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I lefebvriani

Ultimo Aggiornamento: 18/02/2013 22:40
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30/01/2009 21:36
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Le sfide (incomprese) di Benedetto XVI

Gianteo Bordero

A sentire i suoi detrattori, revocando la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani Benedetto XVI avrebbe commesso due errori capitali: avrebbe, da un lato, infangato il giorno della memoria della Shoah riammettendo nella Chiesa un negazionista dell'Olocausto come monsignor Williamson e, dall'altro lato, avrebbe calpestato la ricorrenza dei cinquant'anni dell'indizione del Vaticano II da parte di Giovanni XXIII accogliendo nella comunione ecclesiale coloro che furono i contestatori più radicali del Concilio. Come si vede, si tratta di due temi altamente «infiammabili», il primo per la sua valenza storica e simbolica, il secondo per quella ecclesiale. Nell'un caso e nell'altro, però, l'accusa rivolta a Papa Ratzinger è sempre la stessa: riportare la Chiesa cattolica indietro nel tempo, vuoi all'antigiudaismo, vuoi all'antimodernismo. In sostanza: ai «tempi bui» del preconcilio. Lo affermano in maniera chiara tanto alcuni rappresentanti del mondo ebraico quanto alcuni teologi di orientamento progressista.

In realtà, le aspre critiche rivolte a Benedetto XVI nascono da una cattiva interpretazione del suo magistero, che viene ancora catalogato, da ampia parte della pubblicista laica e non solo, come «restauratore». Quello di Ratzinger sarebbe, insomma, un pontificato con lo sguardo tutto rivolto al passato, portatore di una prospettiva che nega il cammino compiuto dagli ultimi Papi nel dialogo con le altre religioni e con il mondo moderno. Un papato di retroguardia, dunque, che avrebbe come scopo principale quello di cancellare più o meno surrettiziamente le «conquiste» rese possibili dal Vaticano II, di soffocare lo «spirito del Concilio» e tutto ciò che esso ha rappresentato in questi ultimi decenni.

Coloro che sostengono questa lettura del pontificato ratzingeriano dimenticano di dire che fu proprio l'attuale Papa uno dei teologi più influenti durante le assise conciliari del 1963-1968. Al seguito del cardinale Frings, Joseph Ratzinger collaborò in maniera attiva all'elaborazione dei principali documenti del Vaticano II, fu considerato tra i più ferventi sostenitori del rinnovamento della Chiesa, attirando su di sé le severe critiche dei settori più «conservatori» dell'episcopato. Egli mai ha rinnegato la sua opera conciliare ed anzi la sua teologia successiva ha sviluppato quelle che erano le intuizioni e le idee originali, certo rimodulandole ma in nessun caso rovesciandole. Già negli ultimi anni del Vaticano II, però, Ratzinger si rese conto che il pericolo maggiore per le sorti stesse del Concilio era rappresentato dalla nascita di una vera e propria corrente ideologica, che leggeva l'evento conciliare come una «rifondazione» ab imis della Chiesa, e che, col furore tipico delle ideologie, spazzava via tutto ciò che non rientrava nei canoni dell'«aggiornamento» e dell'«ammodernamento». In questo modo, secondo lui, la ricchezza contenuta nei documenti prodotti dal Vaticano II sarebbe passata in secondo piano, soppiantata da una moda teologica parziale e settaria, che nulla di buono avrebbe portato al cammino della Chiesa (si veda, a tal proposito, Problemi e risultati del Concilio, Queriniana 1967).

Ratzinger vedeva giusto. Infatti l'ideologia prevalse sulla realtà. Le semplificazioni e gli schematismi ebbero la meglio sulla complessità dei problemi toccati dal Concilio. Tra questi problemi, due in particolare divennero oggetto di una propaganda a senso unico che finì col far perdere di vista la stessa lettera del Vaticano II: il rapporto con le altre religioni e il rinnovamento della liturgia. Per quanto riguarda il primo tema, si affermò l'idea di un dovere, da parte della Chiesa, di addivenire ad un dialogo specificamente religioso con le altre fedi, riconoscendo in ciascuna di elementi di verità sui quali costruire un cammino comune. Per quanto riguarda invece il secondo tema, si posero le premesse per una riforma liturgica che, di fatto, diede adito al pensiero che il rito preconciliare fosse ormai superato dal tempo, come se si trattasse di un vecchio mobile da mandare in soffitta. Nel primo caso, la conseguenza fu che si smarrì la consapevolezza dell'identità cattolica, della verità del cattolicesimo in quanto tale, incommensurabile con le altre religioni. Nel secondo caso, il risultato fu la banalizzazione della liturgia, la volgarizzazione non solo e non tanto della sua lingua, quanto della sua posizione all'interno dell'esperienza cristiana.

Non deve stupire, dunque, se oggi, divenuto Papa, Joseph Ratzinger tenti, proprio su questi aspetti, di fare chiarezza, rimediando non a errori del Vaticano II, quanto agli esiti negativi delle mode teologiche che hanno mitizzato il Concilio, trasformandolo in una sorta di entità metafisica sciolta dai suoi legami con la realtà concreta e con la storia.

Sul primo punto (i rapporti con le altre religioni) egli già parlò chiaro da cardinale, con la Dominus Jesus del 2000, in cui ribadiva, da prefetto dell'ex Sant'Uffizio, l'unicità del cristianesimo, il suo essere «vera religione», l'originalità della sua «pretesa». Da Papa, poi, ha fatto emanare dalla Congregazione per la Dottrina della Fede le Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa, dove si ribadisce che la Chiesa cattolica «è l'unica Chiesa di Cristo». Sul secondo punto (la liturgia), come noto, con il motu proprio Summorum pontificum ha precisato che il rito antico non è mai stato abrogato e che esso rappresenta la forma straordinaria dell'unica liturgia cattolica.

Ma è proprio attorno a questi temi che sono anche fioccate, in questi anni di pontificato ratzingeriano, le contestazioni più aspre a Papa Benedetto: sulla questione dei rapporti con le altre religioni monoteistiche come non ricordare il clamore suscitato dal discorso di Ratisbona, le accuse di intolleranza, la «scomunica» dell'intellighenzia laicista e politicamente corretta? E sul nodo della «liberalizzazione» del rito preconciliare come dimenticare la levata di scudi di molti tra gli stessi sacerdoti e vescovi, con forme di dissenso pubblico quale il rifiuto di soddisfare la richiesta di gruppi di fedeli che chiedevano la messa di San Pio V? Oggi i due aspetti sembrano saldarsi dopo la decisione di Benedetto XVI di revocare la scomunica ai vescovi lefebvriani, non soltanto per le dichiarazioni negazioniste di monsignor Williamson e per la scelta di riammettere nella Chiesa i seguaci del tradizionalista scismatico, ma anche e soprattutto perché la critica di Lefebvre al Vaticano II riguardava proprio, in special modo, i rapporti con il popolo ebraico (la dichiarazione Nostra Aetate) e la liturgia.

Durante l'udienza generale di ieri, il Papa è intervenuto su questi argomenti: per quanto riguarda le relazioni con gli ebrei, ha rinnovato «con affetto la mia piena e indiscutibile solidarietà con i nostri Fratelli destinatari della Prima Alleanza», auspicando che «la Shoah sia per tutti monito contro l'oblio, contro la negazione o il riduzionismo», confermando in questo modo sia le sue riflessioni teologiche sul popolo ebraico contenute in molti suoi libri, sia le parole pronunciate nel suo viaggio ad Auschwitz nel 2006.
Sulla revoca della scomunica ai lefebvriani, invece, ha ricordato che «in occasione della solenne inaugurazione del mio pontificato dicevo che è "esplicito" compito del Pastore "la chiamata all'unità"... Proprio in adempimento di questo servizio all'unità, che qualifica in modo specifico il mio ministero di successore di Pietro, ho deciso giorni fa di concedere la remissione della scomunica in cui erano incorsi i quattro vescovi ordinati nel 1988 da monsignor Lefebvre senza mandato pontificio». E ha concluso auspicando che al suo gesto «faccia seguito il sollecito impegno da parte loro di compiere gli ulteriori passi necessari per realizzare la piena comunione con la Chiesa, testimoniando così vera fedeltà e vero riconoscimento del magistero e dell'autorità del Papa e del Concilio Vaticano II».

Le parole di Benedetto XVI, che peraltro giungono dopo quelle del superiore generale dei lefebvriani, monsignor Fellay («le affermazioni di monsignor Williamson non riflettono in nessun caso la posizione della nostra Fraternità»), sono state ben accolte dal mondo ebraico. Il direttore generale del rabbinato d'Israele, Oded Wiener, le ha definite «un grande passo avanti, molto importante per noi e per il mondo intero»; e il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, le ha accolte come «necessarie e benvenute: contribuiscono a chiarire molti equivoci sia sul negazionismo sia sul rispetto del Concilio». Il caso diplomatico, quindi, pare avviarsi alla conclusione.

Quella che rimane aperta è invece la sfida del pontificato ratzingeriano, coraggiosamente determinato a sanare quelle ferite che l'ideologia del Concilio come «discontinuità e rottura» ha aperto, tanto nella Chiesa quanto nell'opinione pubblica mondiale.

Come si vede dai fatti di questi giorni, si tratta di una sfida difficile, che deve sciogliere ancora tante incrostazioni che hanno impedito e impediscono tuttora una corretta comprensione della Chiesa, della sua storia e del suo annuncio.

© Copyright Ragionpolitica, 29 gennaio 2009


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NON FERMATE COLUI CHE E' STATO SCELTO PER RISANARE LE DECENNALI FERITE INFERTE ALLA SANTA MADRE CHIESA!!!!

W BXVI!!!!!
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Papa Ratzi Superstar









"CON IL CUORE SPEZZATO... SEMPRE CON TE!"
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