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Viaggio apostolico in San Marino...

Ultimo Aggiornamento: 24/06/2011 17:43
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Colloquio con il vescovo Luigi Negri alla vigilia della visita del Papa alla diocesi di San Marino - Montefeltro

Un’esperienza di fede comune che va oltre le differenze sociali

Mario Ponzi

«Qui si vive un’esperienza di fede talmente radicata nel cuore della gente da riuscire non solo a superare le distanze, ma anche a valorizzare le differenze sociali che inevitabilmente si riscontrano in un tessuto così eterogeneo come il nostro».

Si fa serio monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino - Montefeltro quando, presentando la visita di Benedetto XVI di domenica 19 giugno, parla del profondo contrasto tra quelli che potrebbero sembrare due corpi di una stessa anima. Sessantottomila e poco più abitanti, sparsi su un territorio di ottocento chilometri quadrati, comprensivi di tre province; ottantuno parrocchie più due curazie nella Repubblica di San Marino, servite da cinquantotto sacerdoti secolari e ventitré regolari; due cattedrali, due patroni, un eremo, un convento francescano, un santuario. È la diocesi in numeri. Solo dal 1977 la circoscrizione religiosa ha assunto l’attuale denominazione. Prima, e per oltre dodici secoli, il titolo era semplicemente diocesi di Montefeltro. San Marino ne è stata comunque sempre parte integrante, così come lo sono stati gli altri cento castelli della regione. A Benedetto XVI si presenta nella sua particolarissima identità, formata come è da due province italiane e da uno Stato indipendente, la Repubblica di San Marino appunto: due realtà evidentemente vicine, ma molto distanti tra loro. Ne abbiamo parlato con monsignor Luigi Negri.

La particolarità della conformazione della diocesi comporta qualche difficoltà pastorale?

Certamente la nostra è una situazione eccezionale. Credo lo sia anche dal punto di vista canonico. La diocesi fa riferimento all’antica sede episcopale del Montefeltro, alla quale si è aggiunto dopo il 1977 il territorio della Repubblica di San Marino, che è una realtà internazionale libera, indipendente e sovrana. Ma questo, al di là della «stranezza», non comporta alcuna difficoltà per la vita della Chiesa locale che è fortemente unita, vive un’esperienza di bontà nella fede, nella carità che non solo supera ma valorizza le differenze che naturalmente ci sono.

Di quali differenze parla?

Dal punto di vista ecclesiale, lo ripeto, c’è una certa uniformità sia da una parte sia dall’altra. Il popolo cristiano del territorio ha da tempo ripreso coscienza della grande tradizione di fede e di carità che aveva caratterizzato l’identità di questi luoghi. Solo così è stato possibile fronteggiare quel secolarismo anticattolico che da queste parti si è fatto sentire molto e che ancora oggi tende a distruggere l’identità cristiana e a sostituirla con un’identità che potremmo definire massmediatica. Sono solo sei anni che stiamo lavorando in questa direzione.

E le difficoltà?

Pensi alle differenze a livello socio-economico tra le popolazioni. Da una parte c’è, o almeno c’è stato, fino a qualche mese fa, il benessere assoluto e sovrano di uno Stato — la Repubblica di San Marino — che certamente ha vissuto al di sopra delle sue possibilità e che adesso, dopo aver attraversato, come il resto del mondo, una pesante crisi sotto vari aspetti, si trova di fronte a una ripresa della propria identità di libertà, di responsabilità per affrontare, in ambito sociale, i nodi giunti al pettine. Che sono certamente nodi finanziari, economici, legati anche alla non facile congiuntura dei rapporti con l’Italia, che, dal canto suo, non si è dimostrata, secondo me, così libera e grande come è nella sua tradizione. E l’altra parte della diocesi mostra proprio quanto ci sia bisogno di ripensare, come dicono i sociologi, il sistema Paese. Ma io credo che ci sia bisogno di fondare questo ripensamento, o meglio che ci sia da riscoprire e rinnovare quella che è la radice vera del sistema Paese, che è l’uomo, la persona, la famiglia. I pericoli che rischiano di inaridire questa radice sono tanti: dal permissivismo morale, all’irresponsabilità, alla crisi delle famiglie, alla mancanza di una capacità educativa. Sono tutti rischi che incombono pesantemente su una società che fino adesso ha vissuto dell’edonismo della Riviera Adriatica.

Da dove nasce, secondo lei, questa situazione?

Credo che questa situazione, molto grave e complessa, risalga a decine d’anni fa e che sia figlia di un certo abbandono in cui hanno vissuto queste zone. Sin dagli anni dell’unità d’Italia queste terre sono state relegate a zone di confine fra regioni diverse di cui nessuno si è occupato, se non per esigere le tasse. È anche vero che per la maggior parte si tratta di istituzioni piccole perché i Comuni sono piccoli. Ma tutte le istituzioni, anche quelle piccole, molte volte riproducono gli stessi errori, gli stessi difetti, delle gestioni centralizzate e spesso vivono in modo ancor più esasperato il tentativo di realizzarsi nel consumismo, in quello che i giovani d’oggi chiamano lo sballo. Da quando sono arrivato in questa diocesi ho celebrato circa quindici funerali di giovani morti sulla via del rientro dai templi del divertimento a oltranza e senza limiti. Questo denota soprattutto una crisi di valori, dunque una più profonda crisi della famiglia. Ma in pochi, soprattutto chi ha responsabilità precise, sembrano preoccuparsene. Anche da queste parti si registra purtroppo una sostanziale disattenzione ai problemi reali del Paese. E lo si vede in alcune nostre realtà. Benedetto XVI per esempio non farà molta strada per spostarsi in papamobile da dove scenderà dall’elicottero per arrivare al cuore di Pennabilli. Eppure percorrerà qualche centinaio di metri di strade che io frequento già da sei anni per girare la mia diocesi, delle quali conosco ogni pietra, e conosco ogni goccia di sudore o di lacrima che le bagna quotidianamente.

E cosa si attende questa gente dal Papa?

Che sappia ridare la speranza della fede. C’è un clima di attesa che definirei palpabile, nel senso che la gente qui è animata da un’affezione profonda nei confronti del Papa. Del resto l’appartenenza alla Chiesa ha sempre caratterizzato la vita del popolo. E il popolo ha sempre sentito il successore di Pietro come un punto di riferimento fondamentale, un esempio, una testimonianza. Quindi attende il Papa per un incontro di fede. Certamente non c’è alcuna venatura folkloristica in questa visita anche se, ne sono convinto, certa stampa la metterà così, sotto l’aspetto folkloristico. Il Papa viene per la Chiesa e secondo me viene anche per parlare ai molti uomini di buona volontà. Magari tra loro ci sarà sicuramente anche chi non ha una frequentazione ecclesiale; tuttavia sentono anch’essi che sta per arrivare qualcuno capace di soddisfare il loro desiderio profondo della verità, del bene, della bellezza, della giustizia. Le stime numeriche parlano di oltre ventiduemila persone che si sono prenotate solamente per lo Stadio di Serravalle — non entrerebbe più neppure una spilla — per assistere alla messa del Papa concelebrata da tutti i vescovi dell’Emilia Romagna e di oltre cinquemila giovani a Pennabilli. Impossibile prevedere poi quanti saranno negli altri luoghi e lungo il pur breve tragitto che il Papa compirà in auto.

Cosa si attende dalla visita?

Tutto il bene possibile. Io spero molto che Benedetto XVI guardando al nostro impegno e valutando la nostra testimonianza ci sappia confortare o, come gli ho chiesto esplicitamente, anche correggere se e dove abbiamo sbagliato. Attendono tutti una sua parola. Anche i tanti che si sono allontanati dalla strada maestra e chi quella strada non l’ha mai percorsa.

(©L'Osservatore Romano 18 giugno 2011)


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