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Viaggio apostolico in Giordania e Israele

Ultimo Aggiornamento: 08/07/2009 21:40
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10/05/2009 22:06
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Primo giorno in Terra Santa. Il Papa punta sul dialogo ma senza malintesi

Paolo Rodari

mag 9, 2009 il Riformista

Questa volta la partenza da Fiumicino è andata via liscia.
La breve conferenza stampa che Benedetto XVI ha tenuto ieri prima che il volo Alitalia decollasse per Amman, non ha infatti avuto lo strascico di polemiche come avvenuto in Africa.
Segno che la segreteria di Stato vaticana e la sala stampa della Santa Sede sono state attente, questa volta più che allora, a passare al Pontefice domande ben selezionate a priori.
Le prime parole, non a caso, sono state per l’islam. Normale che così fosse: il primo incontro del Pontefice è stato ieri con il Re Abdullah II: «La mia visita in Giordania - ha detto Benedetto XVI - mi offre la gradita opportunità di esprimere il mio profondo rispetto per la comunità musulmana, e di rendere omaggio al ruolo di guida svolto da Sua Maestà il Re nel promuovere una migliore comprensione delle virtù proclamate dall’islam».
Quello con Abdullah II è un feeling non nuovo. Fu il Re a promuovere il Messaggio di Amman con il quale s’invitava le tre grandi religioni monoteiste - cristianesimo, islam ed ebraismo - al reciproco ascolto - «dialogo trilaterale» l’ha chiamato ieri il Papa usando un termine usato anche dal suo amico rabbino Jacob Neusner -. Uno sforzo gradito e valorizzato oltre il Tevere e l’affabilità con la quale il Papa è stato accolto ieri nella capitale giordana conferma questo stato di cose.
Non solo islam, ovviamente. Il viaggio è destinato a segnare un punto importante nel dialogo con l’ebraismo. Come lo segnerà, se bene o male, dipenderà dall’evolversi delle giornate. Ieri, però, il Papa ha detto una cosa: d’essere convinto che il dialogo con gli ebrei «nonostante i malintesi», faccia «progressi» e che questo «aiuterà la pace e il cammino reciproco». E ancora: «È importante - ha detto - che ebrei e cristiani abbiamo la stessa radice nella Bibbia e gli stessi libri dell’Antico testamento, che sono libri di liberazione: naturalmente dove per duemila anni si è stati distinti, anzi separati, non c’è da meravigliarsi che ci siano malintesi; c’è un cosmo semantico diverso sicché le stesse parole significano cose diverse».
Come a dire: le differenze ci sono. E da queste occorre partire e ripartire sempre. I malintesi anche ci sono: l’affaire Richard Willimson è stato uno degli ultimi. Ma da questi si può ricostruire.
Però, c’è un però. Ed è la questione dei cristiani: Ratzinger ha specificato che il Vaticano incoraggia «i cristiani della Terrasanta e del Medio Oriente a restare nelle loro terre» di cui sono «componente importante», e chiedendo per loro «cose concrete» come «scuole e ospedali».
Un messaggio diretto innanzitutto a Israele, più che al mondo ebraico, ovvero alla necessità che questi faccia dei passi concreti verso il riconoscimento della presenza cristiana nella regione. Verso la conclusione di quegli accordi fondamentali che da più di quindici anni non trovano pace.
Israele ha incassato il colpo. Anche se precedentemente aveva chiesto esplicitamente al Papa di pronunciare una chiara condanna del negazionismo. Il ministro degli Affari religiosi avea scritto a Benedetto XVI qualche giorno fa una lettera in cui esprime la «speranza» che egli «condanni chiaramente i negazionisti dell’Olocausto e i sostenitori dell’antisemitismo, diversi dei quali si dicono fedeli alla sua Chiesa».
In realtà Benedetto XVI ha già fatto quanto Israele chiede.
Nella lettera che un mese fa ha pubblicato di spiegazione della revoca della scomunica ai lefebvriani, ha assicurato la sua stima per gli ebrei, il rigetto delle tesi negazioniste e per ogni forma di antisemitismo.
Evidentemente non basta. Ma è anche vero che, probabilmente, la lettera del ministro degli Affari religiosi è stata più un qualcosa di dovuto all’interno d’un gioco diplomatico.
Benedetto XVI non ha dimenticato il processo di pace. Ieri, sull’aereo, ha assicurato che la Chiesa appoggia «posizioni realmente ragionevoli» per il processo di pace in Medio Oriente.
«Questo abbiamo già fatto e vogliamo fare in futuro», ha detto il Pontefice prima di atterrare in Giordania. Rispondendo a una domanda sul contributo del suo viaggio al processo di pace, alla vigilia dell’incontro dei leader israeliani e palestinesi con il presidente Usa Barack Obama, il Papa ha ricordato che la Chiesa può contribuire a tre livelli: con la preghiera che «apre a Dio e può agire nella storia e può portare alla pace»; con la «formazione delle coscienze» per evitare che siano «ostacolate da interessi particolari»; con la «ragione: non essendo parte politica più facilmente possiamo aiutare a vedere i criteri veri e ciò che serve realmente alla pace».
È il realismo ratzingeriano applicato alla politica estera. Non una parola di troppo, non una parola di meno.
Dopo l’incontro con Abdullah II, quello con i giovani disabili accolti dalla Chiesa Cattolica della Giordania nel Centro Regina Pacis di Amman: «Nelle nostre personali prove cogliamo l’essenza della nostra umanità, diventiamo più umani» ha detto il Papa indossando una kefiah a scacchi rossi regalatagli da due boy scout. Ad accoglierlo c’erano i due principali fautori del suo arrivo in Terra Santa: il patriarca di Gerusalemme Fouad Twal e il suo vicario per la Giordania, mons. Salim Sayegh.

© Copyright Il Riformista , 9 maggio 2009


Papa Ratzi Superstar









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