sempre più profondamente a Cristo. E c’è uno stretto legame tra santità e Sacramento della Riconciliazione, testimoniato da tutti i Santi della storia. La reale conversione dei cuori, che è aprirsi all’azione trasformante e rinnovatrice di Dio, è il "motore" di ogni riforma e si traduce in una vera forza evangelizzante.

Nella Confessione il peccatore pentito, per l’azione gratuita della Misericordia divina, viene giustificato, perdonato e santificato, abbandona l’uomo vecchio per rivestirsi dell’uomo nuovo. Solo chi si è lasciato profondamente rinnovare dalla Grazia divina, può portare in se stesso, e quindi annunciare, la novità del Vangelo.

Il beato Giovanni Paolo II, nella Lettera apostolica Novo Millennio ineunte, affermava: «Un rinnovato coraggio pastorale vengo poi a chiedere perché la quotidiana pedagogia delle comunità cristiane sappia proporre in modo suadente ed efficace la pratica del sacramento della Riconciliazione» (n. 37). Desidero ribadire tale appello, nella consapevolezza che la nuova evangelizzazione deve far conoscere all’uomo del nostro tempo il volto di Cristo «come mysterium pietatis, colui nel quale Dio ci mostra il suo cuore compassionevole e ci riconcilia pienamente a sé. È questo volto di Cristo che occorre far riscoprire anche attraverso il sacramento della Penitenza» (ibidem).

In un’epoca di emergenza educativa, in cui il relativismo mette in discussione la possibilità stessa di un’educazione intesa come progressiva introduzione alla conoscenza della verità, al senso profondo della realtà, quindi come progressiva introduzione al rapporto con la Verità che è Dio, i cristiani sono chiamati ad annunciare con vigore la possibilità dell’incontro tra l’uomo d’oggi e Gesù Cristo, in cui Dio si è fatto così vicino da poterlo vedere e ascoltare. In questa prospettiva il Sacramento della Riconciliazione, che prende le mosse da uno sguardo alla propria concreta condizione esistenziale, aiuta in modo singolare quella "apertura del cuore" che permette di volgere lo sguardo a Dio perché entri nella vita.

La certezza che Lui è vicino e nella sua misericordia attende l’uomo, anche quello coinvolto nel peccato, per guarire le sue infermità con la grazia del Sacramento della Riconciliazione, è sempre una luce di speranza per il mondo.

Cari sacerdoti e cari diaconi che vi preparate al Presbiterato, nell’amministrazione di questo Sacramento, vi è data o vi verrà data la possibilità di essere strumenti di un sempre rinnovato incontro degli uomini con Dio. Quanti si rivolgeranno a voi, proprio per la loro condizione di peccatori, sperimenteranno in se stessi un desiderio profondo: desiderio di cambiamento, domanda di misericordia e, in definitiva, desiderio che riaccada, attraverso il Sacramento, l’incontro e l’abbraccio con Cristo. Sarete perciò collaboratori e protagonisti di tanti possibili "nuovi inizi", quanti saranno i penitenti che vi si accosteranno, avendo presente che l’autentico significato di ogni "novità" non consiste tanto nell’abbandono o nella rimozione del passato, quanto nell’accogliere Cristo e nell’aprirsi alla sua Presenza, sempre nuova e sempre capace di trasformare, di illuminare tutte le zone d’ombra e di schiudere continuamente un nuovo orizzonte. La nuova evangelizzazione, allora, parte anche dal Confessionale! Parte cioè dal misterioso incontro tra l’inesauribile domanda dell’uomo, segno in lui del Mistero Creatore, e la Misericordia di Dio, unica risposta adeguata al bisogno umano di infinito. Se la celebrazione del Sacramento della Riconciliazione sarà questo, se in essa i fedeli faranno reale esperienza di quella Misericordia che Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, ci ha donato, allora diverranno essi stessi testimoni credibili di quella santità, che è il fine della nuova evangelizzazione.

Tutto questo, cari amici, se è vero per i fedeli laici, acquista ancora maggiore rilevanza per ciascuno di noi. Il ministro del Sacramento della Riconciliazione collabora alla nuova evangelizzazione rinnovando egli stesso, per primo, la coscienza del proprio essere penitente e del bisogno di accostarsi al perdono sacramentale, perché si rinnovi quell’incontro con Cristo, che, iniziato nel Battesimo, ha trovato nel Sacramento dell’Ordine una specifica e definitiva configurazione.

Questo il mio augurio per ciascuno di voi: la novità di Cristo sia sempre il centro e la ragione della vostra esistenza sacerdotale, perché chi vi incontra possa, attraverso il vostro ministero, proclamare come Andrea e Giovanni: «Abbiamo incontrato il Messia» (Gv 1,41). In tal modo, ogni Confessione, dalla quale ciascun cristiano uscirà rinnovato, rappresenterà un passo in avanti della nuova evangelizzazione. Maria, Madre di Misericordia, Rifugio per noi peccatori e Stella della nuova evangelizzazione accompagni il nostro cammino. Vi ringrazio di cuore e volentieri vi imparto la mia Benedizione Apostolica.

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Paparatzifan
00venerdì 9 marzo 2012 19:18
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VISITA "AD LIMINA APOSTOLORUM" DEGLI ECC.MI PRESULI DELLA CONFERENZA DEI VESCOVI CATTOLICI DEGLI STATI UNITI D’AMERICA (REGIONI VII-IX), 09.03.2012

Alle ore 11.30 di questa mattina, il Santo Padre Benedetto XVI incontra gli Ecc.mi Presuli della Conferenza dei Vescovi Cattolici degli Stati Uniti d’America, che sta ricevendo in questi mesi, in separate udienze, in occasione della Visita "ad limina Apostolorum" (Regioni VII, VIII e IX).
Dopo l’indirizzo di omaggio di S.E. Mons. John Clayton Nienstedt, Arcivescovo di Saint Paul and Minneapolis, a nome dei Vescovi dell’VIII Regione, il Papa rivolge ai presenti il discorso che pubblichiamo di seguito:

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Cari Fratelli Vescovi,

Saluto tutti voi con affetto fraterno in occasione della vostra visita ad limina Apostolorum. Come sapete, quest'anno desidero riflettere con voi su alcuni aspetti dell'evangelizzazione della cultura americana alla luce delle sfide intellettuali ed etiche del momento presente.

Negli incontri precedenti ho riconosciuto la nostra preoccupazione per le minacce alla libertà di coscienza, di religione e di culto che devono essere affrontate con urgenza, affinché tutti gli uomini e le donne di fede, e le istituzioni che essi ispirano, possano agire in conformità alle loro convinzioni morali più profonde. In questa occasione vorrei parlare di un'altra questione grave che mi avete esposto durante la mia visita pastorale in America, vale a dire la crisi attuale del matrimonio e della famiglia, e più in generale della visione cristiana della sessualità umana. Di fatto, è sempre più evidente che un minor apprezzamento dell'indissolubilità del contratto matrimoniale e il diffuso rifiuto di un'etica sessuale responsabile e matura, fondata nella pratica della castità, hanno portato a gravi problemi sociali che comportano un costo umano ed economico immenso.

Tuttavia, come ha osservato il beato Giovanni Paolo II, il futuro dell'umanità passa per la famiglia (cfr. Familiaris consortio n. 85). Di fatto, «troppo grande è il bene che la Chiesa e l'intera società s'attendono dal matrimonio e dalla famiglia su di esso fondata per non impegnarsi a fondo in questo specifico ambito pastorale. Matrimonio e famiglia sono istituzioni che devono essere promosse e difese da ogni possibile equivoco sulla loro verità, perché ogni danno arrecato ad esse è di fatto una ferita che si arreca alla convivenza umana come tale» (Sacramentum caritatis n. 29).

A questo riguardo occorre menzionare in modo particolare le potenti correnti politiche e culturali che cercano di alterare la definizione legale del matrimonio. Lo sforzo coscienzioso della Chiesa di resistere a queste pressioni esige una difesa ragionata del matrimonio come istituzione naturale costituita da una comunione specifica di persone, fondamentalmente radicata nella complementarietà dei sessi e orientata alla procreazione. Le differenze sessuali non possono essere respinte come irrilevanti per la definizione del matrimonio.

Difendere l'istituzione del matrimonio come realtà sociale è, in ultima analisi, una questione di giustizia, poiché comporta la tutela del bene dell'intera comunità umana, nonché dei diritti dei genitori e dei figli.

Nelle nostre conversazioni, alcuni di voi hanno parlato con preoccupazione delle crescenti difficoltà riscontrate nel trasmettere l'insegnamento della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia nella sua integrità, e della diminuzione del numero di giovani che si avvicinano al sacramento del matrimonio.

Certamente dobbiamo riconoscere alcune carenze nella catechesi degli ultimi decenni, che talvolta non è riuscita a comunicare la ricca eredità dell'insegnamento cattolico sul matrimonio come istituzione naturale elevata da Cristo alla dignità di sacramento, la vocazione degli sposi cristiani nella società e nella Chiesa e la pratica della castità coniugale.

A questo insegnamento, ribadito con crescente chiarezza dal magistero post-conciliare e presentato in modo completo sia nel Catechismo della Chiesa Cattolica sia nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, deve essere restituito il suo posto nella predicazione e nell'insegnamento catechetico.

A livello pratico, i programmi di preparazione al matrimonio devono essere attentamente rivisti per assicurare che vi sia una maggiore concentrazione sulla loro componente catechetica e sulla presentazione delle responsabilità sociali ed ecclesiali che il matrimonio cristiano comporta. In questo contesto non possiamo ignorare il grave problema pastorale rappresentato dalla diffusa pratica della convivenza, spesso da parte di coppie che sembrano essere inconsapevoli che è un grave peccato, per non dire che rappresenta un danno alla stabilità della società. Incoraggio i vostri sforzi volti a sviluppare norme pastorali e liturgiche chiare per la degna celebrazione del matrimonio, che rappresentino una testimonianza inequivocabile delle esigenze oggettive della moralità cristiana, mostrando allo stesso tempo sensibilità e sollecitudine per le giovani coppie.

Anche qui desidero esprimere il mio apprezzamento per i programmi pastorali che state promovendo nelle vostre diocesi e, in particolare, per la chiara e autorevole presentazione della dottrina della Chiesa nella vostra Lettera del 2009 Marriage: Love and Life in the Divine Plan. Apprezzo anche ciò che le vostre parrocchie, le vostre scuole e i vostri enti caritativi fanno ogni giorno per sostenere le famiglie e per aiutare quanti si trovano in situazioni matrimoniali difficili, specialmente le persone divorziate e separate, i genitori singoli, le madri adolescenti e le donne che pensano all'aborto, come pure i bambini che subiscono gli effetti tragici della disgregazione familiare.

In questo grande impegno pastorale è urgentemente necessario che l'intera comunità cristiana torni ad apprezzare la virtù della castità. La funzione integrativa e liberatrice di questa virtù (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2338-2343) deve essere sottolineata da una formazione del cuore che presenti la comprensione cristiana della sessualità come fonte di libertà autentica, di felicità e di realizzazione della nostra vocazione fondamentale e innata all'amore. Non si tratta solo di presentare argomenti, ma anche di fare appello a una visione integra, coerente ed edificante della sessualità umana. La ricchezza di questa visione è più solida e attraente delle ideologie permissive esaltate in alcuni ambiti; queste, di fatto, costituiscono una forma potente e distruttiva di contro-catechesi per i giovani.

I giovani devono conoscere l'insegnamento della Chiesa nella sua integrità, per quanto possa essere impegnativo e contro-culturale; cosa ancora più importante, devono vederlo incarnato da coppie sposate fedeli che danno una testimonianza convincente della sua verità. Devono anche essere sostenuti mentre lottano per compiere scelte sagge in un tempo difficile e confuso della loro vita. La castità, come ci ricorda il Catechismo, comporta «l'acquisizione del dominio di sé, che è pedagogia per la libertà umana» (n. 2339). In una società che tende sempre più a fraintendere e perfino a irridere questa dimensione essenziale dell'insegnamento cristiano, occorre rassicurare i giovani che «chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla -- assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande» (Omelia, Santa Messa per l'inaugurazione del ministero petrino, 24 aprile 2005).

Vorrei concludere ricordando che tutti i nostri sforzi in questo ambito in fondo sono tesi al bene dei bambini, che hanno il diritto fondamentale di crescere con una sana comprensione della sessualità e del posto che le corrisponde nei rapporti umani. I bambini sono il tesoro più grande e il futuro di ogni società: preoccuparsi veramente di loro significa riconoscere la nostra responsabilità d'insegnare, difendere e vivere le virtù morali che sono la chiave della realizzazione umana. È mia speranza che la Chiesa negli Stati Uniti, per quanto frenata dagli eventi dell'ultimo decennio, perseveri nella sua missione storica di educare i giovani e, in tal modo, di contribuire al consolidamento di quella sana vita familiare che è la garanzia più sicura della solidarietà intergenerazionale e della salute della società nel suo insieme.

Raccomando ora voi e i vostri fratelli Vescovi, insieme al gregge affidato alle vostre cure pastorali, all'amorevole intercessione della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe. A tutti voi imparto volentieri la mia Benedizione Apostolica come pegno di saggezza, forza e pace nel Signore.

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(Traduzione Osservatore Romano)


Paparatzifan
00domenica 11 marzo 2012 18:55
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LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 11.03.2012

Alle ore 12 di oggi, III domenica di Quaresima, il Santo Padre Benedetto XVI si affaccia alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare l’Angelus con i fedeli ed i pellegrini convenuti in Piazza San Pietro.
Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:

PRIMA DELL’ANGELUS

Cari fratelli e sorelle!

Il Vangelo di questa terza domenica di Quaresima riferisce – nella redazione di san Giovanni – il celebre episodio di Gesù che scaccia dal tempio di Gerusalemme i venditori di animali e i cambiamonete (cfr Gv 2,13-25).

Il fatto, riportato da tutti gli Evangelisti, avvenne in prossimità della festa di Pasqua e destò grande impressione sia nella folla, sia nei discepoli. Come dobbiamo interpretare questo gesto di Gesù? Anzitutto va notato che esso non provocò alcuna repressione dei tutori dell’ordine pubblico, perché fu visto come una tipica azione profetica: i profeti infatti, a nome di Dio, denunciavano spesso abusi, e lo facevano a volte con gesti simbolici. Il problema, semmai, era la loro autorità. Ecco perché i Giudei chiesero a Gesù: “Quale segno ci mostri per fare queste cose?” (Gv 2,18), dimostraci che agisci veramente a nome di Dio.

La cacciata dei venditori dal tempio è stata anche interpretata in senso politico-rivoluzionario, collocando Gesù nella linea del movimento degli zeloti. Questi erano, appunto, “zelanti” per la legge di Dio e pronti ad usare la violenza per farla rispettare. Ai tempi di Gesù attendevano un Messia che liberasse Israele dal dominio dei Romani. Ma Gesù deluse questa attesa, tanto che alcuni discepoli lo abbandonarono e Giuda Iscariota addirittura lo tradì.

In realtà, è impossibile interpretare Gesù come un violento: la violenza è contraria al Regno di Dio, è uno strumento dell’anticristo. La violenza non serve mai all’umanità, ma la disumanizza.

Ascoltiamo allora le parole che Gesù disse compiendo quel gesto: “Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”.
E i discepoli allora si ricordarono che sta scritto in un Salmo: “Mi divora lo zelo per la tua casa” (69,10). Questo salmo è un’invocazione di aiuto in una situazione di estremo pericolo a causa dell’odio dei nemici: la situazione che Gesù vivrà nella sua passione. Lo zelo per il Padre e per la sua casa lo porterà fino alla croce: il suo è lo zelo dell’amore che paga di persona, non quello che vorrebbe servire Dio mediante la violenza. Infatti il “segno” che Gesù darà come prova della sua autorità sarà proprio la sua morte e risurrezione. “Distruggete questo tempio – disse – e in tre giorni lo farò risorgere”. E san Giovanni annota: “Egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2,20-21). Con la Pasqua di Gesù inizia un nuovo culto, il culto dell’amore, e un nuovo tempio che è Lui stesso, Cristo risorto, mediante il quale ogni credente può adorare Dio Padre “in spirito e verità” (Gv 4,23).
Cari amici, lo Spirito Santo ha iniziato a costruire questo nuovo tempio nel grembo della Vergine Maria. Per sua intercessione, preghiamo perché ogni cristiano diventi pietra viva di questo edificio spirituale.

DOPO DELL’ANGELUS

Cari fratelli e sorelle,

il mio pensiero va anzitutto alle care popolazioni del Madagascar, che recentemente sono state colpite da violente calamità naturali, con gravi danni alle persone, alle strutture e alle coltivazioni. Mentre assicuro la mia preghiera per le vittime e per le famiglie maggiormente provate, auspico e incoraggio il generoso soccorso della comunità internazionale.

Soyez les bienvenus, chers frères et sœurs de langue française. En ce troisième dimanche de Carême le Seigneur nous invite à nous convertir. Ce temps du Carême est un temps de grâce qui nous est accordé afin que nous puissions purifier nos cœurs et nos esprits et nous libérer de nos peurs et de nos doutes. En toute confiance, laissons-nous transformer par le Christ et n’ayons pas peur de changer nos habitudes et nos comportements. Que la Vierge Marie nous aide à prendre du temps pour la prière, car dans la fécondité du silence et de la prière Dieu nous donnera d’expérimenter le vrai bonheur ! Que Dieu vous bénisse !

I greet the English-speaking visitors present for this Angelus prayer, including the Neo-catechumenal Community from Bristol. In today’s Gospel Jesus foretells his resurrection and points to the temple which is his body, the Church. May our meditation on these mysteries deepen our union with the Lord and his Church. Upon all of you I invoke God’s blessings!

Mit Freude grüße ich alle Pilger und Besucher deutscher Sprache, besonders die Teilnehmer an der Siebenkirchenwallfahrt des Collegium Germanicum et Hungaricum und die Pilgergruppe aus Mannheim. Das heutige Evangelium berichtet uns von Jesu Tempelreinigung und dem Hinweis auf den neuen Tempel, der er selbst ist. Nach einem Wort des Apostels Paulus sind aber auch wir ein wahrer Tempel, wenn wir Christus in uns Gestalt werden lassen. Im Sakrament der Buße gibt uns der Herr Gelegenheit, diese Gestalt immer wieder zu erneuern. In jeder Beichte macht er uns neu zum Tempel, in dem er Wohnung nimmt. Der Herr schenke euch Freude und Zuversicht auf allen Euren Wegen.

Saludo con afecto a los peregrinos de lengua española, en particular a los grupos de fieles provenientes de Murcia, Alicante y Sevilla. En este tercer domingo de Cuaresma, el Evangelio nos presenta a Jesús que sube a Jerusalén y, movido por el celo hacia las cosas de su Padre, expulsa a los mercaderes del Templo. Así mismo declara que él es el nuevo templo, morada definitiva de Dios entre los hombres. En Cristo, somos llamados a ofrecer un culto auténtico, vital, en Espíritu y Verdad, y a presentar nuestros cuerpos como templos del Dios vivo, sabiendo renunciar a las obras del mal. Encomendemos a la Santísima Virgen María estos propósitos. Muchas gracias.

Dirijo agora uma calorosa saudação aos peregrinos de língua portuguesa, em particular aos brasileiros aqui presentes que realizam a sua peregrinação quaresmal. Que a prática do jejum, da esmola e da oração vos ajude a experimentar a presença misericordiosa do Senhor que é a fonte da verdadeira saúde para todo homem e para o homem todo.

Serdeczne pozdrowienie kieruję do Polaków. Ewangelia dzisiejszej niedzieli objawia troskę Jezusa o świątynię jako miejsce spotkania z Bogiem. Mówi też jednak o świątyni Jego ciała, zburzonej przez śmierć i wzniesionej na nowo przez zmartwychwstanie. Żyjący Chrystus jest naszą świątynią. W Nim adorujmy Boga „w duchu i prawdzie". Niech Jego błogosławieństwo stale wam towarzyszy.

[Rivolgo un cordiale saluto ai polacchi. Il Vangelo dell’odierna domenica rivela la premura di Gesù per il tempio come luogo di incontro con Dio. Tuttavia parla anche del tempio del suo corpo, distrutto con la morte e ricostruito con la risurrezione. Il Cristo vivente è il nostro tempio. In Lui adoriamo Dio "in spirito e verità". La sua benedizione vi accompagni sempre!]

Rivolgo infine un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare ai ragazzi del Decanato di Rho, presso Milano, venuti per la professione di fede, e ai cresimandi di Marzocca e Montignano. Saluto i fedeli di Ischia e di Crotone.

A tutti auguro una buona domenica e una buona settimana. Grazie e buona domenica.

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Paparatzifan
00mercoledì 14 marzo 2012 22:21
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L’UDIENZA GENERALE, 14.03.2012

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 in Piazza San Pietro dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di fedeli e pellegrini provenienti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana il Papa ha iniziato un nuovo capitolo della sua catechesi: la preghiera negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di San Paolo, ed ha incentrato oggi la sua meditazione in particolare sulla presenza orante di Maria nel gruppo dei discepoli che saranno la prima Chiesa nascente.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre Benedetto XVI ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

La presenza orante di Maria nel gruppo dei discepoli che saranno la prima Chiesa nascente

Cari fratelli e sorelle,

con la Catechesi di oggi vorrei iniziare a parlare della preghiera negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di san Paolo.
San Luca ci ha consegnato, come sappiamo, uno dei quattro Vangeli, dedicato alla vita terrena di Gesù, ma ci ha lasciato anche quello che è stato definito il primo libro sulla storia della Chiesa, cioè gli Atti degli Apostoli.

In entrambi questi libri, uno degli elementi ricorrenti è proprio la preghiera, da quella di Gesù a quella di Maria, dei discepoli, delle donne e della comunità cristiana.

Il cammino iniziale della Chiesa è ritmato anzitutto dall’azione dello Spirito Santo, che trasforma gli Apostoli in testimoni del Risorto sino all’effusione del sangue, e dalla rapida diffusione della Parola di Dio verso Oriente e Occidente. Tuttavia, prima che l’annuncio del Vangelo si diffonda, Luca riporta l’episodio dell’Ascensione del Risorto (cfr At 1,6-9). Ai discepoli il Signore consegna il programma della loro esistenza votata all’evangelizzazione e dice: «Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea, e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8). A Gerusalemme gli Apostoli, rimasti in Undici per il tradimento di Giuda Iscariota, sono riuniti in casa per pregare, ed è proprio nella preghiera che aspettano il dono promesso da Cristo Risorto, lo Spirito Santo.

In questo contesto di attesa, tra l’Ascensione e la Pentecoste, san Luca menziona per l’ultima volta Maria, la Madre di Gesù, e i suoi familiari (v. 14).

A Maria ha dedicato gli inizi del suo Vangelo, dall’annuncio dell’Angelo alla nascita e all’infanzia del Figlio di Dio fattosi uomo. Con Maria inizia la vita terrena di Gesù e con Maria iniziano anche i primi passi della Chiesa; in entrambi i momenti il clima è quello dell’ascolto di Dio, del raccoglimento.

Oggi, pertanto, vorrei soffermarmi su questa presenza orante della Vergine nel gruppo dei discepoli che saranno la prima Chiesa nascente. Maria ha seguito con discrezione tutto il cammino di suo Figlio durante la vita pubblica fino ai piedi della croce, e ora continua a seguire, con una preghiera silenziosa, il cammino della Chiesa.

Nell’Annunciazione, nella casa di Nazaret, Maria riceve l’Angelo di Dio, è attenta alle sue parole, le accoglie e risponde al progetto divino, manifestando la sua piena disponibilità: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua volontà» (cfr Lc 1,38). Maria, proprio per l’atteggiamento interiore di ascolto, è capace di leggere la propria storia, riconoscendo con umiltà che è il Signore ad agire. In visita alla parente Elisabetta, Ella prorompe in una preghiera di lode e di gioia, di celebrazione della grazia divina, che ha colmato il suo cuore e la sua vita, rendendola Madre del Signore (cfr Lc 1,46-55). Lode, ringraziamento, gioia: nel cantico del Magnificat, Maria non guarda solo a ciò che Dio ha operato in Lei, ma anche a ciò che ha compiuto e compie continuamente nella storia. Sant’Ambrogio, in un celebre commento al Magnificat, invita ad avere lo stesso spirito nella preghiera e scrive: «Sia in ciascuno l’anima di Maria per magnificare il Signore; sia in ciascuno lo spirito di Maria per esultare in Dio» (Expositio Evangelii secundum Lucam 2, 26: PL 15, 1561).

Anche nel Cenacolo, a Gerusalemme, nella «stanza al piano superiore, dove erano soliti riunirsi» i discepoli di Gesù (cfr At 1,13), in un clima di ascolto e di preghiera, Ella è presente, prima che si spalanchino le porte ed essi inizino ad annunciare Cristo Signore a tutti i popoli, insegnando ad osservare tutto ciò che Egli aveva comandato (cfr Mt 28,19-20).

Le tappe del cammino di Maria, dalla casa di Nazaret a quella di Gerusalemme, attraverso la Croce dove il Figlio le affida l’apostolo Giovanni, sono segnate dalla capacità di mantenere un perseverante clima di raccoglimento, per meditare ogni avvenimento nel silenzio del suo cuore, davanti a Dio (cfr Lc 2,19-51) e nella meditazione davanti a Dio anche comprenderne la volontà di Dio e divenire capaci di accettarla interiormente.

La presenza della Madre di Dio con gli Undici, dopo l’Ascensione, non è allora una semplice annotazione storica di una cosa del passato, ma assume un significato di grande valore, perché con loro Ella condivide ciò che vi è di più prezioso: la memoria viva di Gesù, nella preghiera; condivide questa missione di Gesù: conservare la memoria di Gesù e così conservare la sua presenza.

L’ultimo accenno a Maria nei due scritti di san Luca è collocato nel giorno di sabato: il giorno del riposo di Dio dopo la Creazione, il giorno del silenzio dopo la Morte di Gesù e dell’attesa della sua Risurrezione.

Ed è su questo episodio che si radica la tradizione di Santa Maria in Sabato.

Tra l’Ascensione del Risorto e la prima Pentecoste cristiana, gli Apostoli e la Chiesa si radunano con Maria per attendere con Lei il dono dello Spirito Santo, senza il quale non si può diventare testimoni. Lei che l’ha già ricevuto per generare il Verbo incarnato, condivide con tutta la Chiesa l’attesa dello stesso dono, perché nel cuore di ogni credente «sia formato Cristo» (cfr Gal 4,19). Se non c’è Chiesa senza Pentecoste, non c’è neanche Pentecoste senza la Madre di Gesù, perché Lei ha vissuto in modo unico ciò che la Chiesa sperimenta ogni giorno sotto l’azione dello Spirito Santo. San Cromazio di Aquileia commenta così l’annotazione degli Atti degli Apostoli: «Si radunò dunque la Chiesa nella stanza al piano superiore insieme a Maria, la Madre di Gesù, e insieme ai suoi fratelli.

Non si può dunque parlare di Chiesa se non è presente Maria, Madre del Signore… La Chiesa di Cristo è là dove viene predicata l’Incarnazione di Cristo dalla Vergine, e, dove predicano gli apostoli, che sono fratelli del Signore, là si ascolta il Vangelo» (Sermo 30,1: SC 164, 135).

Il Concilio Vaticano II ha voluto sottolineare in modo particolare questo legame che si manifesta visibilmente nel pregare insieme di Maria e degli Apostoli, nello stesso luogo, in attesa dello Spirito Santo.

La Costituzione dogmatica Lumen gentium afferma: «Essendo piaciuto a Dio di non manifestare apertamente il mistero della salvezza umana prima di effondere lo Spirito promesso da Cristo, vediamo gli apostoli prima del giorno della Pentecoste "perseveranti d’un sol cuore nella preghiera con le donne e Maria madre di Gesù e i suoi fratelli" (At 1,14); e vediamo anche Maria implorare con le sue preghiere il dono dello Spirito che all'Annunciazione l’aveva presa sotto la sua ombra» (n. 59). Il posto privilegiato di Maria è la Chiesa, dove è «riconosciuta quale sovreminente e del tutto singolare membro…, figura ed eccellentissimo modello per essa nella fede e nella carità» (ibid., n. 53).

Venerare la Madre di Gesù nella Chiesa significa allora imparare da Lei ad essere comunità che prega: è questa una delle note essenziali della prima descrizione della comunità cristiana delineata negli Atti degli Apostoli (cfr 2,42).

Spesso la preghiera è dettata da situazioni di difficoltà, da problemi personali che portano a rivolgersi al Signore per avere luce, conforto e aiuto. Maria invita ad aprire le dimensioni della preghiera, a rivolgersi a Dio non solamente nel bisogno e non solo per se stessi, ma in modo unanime, perseverante, fedele, con un «cuore solo e un’anima sola» (cfr At 4,32).

Cari amici, la vita umana attraversa diverse fasi di passaggio, spesso difficili e impegnative, che richiedono scelte inderogabili, rinunce e sacrifici. La Madre di Gesù è stata posta dal Signore in momenti decisivi della storia della salvezza e ha saputo rispondere sempre con piena disponibilità, frutto di un legame profondo con Dio maturato nella preghiera assidua e intensa. Tra il venerdì della Passione e la domenica della Risurrezione, a Lei è stato affidato il discepolo prediletto e con lui tutta la comunità dei discepoli (cfr Gv 19,26). Tra l’Ascensione e la Pentecoste, Ella si trova con e nella Chiesa in preghiera (cfr At 1,14).

Madre di Dio e Madre della Chiesa, Maria esercita questa sua maternità sino alla fine della storia. Affidiamo a Lei ogni fase di passaggio della nostra esistenza personale ed ecclesiale, non ultima quella del nostro transito finale. Maria ci insegna la necessità della preghiera e ci indica come solo con un legame costante, intimo, pieno di amore con suo Figlio possiamo uscire dalla «nostra casa», da noi stessi, con coraggio, per raggiungere i confini del mondo e annunciare ovunque il Signore Gesù, Salvatore del mondo. Grazie.

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Paparatzifan
00domenica 18 marzo 2012 16:50
Dal blog di Lella...

LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 18.03.2012

Alle ore 12 di oggi, IV domenica di Quaresima, il Santo Padre Benedetto XVI si affaccia alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare l’Angelus con i fedeli ed i pellegrini convenuti in Piazza San Pietro.
Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:

PRIMA DELL’ANGELUS

Cari fratelli e sorelle!

Nel nostro itinerario verso la Pasqua, siamo giunti alla quarta domenica di Quaresima. E’ un cammino con Gesù attraverso il «deserto», cioè un tempo in cui ascoltare maggiormente la voce di Dio e anche smascherare le tentazioni che parlano dentro di noi.
All’orizzonte di questo deserto si profila la Croce. Gesù sa che essa è il culmine della sua missione: in effetti, la Croce di Cristo è il vertice dell’amore, che ci dona la salvezza. Lo dice Lui stesso nel Vangelo di oggi: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,14-15).

Il riferimento è all’episodio in cui, durante l’esodo dall’Egitto, gli ebrei furono attaccati da serpenti velenosi, e molti morirono; allora Dio comandò a Mosè di fare un serpente di bronzo e metterlo sopra un’asta: se uno veniva morso dai serpenti, guardando il serpente di bronzo, veniva guarito (cfr Nm 21,4-9).
Anche Gesù sarà innalzato sulla Croce, perché chiunque è in pericolo di morte a causa del peccato, rivolgendosi con fede a Lui, che è morto per noi, sia salvato. «Dio infatti – scrive san Giovanni – non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17).

Commenta sant’Agostino: «Il medico, per quanto dipende da lui, viene per guarire il malato. Se uno non sta alle prescrizioni del medico, si rovina da solo. Il Salvatore è venuto nel mondo … Se tu non vuoi essere salvato da lui, ti giudicherai da te stesso» (Sul Vangelo di Giovanni, 12, 12: PL 35, 1190).

Dunque, se infinito è l’amore misericordioso di Dio, che è arrivato al punto di dare il suo unico Figlio in riscatto della nostra vita, grande è anche la nostra responsabilità: ciascuno, infatti, deve riconoscere di essere malato, per poter essere guarito; ciascuno deve confessare il proprio peccato, perché il perdono di Dio, già donato sulla Croce, possa avere effetto nel suo cuore e nella sua vita.

Scrive ancora sant’Agostino: «Dio condanna i tuoi peccati; e se anche tu li condanni, ti unisci a Dio … Quando comincia a dispiacerti ciò che hai fatto, allora cominciano le tue opere buone, perché condanni le tue opere cattive. Le opere buone cominciano con il riconoscimento delle opere cattive» (ibid., 13: PL 35, 1191).

A volte l’uomo ama più le tenebre che la luce, perché è attaccato ai suoi peccati. Ma è solo aprendosi alla luce, è solo confessando sinceramente le proprie colpe a Dio, che si trova la vera pace e la vera gioia. E’ importante allora accostarsi con regolarità al Sacramento della Penitenza, in particolare in Quaresima, per ricevere il perdono del Signore e intensificare il nostro cammino di conversione.

Cari amici, domani celebreremo la festa solenne di san Giuseppe. Ringrazio di cuore tutti coloro che avranno per me un ricordo nella preghiera, nel giorno del mio onomastico. In particolare, vi chiedo di pregare per il viaggio apostolico in Messico e Cuba, che compirò a partire da venerdì prossimo. Affidiamolo all’intercessione della Beata Vergine Maria, tanto amata e venerata in questi due Paesi che mi accingo a visitare.

DOPO DELL’ANGELUS

Ieri si è concluso, a Marsiglia, il VI Forum mondiale dell’acqua, e giovedì prossimo si celebrerà la Giornata mondiale dell’acqua, che quest’anno sottolinea il fondamentale legame di tale preziosa e limitata risorsa con la sicurezza alimentare. Auspico che queste iniziative contribuiscano a garantire per tutti un accesso equo, sicuro e adeguato all’acqua, promuovendo così i diritti alla vita e alla nutrizione di ogni essere umano e un uso responsabile e solidale dei beni della terra, a beneficio delle generazioni presenti e future.

Que ce temps du Carême, chers pèlerins francophones, nous donne de recentrer toute notre vie sur le Christ, qui a pris sur Lui nos souffrances et nos peines. Je Lui confie la douleur des parents belges qui, à cause de l’accident tragique en Suisse, ont perdu leur enfant, et celle de ceux qui se sont vus privés d’un proche. Je les assure de ma proximité et de ma prière. Demain, nous célèbrerons la fête de Saint-Joseph : puisse le Seigneur, par l’intercession de mon saint patron de baptême, me donner la force de confirmer mes frères et sœurs dans la foi ! Comme Saint Joseph, ne craignez pas de prendre Marie chez vous, qu’elle vous montre son Fils, le Christ notre Sauveur ! Que Dieu vous bénisse !

I greet the English-speaking pilgrims and visitors present for today’s Angelus. This Sunday, we reach the mid-way point of our Lenten journey. As we continue on our way, we keep our eyes fixed upon our goal, when we will accompany our Lord on the path to Calvary, so as to rise with him to new life. May Christ, the light of the world, shine upon you and fill you with his blessings!

Herzlich heiße ich alle deutschsprachigen Brüder und Schwestern willkommen, besonders die Pilger aus Bocholt. Am heutigen vierten Fastensonntag, dem Sonntag Lætare, strahlt schon etwas von der österlichen Freude auf. So sagt uns der Apostel Paulus in der zweiten Lesung: „Gott hat uns mit Christus auferweckt und uns zusammen mit ihm einen Platz im Himmel gegeben" (Eph 2,6). In dieser Zuversicht wollen wir die Botschaft der Erlösung in Jesus Christus zu unseren Mitmenschen bringen. An diesem Freitag darf ich selber als Pilger der Hoffnung nach Mexiko und Kuba aufbrechen, und ich bitte euch, diese Apostolische Reise im Gebet zu begleiten. Der Herr schenke euch seine Gnade.

Saludo a los peregrinos de lengua española, en particular al grupo del Pontificio Colegio Mexicano, de Roma, así como a los fieles provenientes de Tarragona, Ferrol y Madrid, y los exhorto a dirigir su mirada a Jesucristo, que levantado como estandarte en medio del mundo, es causa de salvación para el género humano. Al mismo tiempo, suplico oraciones por mi próximo Viaje apostólico a México y Cuba, donde tendré la dicha de ir dentro de unos días para confirmar en la fe a los cristianos de esas amadas naciones y de toda Latinoamérica. Invito a todos a acompañarme con su cercanía espiritual, para que en esta visita pastoral se cosechen abundantes frutos de vida cristiana y renovación eclesial, que contribuyan al auténtico progreso de esos pueblos. Encomiendo esta peregrinación a la Santísima Virgen María, que en aquellas benditas tierras recibe los nombres entrañables de Guadalupe y la Caridad. Feliz Domingo.

Srdačno pozdravljam i blagoslivljam hrvatske hodočasnike, a osobito nastavnike i učenike Gimnazije i strukovne škole Jurja Dobrile iz Pazina. Dragi prijatelji, nebeski Otac, bogat milosrđem, dao nam je svoga Sina da Ga slijedimo i da se spasimo. Ne bojte se ljubiti Ga i vjerovati Mu! Hvaljen Isus i Marija!

[Saluto di cuore e benedico tutti i pellegrini Croati, particolarmente i professori e gli studenti del Ginnasio e della Scuola d’avviamento professionale Juraj Dobrila di Pazin. Cari amici, il Padre celeste, ricco di misericordia, ci ha dato Suo Figlio affinché Lo seguiamo e ci salviamo. Non abbiate paura di amarLo e di credere in Lui! Siano lodati Gesù e Maria!]

S láskou pozdravujem slovenských pútnikov, osobitne z Farnosti svätého Michala v Stanči a z Úpora. Bratia a sestry, Pôstne obdobie nás pobáda, aby sme uznali v Ježišovi Kristovi našu najväčšiu nádej. Pozývam vás, aby ste boli vo svete vernými svedkami jeho Radostnej zvesti o vykúpení. Zo srdca vás žehnám. Sláva Isusu Christu!

[Saluto con affetto i pellegrini slovacchi, particolarmente quelli provenienti dalla Parrocchia di San Michele di Stanča e di Úpor. Fratelli e sorelle, il Tempo della Quaresima ci esorta a riconoscere Gesù Cristo come nostra suprema speranza. Vi invito ad essere nel mondo testimoni fedeli della Buona Novella della redenzione. Di cuore vi benedico. Sia lodato Gesù Cristo!]

Serdeczne pozdrowienie kieruję do wszystkich Polaków. Słowa łączności przekazuję uczestnikom Zjazdu Gnieźnieńskiego, obradującym w historycznej stolicy Polski. Niech będzie on dla Europy przypomnieniem o jej chrześcijańskich korzeniach i o potrzebie budowania społeczeństwa obywatelskiego w oparciu o wartości ewangeliczne. Owoce Zjazdu zawierzam św. Józefowi, Patronowi Kościoła Powszechnego i św. Wojciechowi, Patronowi Polski. Proszę wszystkich o modlitwę w intencji mojej podróży do Meksyku i na Kubę. Życzę wam dobrej niedzieli i z serca błogosławię.

[Rivolgo il mio cordiale saluto a tutti i Polacchi. Esprimo la mia vicinanza ai partecipanti al Convegno si sta svolgendo a Gniezno, storica capitale della Polonia. Il suddetto Convegno sia per l’Europa memoria delle sue radici cristiane e della necessità di costruire una società civile fondandosi sui valori evangelici. Affido i frutti del Convegno a San Giuseppe, Patrono della Chiesa Universale, e a Sant’Adalberto, Patrono della Polonia. A tutti chiedo la preghiera per il mio viaggio in Messico e a Cuba. Vi auguro una buona domenica e vi benedico di cuore.]

Saluto infine con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli provenienti da Assisi, Piacenza, Porto Azzurro e dalla diocesi di Concordia-Pordenone, e i cresimandi del Vicariato Mugello Est.
Saluto i lavoratori dell’Alcoa di Portovesme, assicurando ad essi e alle rispettive famiglie la mia preghiera e la mia vicinanza ed auspicando che la loro difficile situazione, come altre simili, possa avere un’adeguata soluzione.
A tutti auguro una buona domenica e una buona settimana. Buona domenica a voi tutti!

© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana


Paparatzifan
00domenica 18 marzo 2012 16:53
Dal blog di Lella...

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE IN OCCASIONE DELLA MORTE DI SUA SANTITÀ SHENOUDA III, PATRIARCA DI ALESSANDRIA , 18.03.2012

Appresa la notizia della morte, avvenuta ieri, del Patriarca della Chiesa Copta Ortodossa Sua Santità Shenouda III, Patriarca di Alessandria, il Santo Padre Benedetto XVI ha inviato il seguente messaggio di cordoglio:

Apprenant avec tristesse le départ vers Dieu, notre Père commun, de Sa Sainteté Chenouda III, Patriarche d’Alexandrie et de la Prédication de Saint Marc, je tiens à exprimer aux membres du Saint Synode, aux prêtres et aux fidèles de tout le Patriarcat mes sentiments les plus vifs de compassion fraternelle. Je rappelle avec gratitude son engagement pour l’Unité des Chrétiens, sa visite mémorable à mon prédécesseur le Pape Paul VI et leur signature le 10 mai 1973 à Rome de la Déclaration commune de Foi dans l’Incarnation du Fils de Dieu, ainsi que sa rencontre au Caire avec le Pape Jean Paul II au cours du Grand Jubilé de l’Incarnation, le 24 février de l’an 2000. Je puis dire combien l’Eglise catholique toute entière partage la peine qui afflige les Coptes orthodoxes, et combien elle se tient en prière fervente demandant à Celui qui est la résurrection et la vie, d’accueillir auprès de Lui son serviteur fidèle. Que le Dieu de toute miséricorde le reçoive dans sa joie, sa paix et sa lumière.

Benedictus pp XVI

© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana


Paparatzifan
00martedì 27 marzo 2012 17:23
Dal blog di Lella...

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI PER LA XXVII GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ (1° APRILE 2012), 27.03.2012

Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio che il Santo Padre Benedetto XVI invia ai giovani e alle giovani del mondo, in occasione della XXVII Giornata Mondiale della Gioventù che sarà celebrata il 1° aprile 2012, Domenica delle Palme, a livello diocesano:

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE

«Siate sempre lieti nel Signore!» (Fil 4,4)

Cari giovani,

sono lieto di rivolgermi nuovamente a voi, in occasione della XXVII Giornata Mondiale della Gioventù. Il ricordo dell’incontro di Madrid, lo scorso agosto, resta ben presente nel mio cuore. E’ stato uno straordinario momento di grazia, nel corso del quale il Signore ha benedetto i giovani presenti, venuti dal mondo intero. Rendo grazie a Dio per i tanti frutti che ha fatto nascere in quelle giornate e che in futuro non mancheranno di moltiplicarsi per i giovani e per le comunità a cui appartengono. Adesso siamo già orientati verso il prossimo appuntamento a Rio de Janeiro nel 2013, che avrà come tema «Andate e fate discepoli tutti i popoli!» (cfr Mt 28,19).

Quest’anno, il tema della Giornata Mondiale della Gioventù ci è dato da un’esortazione della Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi: «Siate sempre lieti nel Signore!» (4,4). La gioia, in effetti, è un elemento centrale dell’esperienza cristiana. Anche durante ogni Giornata Mondiale della Gioventù facciamo esperienza di una gioia intensa, la gioia della comunione, la gioia di essere cristiani, la gioia della fede. È una delle caratteristiche di questi incontri. E vediamo la grande forza attrattiva che essa ha: in un mondo spesso segnato da tristezza e inquietudini, è una testimonianza importante della bellezza e dell’affidabilità della fede cristiana.

La Chiesa ha la vocazione di portare al mondo la gioia, una gioia autentica e duratura, quella che gli angeli hanno annunciato ai pastori di Betlemme nella notte della nascita di Gesù (cfr Lc 2,10): Dio non ha solo parlato, non ha solo compiuto segni prodigiosi nella storia dell’umanità, Dio si è fatto così vicino da farsi uno di noi e percorrere le tappe dell’intera vita dell’uomo. Nel difficile contesto attuale, tanti giovani intorno a voi hanno un immenso bisogno di sentire che il messaggio cristiano è un messaggio di gioia e di speranza! Vorrei riflettere con voi allora su questa gioia, sulle strade per trovarla, affinché possiate viverla sempre più in profondità ed esserne messaggeri tra coloro che vi circondano.

1. Il nostro cuore è fatto per la gioia

L’aspirazione alla gioia è impressa nell’intimo dell’essere umano. Al di là delle soddisfazioni immediate e passeggere, il nostro cuore cerca la gioia profonda, piena e duratura, che possa dare «sapore» all’esistenza. E ciò vale soprattutto per voi, perché la giovinezza è un periodo di continua scoperta della vita, del mondo, degli altri e di se stessi. È un tempo di apertura verso il futuro, in cui si manifestano i grandi desideri di felicità, di amicizia, di condivisione e di verità, in cui si è mossi da ideali e si concepiscono progetti.

E ogni giorno sono tante le gioie semplici che il Signore ci offre: la gioia di vivere, la gioia di fronte alla bellezza della natura, la gioia di un lavoro ben fatto, la gioia del servizio, la gioia dell’amore sincero e puro. E se guardiamo con attenzione, esistono tanti altri motivi di gioia: i bei momenti della vita familiare, l’amicizia condivisa, la scoperta delle proprie capacità personali e il raggiungimento di buoni risultati, l’apprezzamento da parte degli altri, la possibilità di esprimersi e di sentirsi capiti, la sensazione di essere utili al prossimo. E poi l’acquisizione di nuove conoscenze mediante gli studi, la scoperta di nuove dimensioni attraverso viaggi e incontri, la possibilità di fare progetti per il futuro. Ma anche l’esperienza di leggere un’opera letteraria, di ammirare un capolavoro dell’arte, di ascoltare e suonare musica o di vedere un film possono produrre in noi delle vere e proprie gioie.

Ogni giorno, però, ci scontriamo anche con tante difficoltà e nel cuore vi sono preoccupazioni per il futuro, al punto che ci possiamo chiedere se la gioia piena e duratura alla quale aspiriamo non sia forse un’illusione e una fuga dalla realtà. Sono molti i giovani che si interrogano: è veramente possibile la gioia piena al giorno d’oggi? E questa ricerca percorre varie strade, alcune delle quali si rivelano sbagliate, o perlomeno pericolose. Ma come distinguere le gioie veramente durature dai piaceri immediati e ingannevoli? Come trovare la vera gioia nella vita, quella che dura e non ci abbandona anche nei momenti difficili?

2. Dio è la fonte della vera gioia

In realtà le gioie autentiche, quelle piccole del quotidiano o quelle grandi della vita, trovano tutte origine in Dio, anche se non appare a prima vista, perché Dio è comunione di amore eterno, è gioia infinita che non rimane chiusa in se stessa, ma si espande in quelli che Egli ama e che lo amano. Dio ci ha creati a sua immagine per amore e per riversare su noi questo suo amore, per colmarci della sua presenza e della sua grazia. Dio vuole renderci partecipi della sua gioia, divina ed eterna, facendoci scoprire che il valore e il senso profondo della nostra vita sta nell’essere accettato, accolto e amato da Lui, e non con un’accoglienza fragile come può essere quella umana, ma con un’accoglienza incondizionata come è quella divina: io sono voluto, ho un posto nel mondo e nella storia, sono amato personalmente da Dio. E se Dio mi accetta, mi ama e io ne divento sicuro, so in modo chiaro e certo che è bene che io ci sia, che esista.

Questo amore infinito di Dio per ciascuno di noi si manifesta in modo pieno in Gesù Cristo. In Lui si trova la gioia che cerchiamo. Nel Vangelo vediamo come gli eventi che segnano gli inizi della vita di Gesù siano caratterizzati dalla gioia. Quando l’arcangelo Gabriele annuncia alla Vergine Maria che sarà madre del Salvatore, inizia con questa parola: «Rallegrati!» (Lc 1,28). Alla nascita di Gesù, l’Angelo del Signore dice ai pastori: «Ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,11). E i Magi che cercavano il bambino, «al vedere la stella, provarono una gioia grandissima» (Mt 2,10). Il motivo di questa gioia è dunque la vicinanza di Dio, che si è fatto uno di noi. Ed è questo che intendeva san Paolo quando scriveva ai cristiani di Filippi: «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5). La prima causa della nostra gioia è la vicinanza del Signore, che mi accoglie e mi ama.

E infatti dall’incontro con Gesù nasce sempre una grande gioia interiore. Nei Vangeli lo possiamo vedere in molti episodi. Ricordiamo la visita di Gesù a Zaccheo, un esattore delle tasse disonesto, un peccatore pubblico, al quale Gesù dice: «Oggi devo fermarmi a casa tua». E Zaccheo, riferisce san Luca, «lo accolse pieno di gioia» (Lc 19,5-6). E’ la gioia dell’incontro con il Signore; è il sentire l’amore di Dio che può trasformare l’intera esistenza e portare salvezza. E Zaccheo decide di cambiare vita e di dare la metà dei suoi beni ai poveri.

Nell’ora della passione di Gesù, questo amore si manifesta in tutta la sua forza. Negli ultimi momenti della sua vita terrena, a cena con i suoi amici, Egli dice: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore... Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,9.11). Gesù vuole introdurre i suoi discepoli e ciascuno di noi nella gioia piena, quella che Egli condivide con il Padre, perché l’amore con cui il Padre lo ama sia in noi (cfr. Gv 17,26). La gioia cristiana è aprirsi a questo amore di Dio e appartenere a Lui.

Narrano i Vangeli che Maria di Magdala e altre donne andarono a visitare la tomba dove Gesù era stato posto dopo la sua morte e ricevettero da un Angelo un annuncio sconvolgente, quello della sua risurrezione. Allora abbandonarono in fretta il sepolcro, annota l’Evangelista, «con timore e gioia grande» e corsero a dare la lieta notizia ai discepoli. E Gesù venne loro incontro e disse: «Salute a voi!» (Mt 28,8-9). E’ la gioia della salvezza che viene loro offerta: Cristo è il vivente, è Colui che ha vinto il male, il peccato e la morte. Egli è presente in mezzo a noi come il Risorto, fino alla fine del mondo (cfr Mt 28,20). Il male non ha l’ultima parola sulla nostra vita, ma la fede in Cristo Salvatore ci dice che l’amore di Dio vince.

Questa gioia profonda è frutto dello Spirito Santo che ci rende figli di Dio, capaci di vivere e di gustare la sua bontà, di rivolgerci a Lui con il termine «Abbà», Padre (cfr Rm 8,15). La gioia è segno della sua presenza e della sua azione in noi.

3. Conservare nel cuore la gioia cristiana

A questo punto ci domandiamo: come ricevere e conservare questo dono della gioia profonda, della gioia spirituale?

Un Salmo ci dice: «Cerca la gioia nel Signore: esaudirà i desideri del tuo cuore» (Sal 37,4). E Gesù spiega che «il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13,44). Trovare e conservare la gioia spirituale nasce dall’incontro con il Signore, che chiede di seguirlo, di fare la scelta decisa di puntare tutto su di Lui. Cari giovani, non abbiate paura di mettere in gioco la vostra vita facendo spazio a Gesù Cristo e al suo Vangelo; è la strada per avere la pace e la vera felicità nell’intimo di noi stessi, è la strada per la vera realizzazione della nostra esistenza di figli di Dio, creati a sua immagine e somiglianza.

Cercare la gioia nel Signore: la gioia è frutto della fede, è riconoscere ogni giorno la sua presenza, la sua amicizia: «Il Signore è vicino!» (Fil 4,5); è riporre la nostra fiducia in Lui, è crescere nella conoscenza e nell’amore di Lui. L’«Anno della fede», che tra pochi mesi inizieremo, ci sarà di aiuto e di stimolo. Cari amici, imparate a vedere come Dio agisce nelle vostre vite, scopritelo nascosto nel cuore degli avvenimenti del vostro quotidiano. Credete che Egli è sempre fedele all’alleanza che ha stretto con voi nel giorno del vostro Battesimo. Sappiate che non vi abbandonerà mai. Rivolgete spesso il vostro sguardo verso di Lui. Sulla croce, ha donato la sua vita perché vi ama. La contemplazione di un amore così grande porta nei nostri cuori una speranza e una gioia che nulla può abbattere. Un cristiano non può essere mai triste perché ha incontrato Cristo, che ha dato la vita per lui.

Cercare il Signore, incontrarlo nella vita significa anche accogliere la sua Parola, che è gioia per il cuore. Il profeta Geremia scrive: «Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore» (Ger 15,16). Imparate a leggere e meditare la Sacra Scrittura, vi troverete una risposta alle domande più profonde di verità che albergano nel vostro cuore e nella vostra mente. La Parola di Dio fa scoprire le meraviglie che Dio ha operato nella storia dell’uomo e, pieni di gioia, apre alla lode e all’adorazione: «Venite, cantiamo al Signore... adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti» (Sal 95,1.6).

In modo particolare, poi, la Liturgia è il luogo per eccellenza in cui si esprime la gioia che la Chiesa attinge dal Signore e trasmette al mondo. Ogni domenica, nell’Eucaristia, le comunità cristiane celebrano il Mistero centrale della salvezza: la morte e risurrezione di Cristo. E’ questo un momento fondamentale per il cammino di ogni discepolo del Signore, in cui si rende presente il suo Sacrificio di amore; è il giorno in cui incontriamo il Cristo Risorto, ascoltiamo la sua Parola, ci nutriamo del suo Corpo e del suo Sangue. Un Salmo afferma: «Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci in esso ed esultiamo!» (Sal 118,24). E nella notte di Pasqua, la Chiesa canta l’Exultet, espressione di gioia per la vittoria di Gesù Cristo sul peccato e sulla morte: «Esulti il coro degli angeli... Gioisca la terra inondata da così grande splendore... e questo tempio tutto risuoni per le acclamazioni del popolo in festa!». La gioia cristiana nasce dal sapere di essere amati da un Dio che si è fatto uomo, ha dato la sua vita per noi e ha sconfitto il male e la morte; ed è vivere di amore per lui. Santa Teresa di Gesù Bambino, giovane carmelitana, scriveva: «Gesù, è amarti la mia gioia!» (P 45, 21 gennaio 1897, Op. Compl., pag. 708).

4. La gioia dell’amore

Cari amici, la gioia è intimamente legata all’amore: sono due frutti inseparabili dello Spirito Santo (cfr Gal 5,23). L’amore produce gioia, e la gioia è una forma d’amore. La beata Madre Teresa di Calcutta, facendo eco alle parole di Gesù: «si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20,35), diceva: «La gioia è una rete d’amore per catturare le anime. Dio ama chi dona con gioia. E chi dona con gioia dona di più». E il Servo di Dio Paolo VI scriveva: «In Dio stesso tutto è gioia poiché tutto è dono» (Esort. ap. Gaudete in Domino, 9 maggio 1975)

Pensando ai vari ambiti della vostra vita, vorrei dirvi che amare significa costanza, fedeltà, tener fede agli impegni. E questo, in primo luogo, nelle amicizie: i nostri amici si aspettano che siamo sinceri, leali, fedeli, perché il vero amore è perseverante anche e soprattutto nelle difficoltà. E lo stesso vale per il lavoro, gli studi e i servizi che svolgete. La fedeltà e la perseveranza nel bene conducono alla gioia, anche se non sempre questa è immediata.

Per entrare nella gioia dell’amore, siamo chiamati anche ad essere generosi, a non accontentarci di dare il minimo, ma ad impegnarci a fondo nella vita, con un’attenzione particolare per i più bisognosi. Il mondo ha necessità di uomini e donne competenti e generosi, che si mettano al servizio del bene comune. Impegnatevi a studiare con serietà; coltivate i vostri talenti e metteteli fin d’ora al servizio del prossimo. Cercate il modo di contribuire a rendere la società più giusta e umana, là dove vi trovate. Che tutta la vostra vita sia guidata dallo spirito di servizio, e non dalla ricerca del potere, del successo materiale e del denaro.

A proposito di generosità, non posso non menzionare una gioia speciale: quella che si prova rispondendo alla vocazione di donare tutta la propria vita al Signore. Cari giovani, non abbiate paura della chiamata di Cristo alla vita religiosa, monastica, missionaria o al sacerdozio. Siate certi che Egli colma di gioia coloro che, dedicandogli la vita in questa prospettiva, rispondono al suo invito a lasciare tutto per rimanere con Lui e dedicarsi con cuore indiviso al servizio degli altri. Allo stesso modo, grande è la gioia che Egli riserva all’uomo e alla donna che si donano totalmente l’uno all’altro nel matrimonio per costituire una famiglia e diventare segno dell’amore di Cristo per la sua Chiesa.

Vorrei richiamare un terzo elemento per entrare nella gioia dell’amore: far crescere nella vostra vita e nella vita delle vostre comunità la comunione fraterna. C’è uno stretto legame tra la comunione e la gioia. Non è un caso che san Paolo scriva la sua esortazione al plurale: non si rivolge a ciascuno singolarmente, ma afferma: «Siate sempre lieti nel Signore» (Fil 4,4). Soltanto insieme, vivendo la comunione fraterna, possiamo sperimentare questa gioia. Il libro degli Atti degli Apostoli descrive così la prima comunità cristiana: «spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46). Impegnatevi anche voi affinché le comunità cristiane possano essere luoghi privilegiati di condivisione, di attenzione e di cura l’uno dell’altro.

5. La gioia della conversione

Cari amici, per vivere la vera gioia occorre anche identificare le tentazioni che la allontanano. La cultura attuale induce spesso a cercare traguardi, realizzazioni e piaceri immediati, favorendo più l’incostanza che la perseveranza nella fatica e la fedeltà agli impegni. I messaggi che ricevete spingono ad entrare nella logica del consumo, prospettando felicità artificiali. L’esperienza insegna che l’avere non coincide con la gioia: vi sono tante persone che, pur avendo beni materiali in abbondanza, sono spesso afflitte dalla disperazione, dalla tristezza e sentono un vuoto nella vita. Per rimanere nella gioia, siamo chiamati a vivere nell’amore e nella verità, a vivere in Dio.

E la volontà di Dio è che noi siamo felici. Per questo ci ha dato delle indicazioni concrete per il nostro cammino: i Comandamenti. Osservandoli, noi troviamo la strada della vita e della felicità. Anche se a prima vista possono sembrare un insieme di divieti, quasi un ostacolo alla libertà, se li meditiamo più attentamente, alla luce del Messaggio di Cristo, essi sono un insieme di essenziali e preziose regole di vita che conducono a un’esistenza felice, realizzata secondo il progetto di Dio. Quante volte, invece, costatiamo che costruire ignorando Dio e la sua volontà porta delusione, tristezza, senso di sconfitta. L’esperienza del peccato come rifiuto di seguirlo, come offesa alla sua amicizia, porta ombra nel nostro cuore.

Ma se a volte il cammino cristiano non è facile e l’impegno di fedeltà all’amore del Signore incontra ostacoli o registra cadute, Dio, nella sua misericordia, non ci abbandona, ma ci offre sempre la possibilità di ritornare a Lui, di riconciliarci con Lui, di sperimentare la gioia del suo amore che perdona e riaccoglie.

Cari giovani, ricorrete spesso al Sacramento della Penitenza e della Riconciliazione! Esso è il Sacramento della gioia ritrovata. Domandate allo Spirito Santo la luce per saper riconoscere il vostro peccato e la capacità di chiedere perdono a Dio accostandovi a questo Sacramento con costanza, serenità e fiducia. Il Signore vi aprirà sempre le sue braccia, vi purificherà e vi farà entrare nella sua gioia: vi sarà gioia nel cielo anche per un solo peccatore che si converte (cfr Lc 15,7).

6. La gioia nelle prove

Alla fine, però, potrebbe rimanere nel nostro cuore la domanda se veramente è possibile vivere nella gioia anche in mezzo alle tante prove della vita, specialmente le più dolorose e misteriose, se veramente seguire il Signore, fidarci di Lui dona sempre felicità.

La risposta ci può venire da alcune esperienze di giovani come voi che hanno trovato proprio in Cristo la luce capace di dare forza e speranza, anche in mezzo alle situazioni più difficili. Il beato Pier Giorgio Frassati (1901-1925) ha sperimentato tante prove nella sua pur breve esistenza, tra cui una, riguardante la sua vita sentimentale, che lo aveva ferito in modo profondo. Proprio in questa situazione, scriveva alla sorella: «Tu mi domandi se sono allegro; e come non potrei esserlo? Finché la Fede mi darà forza sempre allegro! Ogni cattolico non può non essere allegro... Lo scopo per cui noi siamo stati creati ci addita la via seminata sia pure di molte spine, ma non una triste via: essa è allegria anche attraverso i dolori» (Lettera alla sorella Luciana, Torino, 14 febbraio 1925). E il beato Giovanni Paolo II, presentandolo come modello, diceva di lui: «era un giovane di una gioia trascinante, una gioia che superava tante difficoltà della sua vita» (Discorso ai giovani, Torino, 13 aprile 1980).

Più vicina a noi, la giovane Chiara Badano (1971-1990), recentemente beatificata, ha sperimentato come il dolore possa essere trasfigurato dall’amore ed essere misteriosamente abitato dalla gioia. All’età di 18 anni, in un momento in cui il cancro la faceva particolarmente soffrire, Chiara aveva pregato lo Spirito Santo, intercedendo per i giovani del suo Movimento. Oltre alla propria guarigione, aveva chiesto a Dio di illuminare con il suo Spirito tutti quei giovani, di dar loro la sapienza e la luce: «È stato proprio un momento di Dio: soffrivo molto fisicamente, ma l’anima cantava» (Lettera a Chiara Lubich, Sassello, 20 dicembre 1989). La chiave della sua pace e della sua gioia era la completa fiducia nel Signore e l’accettazione anche della malattia come misteriosa espressione della sua volontà per il bene suo e di tutti. Ripeteva spesso: «Se lo vuoi tu, Gesù, lo voglio anch’io».

Sono due semplici testimonianze tra molte altre che mostrano come il cristiano autentico non è mai disperato e triste, anche davanti alle prove più dure, e mostrano che la gioia cristiana non è una fuga dalla realtà, ma una forza soprannaturale per affrontare e vivere le difficoltà quotidiane. Sappiamo che Cristo crocifisso e risorto è con noi, è l’amico sempre fedele. Quando partecipiamo alle sue sofferenze, partecipiamo anche alla sua gloria. Con Lui e in Lui, la sofferenza è trasformata in amore. E là si trova la gioia (cfr Col 1,24).

7. Testimoni della gioia

Cari amici, per concludere vorrei esortarvi ad essere missionari della gioia. Non si può essere felici se gli altri non lo sono: la gioia quindi deve essere condivisa. Andate a raccontare agli altri giovani la vostra gioia di aver trovato quel tesoro prezioso che è Gesù stesso. Non possiamo tenere per noi la gioia della fede: perché essa possa restare in noi, dobbiamo trasmetterla. San Giovanni afferma: «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi... Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena» (1Gv 1,3-4).

A volte viene dipinta un’immagine del Cristianesimo come di una proposta di vita che opprime la nostra libertà, che va contro il nostro desiderio di felicità e di gioia. Ma questo non risponde a verità! I cristiani sono uomini e donne veramente felici perché sanno di non essere mai soli, ma di essere sorretti sempre dalle mani di Dio! Spetta soprattutto a voi, giovani discepoli di Cristo, mostrare al mondo che la fede porta una felicità e una gioia vera, piena e duratura. E se il modo di vivere dei cristiani sembra a volte stanco ed annoiato, testimoniate voi per primi il volto gioioso e felice della fede. Il Vangelo è la «buona novella» che Dio ci ama e che ognuno di noi è importante per Lui. Mostrate al mondo che è proprio così!

Siate dunque missionari entusiasti della nuova evangelizzazione! Portate a coloro che soffrono, a coloro che sono in ricerca, la gioia che Gesù vuole donare. Portatela nelle vostre famiglie, nelle vostre scuole e università, nei vostri luoghi di lavoro e nei vostri gruppi di amici, là dove vivete. Vedrete che essa è contagiosa. E riceverete il centuplo: la gioia della salvezza per voi stessi, la gioia di vedere la Misericordia di Dio all’opera nei cuori. Il giorno del vostro incontro definitivo con il Signore, Egli potrà dirvi: «Servo buono e fedele, prendi parte alla gioia del tuo padrone!» (Mt 25,21).

La Vergine Maria vi accompagni in questo cammino. Ella ha accolto il Signore dentro di sé e l’ha annunciato con un canto di lode e di gioia, il Magnificat: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore» (Lc 1,46-47). Maria ha risposto pienamente all’amore di Dio dedicando la sua vita a Lui in un servizio umile e totale. E’ chiamata «causa della nostra letizia» perché ci ha dato Gesù. Che Ella vi introduca in quella gioia che nessuno potrà togliervi!

Dal Vaticano, 15 marzo 2012

BENEDICTUS PP. XVI

© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana


Paparatzifan
00venerdì 30 marzo 2012 19:33
Dal blog di Lella...

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE AI DETENUTI DI REBIBBIA

Cari fratelli!

Sono stato felice di sapere che, in preparazione alla Pasqua, darete vita, nella Casa Circondariale di Rebibbia, ad una Via Crucis che sarà presieduta dal mio Vicario per Roma, il Cardinale Agostino Vallini, con la partecipazione di detenuti, operatori penitenziari e gruppi di fedeli da varie parrocchie della città.
Mi sento particolarmente vicino a questa iniziativa, perché è sempre vivo nel mio animo il ricordo della visita che ho compiuto nel carcere di Rebibbia poco prima dello scorso Natale; ricordo i volti che ho incontrato e le parole che ho ascoltato, e che hanno lasciato in me un segno profondo. Perciò, mi unisco spiritualmente alla vostra preghiera, e così posso dare continuità alla mia presenza in mezzo a voi, e di questo ringrazio in particolare i vostri Cappellani.
So che questa Via Crucis vuole essere anche un segno di riconciliazione.
In effetti, come disse uno dei detenuti durante il nostro incontro, il carcere serve per rialzarsi dopo essere caduti, per riconciliarsi con se stessi, con gli altri e con Dio, e poter poi rientrare di nuovo nella società. Quando, nella Via Crucis, vediamo Gesù che cade a terra — una, due, tre volte — comprendiamo che Lui ha condiviso la nostra condizione umana, il peso dei nostri peccati lo ha fatto cadere; ma per tre volte Gesù si è rialzato e ha proseguito il cammino verso il Calvario; e così, con il suo aiuto, anche noi possiamo rialzarci dalle nostre cadute, e magari aiutare un altro, un fratello, a rialzarsi.
Ma che cosa dava a Gesù la forza di andare avanti?
Era la certezza che il Padre era con Lui. Anche se nel suo cuore c’era tutta l’amarezza dell’abbandono, Gesù sapeva che il Padre lo amava, e proprio questo amore immenso, questa misericordia infinita del Padre celeste lo consolava ed era più grande delle violenze e degli oltraggi che lo circondavano. Anche se tutti lo disprezzavano e lo trattavano non più come un uomo, Gesù, nel suo cuore, aveva la ferma certezza di essere sempre figlio, il Figlio amato da Dio Padre.
Questo, cari amici, è il grande dono che Gesù ci ha fatto con la sua Via Crucis: ci ha rivelato che Dio è amore infinito, è misericordia, e porta fino in fondo il peso dei nostri peccati, perché noi possiamo rialzarci e riconciliarci e ritrovare la pace. Anche noi, allora, non abbiamo paura di percorrere la nostra “via crucis”, di portare la nostra croce insieme con Gesù. Lui è con noi. E con noi c’è anche Maria, sua e nostra madre. Lei rimane fedele anche ai piedi della nostra croce, e prega per la nostra risurrezione, perché crede fermamente che, anche nella notte più buia, l’ultima parola è la luce dell’amore di Dio.
Con questa speranza, basata sulla fede, auguro a tutti voi di vivere la prossima Pasqua nella pace e nella gioia che Cristo ci ha acquistato con il suo sangue, e con grande affetto vi imparto la Benedizione Apostolica, estendendola di cuore ai vostri familiari e alle persone care.

Dal Vaticano, 22 marzo 2012

BENEDICTUS PP. XVI

© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana

(©L'Osservatore Romano 31 marzo 2012)


Paparatzifan
00domenica 1 aprile 2012 18:52
Dal blog di Lella...

LETTERA DEL SANTO PADRE AL VESCOVO DI ASSISI-NOCERA UMBRA-GUALDO TADINO IN OCCASIONE DELL’ "ANNO CLARIANO", 31.03.2012

Pubblichiamo di seguito la Lettera che il Santo Padre Benedetto XVI ha inviato a S.E. Mons. Domenico Sorrentino, Vescovo di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino, per l"Anno Clariano" indetto in tutta la Diocesi in ricordo di Santa Chiara, in occasione dell’VIII centenario della sua conversione e consacrazione:

LETTERA DEL SANTO PADRE

Al Venerato Fratello
Domenico Sorrentino
Vescovo di Assisi - Nocera Umbra - Gualdo Tadino

Con gioia ho appreso che, in codesta Diocesi, come tra i Francescani e le Clarisse di tutto il mondo, si sta ricordando santa Chiara con un «Anno Clariano», in occasione dell'VIII centenario della sua «conversione» e consacrazione.
Tale evento, la cui datazione oscilla tra il 1211 e il 1212, completava, per così dire, «al femminile» la grazia che aveva raggiunto pochi anni prima la comunità di Assisi con la conversione del figlio di Pietro di Bernardone. E, come era avvenuto per Francesco, anche nella decisione di Chiara si nascondeva il germoglio di una nuova fraternità, l'Ordine clariano che, divenuto albero robusto, nel silenzio fecondo dei chiostri continua a spargere il buon seme del Vangelo e a servire la causa del Regno di Dio.
Questa lieta circostanza mi spinge a tornare idealmente ad Assisi, per riflettere con Lei, venerato Fratello, e la comunità affidataLe, e, parimenti, con i figli di san Francesco e le figlie di santa Chiara, sul senso di quell'evento. Esso infatti parla anche alla nostra generazione, e ha un fascino soprattutto per i giovani, ai quali va il mio affettuoso pensiero in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù, celebrata quest'anno, secondo la consuetudine, nelle Chiese particolari proprio in questo giorno della Domenica delle Palme.
Della sua scelta radicale di Cristo è la Santa stessa, nel suo Testamento, a parlare in termini di «conversione» (cfr. FF 2825). È da questo aspetto che mi piace partire, quasi riprendendo il filo del discorso svolto in riferimento alla conversione di Francesco il 17 giugno 2007, quando ebbi la gioia di visitare codesta Diocesi.

La storia della conversione di Chiara ruota intorno alla festa liturgica della Domenica delle Palme. Scrive infatti il suo biografo: «Era prossimo il giorno solenne delle Palme, quando la giovane si recò dall'uomo di Dio per chiedergli della sua conversione, quando e in che modo dovesse agire.

Il padre Francesco ordina che nel giorno della festa, elegante e ornata, si rechi alle Palme in mezzo alla folla del popolo, e poi la notte seguente, uscendo fuori dalla città, converta la gioia mondana nel lutto della domenica di Passione. Giunto dunque il giorno di domenica, in mezzo alle altre dame, la giovane, splendente di luce festiva, entra con le altre in chiesa. Qui, con degno presagio, avvenne che, mentre gli altri correvano a ricevere le palme, Chiara, per verecondia, rimase immobile e allora il Vescovo, scendendo i gradini, giunse fino a lei e pose la palma nelle sue mani» (Legenda Sanctae Clarae virginis, 7: FF 3168).

Erano passati circa sei anni da quando il giovane Francesco aveva imboccato la via della santità. Nelle parole del Crocifisso di San Damiano -- «Va', Francesco, ripara la mia casa» --, e nell'abbraccio ai lebbrosi, volto sofferente di Cristo, aveva trovato la sua vocazione. Ne era scaturito il liberante gesto dello «spogliamento» alla presenza del Vescovo Guido. Tra l'idolo del denaro a lui proposto dal padre terreno, e l'amore di Dio che prometteva di riempirgli il cuore, non aveva avuto dubbi, e con slancio aveva esclamato: «D'ora in poi potrò dire liberamente: Padre nostro, che sei nei cieli, non padre Pietro di Bernardone» (Vita Seconda, 12: FF 597).

La decisione di Francesco aveva sconcertato la Città. I primi anni della sua nuova vita furono segnati da difficoltà, amarezze e incomprensioni. Ma molti cominciarono a riflettere. Anche la giovane Chiara, allora adolescente, fu toccata da quella testimonianza. Dotata di spiccato senso religioso, venne conquistata dalla «svolta» esistenziale di colui che era stato il «re delle feste». Trovò il modo di incontrarlo e si lasciò coinvolgere dal suo ardore per Cristo. Il biografo tratteggia il giovane convertito mentre istruisce la nuova discepola: «Il padre Francesco la esortava al disprezzo del mondo, dimostrandole, con una parola viva, che la speranza in questo mondo è arida e porta delusione, e le instillava alle orecchie il dolce connubio di Cristo» (Vita Sanctae Clarae Virginis, 5: FF 3164).

Secondo il Testamento di Santa Chiara, ancor prima di ricevere altri compagni, Francesco aveva profetizzato il cammino della sua prima figlia spirituale e delle sue consorelle. Mentre infatti lavorava per il restauro della chiesa di San Damiano, dove il Crocifisso gli aveva parlato, aveva annunciato che quel luogo sarebbe stato abitato da donne che avrebbero glorificato Dio col loro santo tenore di vita (cfr. FF 2826; cfr. Tommaso da Celano, Vita seconda, 13: FF 599). Il Crocifisso originale si trova ora nella Basilica di Santa Chiara. Quei grandi occhi di Cristo che avevano affascinato Francesco, diventarono lo «specchio» di Chiara. Non a caso il tema dello specchio le risulterà così caro e, nella iv lettera ad Agnese di Praga, scriverà: «Guarda ogni giorno questo specchio, o regina sposa di Gesù Cristo, e in esso scruta continuamente il tuo volto» (FF 2902). Negli anni in cui incontrava Francesco per apprendere da lui il cammino di Dio, Chiara era una ragazza avvenente. Il Poverello di Assisi le mostrò una bellezza superiore, che non si misura con lo specchio della vanità, ma si sviluppa in una vita di autentico amore, sulle orme di Cristo crocifisso. Dio è la vera bellezza! Il cuore di Chiara si illuminò a questo splendore, e ciò le diede il coraggio di lasciarsi tagliare le chiome e cominciare una vita penitente. Per lei, come per Francesco, questa decisione fu segnata da molte difficoltà. Se alcuni familiari non tardarono a comprenderla, e addirittura la madre Ortolana e due sorelle la seguirono nella sua scelta di vita, altri reagirono violentemente.

La sua fuga da casa, nella notte tra la Domenica delle Palme e il Lunedì santo, ebbe dell'avventuroso. Nei giorni seguenti fu inseguita nei luoghi in cui Francesco le aveva preparato un rifugio e invano si tentò, anche con la forza, di farla recedere dal suo proposito.

A questa lotta Chiara si era preparata. E se Francesco era la sua guida, un sostegno paterno le veniva anche dal Vescovo Guido, come più di un indizio suggerisce. Si spiega così il gesto del Presule che le si avvicinò per offrirle la palma, quasi a benedire la sua scelta coraggiosa. Senza l'appoggio del Vescovo, difficilmente si sarebbe potuto realizzare il progetto ideato da Francesco ed attuato da Chiara, sia nella consacrazione che questa fece di se stessa nella chiesa della Porziuncola alla presenza di Francesco e dei suoi frati, sia nell'ospitalità che ella ricevette nei giorni successivi nel monastero di San Paolo delle Abbadesse e nella comunità di Sant'Angelo in Panzo, prima dell'approdo definitivo a San Damiano.

La vicenda di Chiara, come quella di Francesco, mostra così un particolare tratto ecclesiale. In essa si incontrano un Pastore illuminato e due figli della Chiesa che si affidano al suo discernimento. Istituzione e carisma interagiscono stupendamente. L'amore e l'obbedienza alla Chiesa, tanto rimarcati nella spiritualità francescano-clariana, affondano le radici in questa bella esperienza della comunità cristiana di Assisi, che non solo generò alla fede Francesco e la sua «pianticella», ma anche li accompagnò per mano sulla via della santità.

Francesco aveva ben visto la ragione per suggerire a Chiara la fuga da casa agli inizi della Settimana Santa. Tutta la vita cristiana, e dunque anche la vita di speciale consacrazione, sono un frutto del Mistero pasquale e una partecipazione alla morte e alla risurrezione di Cristo. Nella liturgia della Domenica delle Palme dolore e gloria si intrecciano, come un tema che si andrà poi sviluppando nei giorni successivi attraverso il buio della Passione fino alla luce della Pasqua.

Chiara, con la sua scelta, rivive questo mistero. Il giorno delle Palme ne riceve, per così dire, il programma. Entra poi nel dramma della Passione, deponendo i suoi capelli, e con essi rinunciando a tutta se stessa per essere sposa di Cristo nell'umiltà e nella povertà. Francesco e i suoi compagni sono ormai la sua famiglia. Presto arriveranno consorelle anche da lontano, ma i primi germogli, come nel caso di Francesco, spunteranno proprio in Assisi. E la Santa resterà sempre legata alla sua Città, mostrandolo specialmente in alcune circostanze difficili, quando la sua preghiera risparmiò ad Assisi violenza e devastazione. Disse allora alle consorelle: «Da questa città, carissime figlie, abbiamo ricevuto ogni giorno molti beni; sarebbe molto empio se non le prestassimo soccorso come possiamo nel tempo opportuno» (Legenda Sanctae Clarae Virginis 23: FF 3203).

Nel suo significato profondo, la «conversione» di Chiara è una conversione all'amore. Ella non avrà più gli abiti raffinati della nobiltà di Assisi, ma l'eleganza di un'anima che si spende nella lode di Dio e nel dono di sé. Nel piccolo spazio del monastero di San Damiano, alla scuola di Gesù Eucaristia contemplato con affetto sponsale, si andranno sviluppando giorno dopo giorno i tratti di una fraternità regolata dall'amore a Dio e dalla preghiera, dalla premura e dal servizio. È in questo contesto di fede profonda e di grande umanità che Chiara si fa sicura interprete dell'ideale francescano, implorando quel «privilegio» della povertà, ossia la rinuncia a possedere anche solo comunitariamente dei beni, che lasciò a lungo perplesso lo stesso Sommo Pontefice, il quale alla fine si arrese all'eroismo della sua santità.

Come non proporre Chiara, al pari di Francesco, all'attenzione dei giovani d'oggi? Il tempo che ci separa dalla vicenda di questi due Santi non ha sminuito il loro fascino. Al contrario, se ne può vedere l'attualità al confronto con le illusioni e le delusioni che spesso segnano l'odierna condizione giovanile. Mai un tempo ha fatto sognare tanto i giovani, con le mille attrattive di una vita in cui tutto sembra possibile e lecito. Eppure, quanta insoddisfazione è presente, quante volte la ricerca di felicità, di realizzazione finisce per imboccare strade che portano a paradisi artificiali, come quelli della droga e della sensualità sfrenata!

Anche la situazione attuale con la difficoltà di trovare un lavoro dignitoso e di formare una famiglia unita e felice, aggiunge nubi all'orizzonte. Non mancano però giovani che, anche ai nostri giorni, raccolgono l'invito ad affidarsi a Cristo e ad affrontare con coraggio, responsabilità e speranza il cammino della vita, anche operando la scelta di lasciare tutto per seguirlo nel totale servizio a Lui e ai fratelli. La storia di Chiara, insieme a quella di Francesco, è un invito a riflettere sul senso dell'esistenza e a cercare in Dio il segreto della vera gioia. È una prova concreta che chi compie la volontà del Signore e confida in Lui non solo non perde nulla, ma trova il vero tesoro capace di dare senso a tutto.

A Lei, venerato Fratello, a codesta Chiesa che ha l'onore di aver dato i natali a Francesco e a Chiara, alle Clarisse, che mostrano quotidianamente la bellezza e la fecondità della vita contemplativa, a sostegno del cammino di tutto il Popolo di Dio, e ai Francescani di tutto il mondo, a tanti giovani in ricerca e bisognosi di luce, consegno questa breve riflessione. Mi auguro che essa contribuisca a far riscoprire sempre di più queste due luminose figure del firmamento della Chiesa. Con un particolare pensiero alle figlie di santa Chiara del Protomonastero, degli altri monasteri di Assisi e del mondo intero, imparto di cuore a tutti la mia Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 1° Aprile 2012, Domenica delle Palme

BENEDICTUS PP. XVI

© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana


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