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Discorsi, omelie, udienze, angelus e altri documenti

Ultimo Aggiornamento: 02/03/2013 17:43
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26/01/2013 04:01
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Vespri per l'unità dei cristiani 25.01.2013

OMELIA DEL SANTO PADRE


Cari fratelli e sorelle!

E’ sempre una gioia e una grazia speciale ritrovarsi insieme, intorno alla tomba dell’apostolo Paolo, per concludere la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Saluto con affetto i Cardinali presenti, in primo luogo il Cardinale Harvey, Arciprete di questa Basilica, e con lui l’Abate e la Comunità dei monaci che ci ospitano. Saluto il Cardinale Koch, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, e tutti i collaboratori del Dicastero.
Rivolgo i miei cordiali e fraterni saluti a Sua Eminenza il Metropolita Gennadios, rappresentante del Patriarcato ecumenico, al Reverendo Canonico Richardson, rappresentante personale a Roma dell’Arcivescovo di Canterbury, e a tutti i rappresentanti delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali, qui convenuti questa sera. Inoltre, mi è particolarmente gradito salutare i membri della Commissione mista per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali, ai quali auguro un fruttuoso lavoro per la sessione plenaria che si sta svolgendo in questi giorni a Roma, come pure gli studenti dell’Ecumenical Institute of Bossey, in visita a Roma per approfondire la loro conoscenza della Chiesa cattolica, e i giovani ortodossi e ortodossi orientali che qui studiano. Saluto infine tutti i presenti convenuti a pregare per l’unità tra tutti i discepoli di Cristo.
Questa celebrazione si inserisce nel contesto dell’Anno della fede, iniziato l’11 ottobre scorso, cinquantenario dell’apertura del Concilio Vaticano II.
La comunione nella stessa fede è la base per l’ecumenismo. L’unità, infatti, è donata da Dio come inseparabile dalla fede; lo esprime in maniera efficace san Paolo: «Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,4-6). La professione della fede battesimale in Dio, Padre e Creatore, che si è rivelato nel Figlio Gesù Cristo, effondendo lo Spirito che vivifica e santifica, già unisce i cristiani. Senza la fede - che è primariamente dono di Dio, ma anche risposta dell’uomo - tutto il movimento ecumenico si ridurrebbe ad una forma di “contratto” cui aderire per un interesse comune. Il Concilio Vaticano II ricorda che i cristiani «con quanta più stretta comunione saranno uniti col Padre, col Verbo e con lo Spirito Santo, con tanta più intima e facile azione potranno accrescere la mutua fraternità» (Decr. Unitatis redintegratio, 7). Le questioni dottrinali che ancora ci dividono non devono essere trascurate o minimizzate. Esse vanno piuttosto affrontate con coraggio, in uno spirito di fraternità e di rispetto reciproco. Il dialogo, quando riflette la priorità della fede, permette di aprirsi all’azione di Dio con la ferma fiducia che da soli non possiamo costruire l’unità, ma è lo Spirito Santo che ci guida verso la piena comunione, e fa cogliere la ricchezza spirituale presente nelle diverse Chiese e Comunità ecclesiali.
Nella società attuale sembra che il messaggio cristiano incida sempre meno nella vita personale e comunitaria; e questo rappresenta una sfida per tutte le Chiese e le Comunità ecclesiali. L’unità è in se stessa un mezzo privilegiato, quasi un presupposto per annunciare in modo sempre più credibile la fede a coloro che non conoscono ancora il Salvatore, o che, pur avendo ricevuto l’annuncio del Vangelo, hanno quasi dimenticato questo dono prezioso. Lo scandalo della divisione che intaccava l’attività missionaria fu l’impulso che diede inizio al movimento ecumenico quale oggi lo conosciamo. La piena e visibile comunione tra i cristiani va intesa, infatti, come una caratteristica fondamentale per una testimonianza ancora più chiara. Mentre siamo in cammino verso la piena unità, è necessario allora perseguire una collaborazione concreta tra i discepoli di Cristo per la causa della trasmissione della fede al mondo contemporaneo. Oggi c’è grande bisogno di riconciliazione, di dialogo e di comprensione reciproca, in una prospettiva non moralistica, ma proprio in nome dell’autenticità cristiana per una presenza più incisiva nella realtà del nostro tempo.
La vera fede in Dio poi è inseparabile dalla santità personale, come anche dalla ricerca della giustizia. Nella Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che oggi si conclude, il tema offerto alla nostra meditazione era: «Quel che il Signore esige da noi», ispirato alle parole del profeta Michea (cfr 6, 6-8). Esso è stato proposto dallo Student Christian Movement in India, in collaborazione con la All India Catholic University Federation ed il National Council of Churches in India, che hanno preparato anche i sussidi per la riflessione e la preghiera. A quanti hanno collaborato desidero esprimere la mia viva gratitudine e, con grande affetto, assicuro la mia preghiera a tutti i cristiani dell’India, che a volte sono chiamati a rendere testimonianza della loro fede in condizioni difficili. «Camminare umilmente con Dio» significa anzitutto camminare nella radicalità della fede, come Abramo, fidandosi di Dio, anzi riponendo in Lui ogni nostra speranza e aspirazione, ma significa anche camminare oltre le barriere, oltre l’odio, il razzismo e la discriminazione sociale e religiosa che dividono e danneggiano l’intera società. Come afferma san Paolo, i cristiani devono offrire per primi un luminoso esempio nella ricerca della riconciliazione e della comunione in Cristo, che superi ogni tipo di divisione. Nella Lettera ai Galati, l’Apostolo delle genti afferma: «Tutti voi siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (3,27-28).
La nostra ricerca di unità nella verità e nell’amore, infine, non deve mai perdere di vista la percezione che l’unità dei cristiani è opera e dono dello Spirito Santo e va ben oltre i nostri sforzi. Pertanto, l’ecumenismo spirituale, specialmente la preghiera, è il cuore dell’impegno ecumenico (cfr Decr. Unitatis redintegratio, 8). Tuttavia, l’ecumenismo non darà frutti duraturi se non sarà accompagnato da gesti concreti di conversione che muovano le coscienze e favoriscano la guarigione dei ricordi e dei rapporti. Come afferma il Decreto sull’ecumenismo del Concilio Vaticano II, «non esiste un vero ecumenismo senza interiore conversione» (n. 7). Un’autentica conversione, come quella suggerita dal profeta Michea e di cui l’apostolo Paolo è un significativo esempio, ci porterà più vicino a Dio, al centro della nostra vita, in modo da avvicinarci maggiormente anche gli uni agli altri. È questo un elemento fondamentale del nostro impegno ecumenico. Il rinnovamento della vita interiore del nostro cuore e della nostra mente, che si riflette nella vita quotidiana, è cruciale in ogni dialogo e cammino di riconciliazione, facendo dell’ecumenismo un impegno reciproco di comprensione, rispetto e amore, «affinché il mondo creda» (Gv 17,21).
Cari fratelli e sorelle, invochiamo con fiducia la Vergine Maria, modello impareggiabile di evangelizzazione, affinché la Chiesa, «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Cost. Lumen gentium, 1), annunci con franchezza, anche nel nostro tempo, Cristo Salvatore. Amen.

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"CON IL CUORE SPEZZATO... SEMPRE CON TE!"
27/01/2013 00:39
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UDIENZA AL TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA IN OCCASIONE DELL’INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO, 26.01.2013

Alle ore 12 di questa mattina, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza i Prelati Uditori, gli Officiali e gli Avvocati del Tribunale della Rota Romana in occasione della solenne inaugurazione dell’Anno giudiziario.
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa rivolge loro:

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Cari Componenti del Tribunale della Rota Romana!

È per me motivo di gioia ritrovarvi in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Ringrazio il vostro Decano, Mons. Pio Vito Pinto, per i sentimenti espressi a nome di tutti voi e che contraccambio di cuore. Questo incontro mi offre l’opportunità di riaffermare la mia stima e considerazione per l’alto servizio che prestate al Successore di Pietro ed alla Chiesa intera, come pure di spronarvi ad un impegno sempre maggiore in un ambito certamente arduo, ma prezioso per la salvezza delle anime. Il principio che la salus animarum è la suprema legge nella Chiesa (cfr CIC, can. 1752) deve essere tenuto ben presente e trovare, ogni giorno, nel vostro lavoro, la dovuta e rigorosa risposta.

1. Nel contesto dell’Anno della fede, vorrei soffermarmi, in modo particolare, su alcuni aspetti del rapporto tra fede e matrimonio, osservando come l’attuale crisi di fede, che interessa varie parti del mondo, porti con sé una crisi della società coniugale, con tutto il carico di sofferenza e di disagio che questo comporta anche per i figli. Possiamo prendere come punto di partenza la comune radice linguistica che, in latino, hanno i termini fides e foedus, vocabolo, quest’ultimo, col quale il Codice di Diritto Canonico designa la realtà naturale del matrimonio, come patto irrevocabile tra uomo e donna (cfr can. 1055 § 1). Il reciproco affidarsi, infatti, è la base irrinunciabile di qualunque patto o alleanza.
Sul piano teologico, la relazione tra fede e matrimonio assume un significato ancora più profondo. Il vincolo sponsale, infatti, benché realtà naturale, tra i battezzati è stato elevato da Cristo alla dignità di sacramento (cfr ibidem).
Il patto indissolubile tra uomo e donna, non richiede, ai fini della sacramentalità, la fede personale dei nubendi; ciò che si richiede, come condizione minima necessaria, è l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa. Ma se è importante non confondere il problema dell’intenzione con quello della fede personale dei contraenti, non è tuttavia possibile separarli totalmente.
Come faceva notare la Commissione Teologica Internazionale in un Documento del 1977, «nel caso in cui non si avverta alcuna traccia della fede in quanto tale (nel senso del termine "credenza", disposizione a credere), né alcun desiderio della grazia e della salvezza, si pone il problema di sapere, in realtà, se l’intenzione generale e veramente sacramentale di cui abbiamo parlato, è presente o no, e se il matrimonio è contratto validamente o no» (La dottrina cattolica sul sacramento del matrimonio [1977], 2.3: Documenti 1969-2004, vol. 13, Bologna 2006, p. 145). Il beato Giovanni Paolo II, rivolgendosi a codesto Tribunale, dieci anni fa, precisò, tuttavia, che «un atteggiamento dei nubendi che non tenga conto della dimensione soprannaturale nel matrimonio può renderlo nullo solo se ne intacca la validità sul piano naturale nel quale è posto lo stesso segno sacramentale» (ibidem). Circa tale problematica, soprattutto nel contesto attuale, occorrerà promuovere ulteriori riflessioni.

2. La cultura contemporanea, contrassegnata da un accentuato soggettivismo e relativismo etico e religioso, pone la persona e la famiglia di fronte a pressanti sfide. In primo luogo, di fronte alla questione circa la capacità stessa dell’essere umano di legarsi, e se un legame che duri per tutta la vita sia veramente possibile e corrisponda alla natura dell’uomo, o, piuttosto, non sia, invece, in contrasto con la sua libertà e con la sua autorealizzazione. Fa parte di una mentalità diffusa, infatti, pensare che la persona diventi se stessa rimanendo "autonoma" ed entrando in contatto con l’altro solo mediante relazioni che si possono interrompere in ogni momento (Cfr Allocuzione alla Curia Romana [21 dicembre 2012]: L’Osservatore Romano, 22 dicembre 2012, p. 4).
A nessuno sfugge come sulla scelta dell’essere umano di legarsi con un vincolo che duri tutta la vita influisca la prospettiva di base di ciascuno, a seconda cioè che sia ancorata a un piano meramente umano, oppure si schiuda alla luce della fede nel Signore. Solo aprendosi alla verità di Dio, infatti, è possibile comprendere, e realizzare nella concretezza della vita anche coniugale e familiare, la verità dell’uomo quale suo figlio, rigenerato dal Battesimo. «Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla» (Gv 15, 5): così insegnava Gesù ai suoi discepoli, ricordando loro la sostanziale incapacità dell’essere umano di compiere da solo ciò che è necessario al conseguimento del vero bene. Il rifiuto della proposta divina, in effetti, conduce ad uno squilibrio profondo in tutte le relazioni umane (Cfr Discorso alla Commissione Teologica Internazionale [7 dicembre 2012]: L’Osservatore Romano, 8 dicembre 2012, p. 7), inclusa quella matrimoniale, e facilita un’errata comprensione della libertà e dell’auto realizzazione, che, unita alla fuga davanti alla paziente sopportazione della sofferenza, condanna l’uomo a chiudersi nel suo egoismo ed egocentrismo. Al contrario, l’accoglienza della fede rende l’uomo capace del dono di sé, nel quale soltanto, «aprendosi all’altro, agli altri, ai figli, alla famiglia... lasciandosi plasmare nella sofferenza, egli scopre l’ampiezza dell’essere persona umana» (Discorso alla Curia Romana [21 dicembre 2012]: L’Osservatore Romano, 22 dicembre 2012, p. 4).
La fede in Dio, sostenuta dalla grazia divina, è dunque un elemento molto importante per vivere la mutua dedizione e la fedeltà coniugale (Catechesi all’Udienza generale [8 giugno 2011]: Insegnamenti VII/I [2011], p. 792-793). Non s’intende con ciò affermare che la fedeltà, come le altre proprietà, non siano possibili nel matrimonio naturale, contratto tra non battezzati. Esso, infatti, non è privo dei beni che «provengono da Dio Creatore e si inseriscono in modo incoativo nell’amore sponsale che unisce Cristo e la Chiesa» (Commissione Teologica Internazionale, La dottrina cattolica sul sacramento del matrimonio [1977], 3.4: Documenti 1969-2004, vol. 13, Bologna 2006, p. 147).
Certamente, però, la chiusura a Dio o il rifiuto della dimensione sacra dell’unione coniugale e del suo valore nell’ordine della grazia rende ardua l’incarnazione concreta del modello altissimo di matrimonio concepito dalla Chiesa secondo il disegno di Dio, potendo giungere a minare la validità stessa del patto qualora, come assume la consolidata giurisprudenza di codesto Tribunale, si traduca in un rifiuto di principio dello stesso obbligo coniugale di fedeltà ovvero degli altri elementi o proprietà essenziali del matrimonio.
Tertulliano, nella celebre Lettera alla moglie, parlando della vita coniugale contrassegnata dalla fede, scrive che i coniugi cristiani «sono veramente due in una sola carne, e dove la carne è unica, unico è lo spirito. Insieme pregano, insieme si prostrano e insieme digiunano; l’uno ammaestra l’altro, l’uno onora l’altro, l’uno sostiene l’altro» (Ad uxorem libri duo, II, IX: PL 1, 1415B-1417A). In termini simili si esprime san Clemente Alessandrino: «Se infatti per entrambi uno solo è Dio, allora per entrambi uno solo è il Pedagogo - Cristo -, una è la Chiesa, una la sapienza, uno il pudore, in comune abbiamo il nutrimento, il matrimonio ci unisce … E se comune è la vita, comune è anche la grazia, la salvezza, la virtù, la morale» (Pædagogus, I, IV, 10.1: PG 8, 259B). I Santi che hanno vissuto l’unione matrimoniale e familiare nella prospettiva cristiana, sono riusciti a superare anche le situazioni più avverse, conseguendo talora la santificazione del coniuge e dei figli con un amore sempre rafforzato da una solida fiducia in Dio, da una sincera pietà religiosa e da un’intensa vita sacramentale. Proprio queste esperienze, contrassegnate dalla fede, fanno comprendere come, ancor oggi, sia prezioso il sacrificio offerto dal coniuge abbandonato o che abbia subito il divorzio, se – riconoscendo l’indissolubilità del vincolo matrimoniale valido – riesce a non lasciarsi «coinvolgere in una nuova unione ... In tal caso il suo esempio di fedeltà e di coerenza cristiana assume un particolare valore di testimonianza di fronte al mondo e alla Chiesa» (Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio [22 novembre 1981], 83: AAS 74 [1982], p. 184).

3. Vorrei soffermarmi, infine, brevemente, sul bonum coniugum. La fede è importante nella realizzazione dell’autentico bene coniugale, che consiste semplicemente nel volere sempre e comunque il bene dell’altro, in funzione di un vero e indissolubile consortium vitae. In verità, nel proposito degli sposi cristiani di vivere una vera communio coniugalis vi è un dinamismo proprio della fede, per cui la confessio, la risposta personale sincera all’annuncio salvifico, coinvolge il credente nel moto d’amore di Dio. "Confessio" e "caritas" sono «i due modi in cui Dio ci coinvolge, ci fa agire con Lui, in Lui e per l’umanità, per la sua creatura ... La "confessio" non è una cosa astratta, è "caritas", è amore. Solo così è realmente il riflesso della verità divina, che come verità è inseparabilmente anche amore» (Meditazione alla prima Congregazione Generale del la XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi [8 ottobre 2012]: L’Osservatore Romano, 10 ottobre 2012, p. 7). Soltanto attraverso la fiamma della carità, la presenza del Vangelo non è più solo parola, ma realtà vissuta. In altri termini, se è vero che «la fede senza la carità non porta frutto e la carità senza la fede sarebbe un sentimento in balia costante del dubbio», si deve concludere che «fede e carità si esigono a vicenda, così che l’una permette all’altra di attuare il suo cammino» (Lett. ap. Porta fidei [11 ottobre 2012], 14: L’Osservatore Romano, 17-18 ottobre 2011, p.

4. Se ciò vale nell’ampio contesto della vita comunitaria, deve valere ancora di più nell’unione matrimoniale. È in essa, di fatto, che la fede fa crescere e fruttificare l’amore degli sposi, dando spazio alla presenza di Dio Trinità e rendendo la stessa vita coniugale, così vissuta, «lieta novella» davanti al mondo.
Riconosco le difficoltà, da un punto di vista giuridico e pratico, di enucleare l’elemento essenziale del bonum coniugum, inteso finora prevalentemente in relazione alle ipotesi di incapacità (cfr CIC, can. 1095). Il bonum coniugum assume rilevanza anche nell’ambito della simulazione del consenso. Certamente, nei casi sottoposti al vostro giudizio, sarà l’indagine in facto ad accertare l’eventuale fondatezza di questo capo di nullità, prevalente o coesistente con un altro capo dei tre «beni» agostiniani, la procreatività, l’esclusività e la perpetuità. Non si deve quindi prescindere dalla considerazione che possano darsi dei casi nei quali, proprio per l’assenza di fede, il bene dei coniugi risulti compromesso e cioè escluso dal consenso stesso; ad esempio, nell’ipotesi di sovvertimento da parte di uno di essi, a causa di un’errata concezione del vincolo nuziale, del principio di parità, oppure nell’ipotesi di rifiuto dell’unione duale che contraddistingue il vincolo matrimoniale, in rapporto con la possibile coesistente esclusione della fedeltà e dell’uso della copula adempiuta humano modo.
Con le presenti considerazioni, non intendo certamente suggerire alcun facile automatismo tra carenza di fede e invalidità dell’unione matrimoniale, ma piuttosto evidenziare come tale carenza possa, benché non necessariamente, ferire anche i beni del matrimonio, dal momento che il riferimento all’ordine naturale voluto da Dio è inerente al patto coniugale (cfr Gen 2,24).
Cari Fratelli, invoco l’aiuto di Dio su di voi e su quanti nella Chiesa si adoperano per la salvaguardia della verità e della giustizia riguardo al vincolo sacro del matrimonio e, per ciò stesso, della famiglia cristiana. Vi affido alla protezione di Maria Santissima, Madre di Cristo, e di san Giuseppe, Custode della Famiglia di Nazaret, silenzioso e obbediente esecutore del piano divino della salvezza, mentre imparto volentieri a voi e ai vostri cari la Benedizione Apostolica.

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LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 27.01.2013

Alle ore 12 di oggi il Santo Padre Benedetto XVI si affaccia alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare l’Angelus con i fedeli ed i pellegrini convenuti in Piazza San Pietro.
Presenti oggi, tra gli altri, i Ragazzi dell’Azione Cattolica della diocesi di Roma che concludono con la "Carovana della Pace" il mese di gennaio da loro tradizionalmente dedicato al tema della pace. Al termine della preghiera dell’Angelus un bambino e una bambina appartenenti a due diverse parrocchie romane, invitati nell’appartamento pontificio, leggono un messaggio a nome dell’Acr di Roma e liberano dalla finestra due colombe, simbolo di pace.
Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:

PRIMA DELL’ANGELUS

Cari fratelli e sorelle!

La liturgia odierna ci presenta, uniti insieme, due brani distinti del Vangelo di Luca. Il primo (1,1-4) è il prologo, indirizzato ad un certo «Teofilo»; poiché questo nome in greco significa «amico di Dio», possiamo vedere in lui ogni credente che si apre a Dio e vuole conoscere il Vangelo. Il secondo brano (4,14-21), invece, ci presenta Gesù che «con la potenza dello Spirito» si reca di sabato nella sinagoga di Nazaret.
Da buon osservante, il Signore non si sottrae al ritmo liturgico settimanale e si unisce all’assemblea dei suoi compaesani nella preghiera e nell’ascolto delle Scritture. Il rito prevede la lettura di un testo della Torah o dei Profeti, seguita da un commento. Quel giorno Gesù si alzò a leggere e trovò un passo del profeta Isaia che inizia così: «Lo Spirito del Signore Dio è su di me, / perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; / mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri» (61,1-2). Commenta Origene: «Non è un caso che egli abbia aperto il rotolo e trovato il capitolo della lettura che profetizza su di lui, ma anche questo fu opera della provvidenza di Dio» (Omelie sul Vangelo di Luca, 32, 3). Gesù infatti, terminata la lettura, in un silenzio carico di attenzione, disse: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete [ora] ascoltato» (Lc 4,21). San Cirillo d’Alessandria afferma che l’«oggi», posto tra la prima e l’ultima venuta di Cristo, è legato alla capacità del credente di ascoltare e ravvedersi (cfr PG 69, 1241). Ma, in un senso ancora più radicale, è Gesù stesso «l’oggi» della salvezza nella storia, perché porta a compimento la pienezza della redenzione. Il termine «oggi», molto caro a san Luca (cfr 19,9; 23,43), ci riporta al titolo cristologico preferito dallo stesso Evangelista, cioè «salvatore» (sōtēr). Già nei racconti dell’infanzia, esso è presentato nelle parole dell’angelo ai pastori: «Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, Cristo Signore» (Lc 2,11).
Cari amici, questo brano interpella «oggi» anche noi. Anzitutto ci fa pensare al nostro modo di vivere la domenica: giorno del riposo e della famiglia, ma prima ancora giorno da dedicare al Signore, partecipando all’Eucaristia, nella quale ci nutriamo del Corpo e Sangue di Cristo e della sua Parola di vita. In secondo luogo, nel nostro tempo dispersivo e distratto, questo Vangelo ci invita ad interrogarci sulla nostra capacità di ascolto. Prima di poter parlare di Dio e con Dio, occorre ascoltarlo, e la liturgia della Chiesa è la "scuola" di questo ascolto del Signore che ci parla. Infine, ci dice che ogni momento può divenire un «oggi» propizio per la nostra conversione.
Ogni giorno (kathēmeran) può diventare l’oggi salvifico, perché la salvezza è storia che continua per la Chiesa e per ciascun discepolo di Cristo. Questo è il senso cristiano del «carpe diem»: cogli l’oggi in cui Dio ti chiama per donarti la salvezza!
La Vergine Maria sia sempre il nostro modello e la nostra guida nel saper riconoscere e accogliere, ogni giorno della nostra vita, la presenza di Dio, Salvatore nostro e di tutta l’umanità.

DOPO L’ANGELUS

Cari fratelli e sorelle,

ricorre oggi la "Giornata della Memoria" in ricordo dell’Olocausto delle vittime del nazismo. La memoria di questa immane tragedia, che colpì così duramente soprattutto il popolo ebraico, deve rappresentare per tutti un monito costante affinché non si ripetano gli orrori del passato, si superi ogni forma di odio e di razzismo e si promuovano il rispetto e la dignità della persona umana.

Si celebra oggi anche la sessantesima Giornata mondiale dei malati di lebbra. Esprimo la mia vicinanza alle persone che soffrono per questo male e incoraggio i ricercatori, gli operatori sanitari e i volontari, in particolare quanti fanno parte di organizzazioni cattoliche e dell’Associazione Amici di Raoul Follereau. Invoco per tutti il sostegno spirituale di san Damiano de Veuster e di santa Marianna Cope, che hanno dato la vita per i malati di lebbra.

In questa domenica ricorre anche una speciale Giornata di intercessione per la pace in Terra Santa. Ringrazio quanti la promuovono in molte parti del mondo e saluto in particolare quelli qui presenti.

Aujourd’hui comme hier, chers pèlerins francophones, le Seigneur nous invite à l’écouter en devenant plus familier de l’Écriture Sainte. Puissions-nous trouver dans la Parole de Dieu la lumière pour éclairer nos choix et fortifier notre engagement à vivre en chrétien ! Prenons le temps de lire et de méditer l’Évangile où Jésus parle et agit dans des situations semblables à celles que nous connaissons aujourd’hui. Que son enseignement et sa manière d’être, libre et fidèle à sa mission, nous interpelle et nous encourage ! Bon dimanche à tous !

I greet all the English-speaking visitors present at this Angelus prayer. In today’s Gospel Jesus fulfils Isaiah’s prophecy in his own person, as he proclaims new sight to the blind and freedom to captives. In this Year of Faith, especially through the Sacraments, may we deepen our confidence in Christ and embrace his grace which sets us free. May God bless you and your loved ones!

Sehr herzlich grüße ich alle Pilger und Besucher deutscher Sprache. Im heutigen Evangelium hören wir vom ersten öffentlichen Auftreten Jesu in der Synagoge seiner Heimatstadt Nazareth. Jesus selbst ist die gute Nachricht; er offenbart den Menschen den Plan Gottes, das große Vorhaben des Schöpfers mit dieser Welt, alles in Christus zu erneuern. Jesus stiftet Frieden und Versöhnung. Durch ihn kann die ganze Menschheitsfamilie immer mehr eins werden. Dafür will er uns begeistern und dafür wollen wir nicht müde werden, unser Herz zu öffnen und unser persönliches Lebensprogramm auszurichten. Der Herr schenke euch für alles, was ihr in diesen Tagen vorhabt, seinen Schutz und reichen Segen.

Saludo con afecto a los peregrinos de lengua española, en particular a los fieles de la parroquia de la Epifanía del Señor, de Valencia, así como a los alumnos del Instituto Meléndez Valdés, de Villafranca de los Barros, y Pedro Mercedes, de Cuenca. En el evangelio de este domingo resuena la llamada de Jesús a convertirnos y a creer, porque está cerca el Reino de Dios. También este Año de la fe, que estamos celebrando, es una invitación a una profunda conversión al Señor, único Salvador del mundo. Que la intercesión de la Virgen María nos conceda redescubrir la alegría de la fe y el gozo de transmitirla a los demás. Feliz domingo.

Pozdrawiam Polaków. Dziś jednoczę się z Kościołem w Polsce w modlitwie dziękczynienia za życie i posługę zmarłego Kardynała Prymasa Józefa Glempa. Niech Pan wynagrodzi jego pasterski trud w swojej chwale! Wszystkim z serca błogosławię.

[Saluto i polacchi. Oggi mi unisco alla Chiesa in Polonia nella preghiera di ringraziamento per la vita e per il ministero del defunto Cardinale Primate JózefGlemp. Il Signore ricompensi il suo impegno pastorale nella sua gloria! A tutti imparto di cuore la mia benedizione.]

Saluto con affetto i pellegrini venuti dall’Isola di Malta, e tutti quelli di lingua italiana,tra cui i fedeli della Diocesi di Castellaneta. In modo speciale saluto i bambini e i ragazzi dell’Azione Cattolica Ragazzi di Roma. Benvenuti! Due di voi, con i responsabili diocesani, sono qui accanto a me, vedete! Cari ragazzi, la vostra "Carovana della Pace" è una bella testimonianza! Sia segno anche del vostro impegno quotidiano per costruire la pace là dove vivete. Ascoltiamo ora il vostro breve messaggio.

[lettura del messaggio]

Grazie! Ed ora liberiamo le colombe, simbolo dello Spirito di Dio, che dona pace a quanti accolgono il suo amore. Cerchiamo di liberare queste colombe!

Allora, è stato un successo! Buona domenica a voi tutti, buona settimana. Grazie!

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L’UDIENZA GENERALE, 30.01.2013

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 nell’Aula Paolo VI dove il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli provenienti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana il Papa ha continuato il ciclo di catechesi dedicato all’Anno della fede.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

L'Anno della fede. Io credo in Dio: il Padre onnipotente

Cari fratelli e sorelle,

nella catechesi di mercoledì scorso ci siamo soffermati sulle parole iniziali del Credo: “Io credo in Dio”. Ma la professione di fede specifica questa affermazione: Dio è il Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra. Vorrei dunque riflettere ora con voi sulla prima, fondamentale definizione di Dio che il Credo ci presenta: Egli è Padre.
Non è sempre facile oggi parlare di paternità. Soprattutto nel mondo occidentale, le famiglie disgregate, gli impegni di lavoro sempre più assorbenti, le preoccupazioni e spesso la fatica di far quadrare i bilanci familiari, l’invasione distraente dei mass media all’interno del vivere quotidiano sono alcuni tra i molti fattori che possono impedire un sereno e costruttivo rapporto tra padri e figli. La comunicazione si fa a volte difficile, la fiducia viene meno e il rapporto con la figura paterna può diventare problematico; e problematico diventa così anche immaginare Dio come un padre, non avendo modelli adeguati di riferimento. Per chi ha fatto esperienza di un padre troppo autoritario ed inflessibile, o indifferente e poco affettuoso, o addirittura assente, non è facile pensare con serenità a Dio come Padre e abbandonarsi a Lui con fiducia.
Ma la rivelazione biblica aiuta a superare queste difficoltà parlandoci di un Dio che ci mostra che cosa significhi veramente essere “padre”; ed è soprattutto il Vangelo che ci rivela questo volto di Dio come Padre che ama fino al dono del proprio Figlio per la salvezza dell’umanità. Il riferimento alla figura paterna aiuta dunque a comprendere qualcosa dell’amore di Dio che però rimane infinitamente più grande, più fedele, più totale di quello di qualsiasi uomo. «Chi di voi, – dice Gesù per mostrare ai discepoli il volto del Padre – al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono» (Mt 7,9-11; cfr Lc 11,11-13). Dio ci è Padre perché ci ha benedetti e scelti prima della creazione del mondo (cfr Ef 1,3-6), ci ha resi realmente suoi figli in Gesù (cfr 1Gv 3,1). E, come Padre, Dio accompagna con amore la nostra esistenza, donandoci la sua Parola, il suo insegnamento, la sua grazia, il suo Spirito.
Egli - come rivela Gesù - è il Padre che nutre gli uccelli del cielo senza che essi debbano seminare e mietere, e riveste di colori meravigliosi i fiori dei campi, con vesti più belle di quelle del re Salomone (cfr Mt 6,26-32; Lc 12,24-28); e noi – aggiunge Gesù - valiamo ben più dei fiori e degli uccelli del cielo! E se Egli è così buono da far «sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e … piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45), potremo sempre, senza paura e con totale fiducia, affidarci al suo perdono di Padre quando sbagliamo strada. Dio è un Padre buono che accoglie e abbraccia il figlio perduto e pentito (cfr Lc 15,11ss), dona gratuitamente a coloro che chiedono (cfr Mt 18,19; Mc 11,24; Gv 16,23) e offre il pane del cielo e l’acqua viva che fa vivere in eterno (cfr Gv 6,32.51.58).
Perciò l’orante del Salmo 27, circondato dai nemici, assediato da malvagi e calunniatori, mentre cerca aiuto dal Signore e lo invoca, può dare la sua testimonianza piena di fede affermando: «Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto» (v. 10). Dio è un Padre che non abbandona mai i suoi figli, un Padre amorevole che sorregge, aiuta, accoglie, perdona, salva, con una fedeltà che sorpassa immensamente quella degli uomini, per aprirsi a dimensioni di eternità. «Perché il suo amore è per sempre», come continua a ripetere in modo litanico, ad ogni versetto, il Salmo 136 ripercorrendo la storia della salvezza. L’amore di Dio Padre non viene mai meno, non si stanca di noi; è amore che dona fino all’estremo, fino a sacrificio del Figlio. La fede ci dona questa certezza, che diventa una roccia sicura nella costruzione della nostra vita: noi possiamo affrontare tutti i momenti di difficoltà e di pericolo, l’esperienza del buio della crisi e del tempo del dolore, sorretti dalla fiducia che Dio non ci lascia soli ed è sempre vicino, per salvarci e portarci alla vita eterna.
È nel Signore Gesù che si mostra in pienezza il volto benevolo del Padre che è nei cieli. È conoscendo Lui che possiamo conoscere anche il Padre (cfr Gv 8,19; 14,7), è vedendo Lui che possiamo vedere il Padre, perché Egli è nel Padre e il Padre è in Lui (cfr Gv 14,9.11). Egli è «immagine del Dio invisibile» come lo definisce l’inno della Lettera ai Colossesi, «primogenito di tutta la creazione… primogenito di quelli che risorgono dai morti», «per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati» e la riconciliazione di tutte le cose, «avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli» (cfr Col 1,13-20).
La fede in Dio Padre chiede di credere nel Figlio, sotto l’azione dello Spirito, riconoscendo nella Croce che salva lo svelarsi definitivo dell’amore divino. Dio ci è Padre dandoci il suo Figlio; Dio ci è Padre perdonando il nostro peccato e portandoci alla gioia della vita risorta; Dio ci è Padre donandoci lo Spirito che ci rende figli e ci permette di chiamarlo, in verità, «Abbà, Padre» (cfr Rm 8,15). Perciò Gesù, insegnandoci a pregare, ci invita a dire “Padre nostro” (Mt 6,9-13; cfr Lc 11,2-4).
La paternità di Dio, allora, è amore infinito, tenerezza che si china su di noi, figli deboli, bisognosi di tutto. Il Salmo 103, il grande canto della misericordia divina, proclama: «Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso coloro che lo temono, perché egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere» (vv. 13-14). E’ proprio la nostra piccolezza, la nostra debole natura umana, la nostra fragilità che diventa appello alla misericordia del Signore perché manifesti la sua grandezza e tenerezza di Padre aiutandoci, perdonandoci e salvandoci.
E Dio risponde al nostro appello, inviando il suo Figlio, che muore e risorge per noi; entra nella nostra fragilità e opera ciò che da solo l’uomo non avrebbe mai potuto operare: prende su di Sé il peccato del mondo, come agnello innocente, e ci riapre la strada verso la comunione con Dio, ci rende veri figli di Dio. È lì, nel Mistero pasquale, che si rivela in tutta la sua luminosità il volto definitivo del Padre. Ed è lì, sulla Croce gloriosa, che avviene la manifestazione piena della grandezza di Dio come “Padre onnipotente”.
Ma potremmo chiederci: come è possibile pensare a un Dio onnipotente guardando alla Croce di Cristo? A questo potere del male, che arriva fino al punto di uccidere il Figlio di Dio?
Noi vorremmo certamente un’onnipotenza divina secondo i nostri schemi mentali e i nostri desideri: un Dio “onnipotente” che risolva i problemi, che intervenga per evitarci le difficoltà, che vinca le potenze avverse, cambi il corso degli eventi e annulli il dolore. Così, oggi diversi teologi dicono che Dio non può essere onnipotente altrimenti non potrebbe esserci così tanta sofferenza, tanto male nel mondo. In realtà, davanti al male e alla sofferenza, per molti, per noi, diventa problematico, difficile, credere in un Dio Padre e crederlo onnipotente; alcuni cercano rifugio in idoli, cedendo alla tentazione di trovare risposta in una presunta onnipotenza “magica” e nelle sue illusorie promesse.
Ma la fede in Dio onnipotente ci spinge a percorrere sentieri ben differenti: imparare a conoscere che il pensiero di Dio è diverso dal nostro, che le vie di Dio sono diverse dalle nostre (cfr Is 55,8) e anche la sua onnipotenza è diversa: non si esprime come forza automatica o arbitraria, ma è segnata da una libertà amorosa e paterna. In realtà, Dio, creando creature libere, dando libertà, ha rinunciato a una parte del suo potere, lasciando il potere della nostra libertà. Così Egli ama e rispetta la risposta libera di amore alla sua chiamata. Come Padre, Dio desidera che noi diventiamo suoi figli e viviamo come tali nel suo Figlio, in comunione, in piena familiarità con Lui. La sua onnipotenza non si esprime nella violenza, non si esprime nella distruzione di ogni potere avverso come noi desideriamo, ma si esprime nell’amore, nella misericordia, nel perdono, nell’accettare la nostra libertà e nell’instancabile appello alla conversione del cuore, in un atteggiamento solo apparentemente debole – Dio sembra debole, se pensiamo a Gesù Cristo che prega, che si fa uccidere. Un atteggiamento apparentemente debole, fatto di pazienza, di mitezza e di amore, dimostra che questo è il vero modo di essere potente! Questa è la potenza di Dio! E questa potenza vincerà! Il saggio del Libro della Sapienza così si rivolge a Dio: «Hai compassione di tutti, perché tutto puoi; chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento. Tu infatti ami tutte le cose che esistono… Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita» (11,23-24a.26).
Solo chi è davvero potente può sopportare il male e mostrarsi compassionevole; solo chi è davvero potente può esercitare pienamente la forza dell’amore. E Dio, a cui appartengono tutte le cose perché tutto è stato fatto da Lui, rivela la sua forza amando tutto e tutti, in una paziente attesa della conversione di noi uomini, che desidera avere come figli. Dio aspetta la nostra conversione.
L’amore onnipotente di Dio non conosce limiti, tanto che «non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi» (Rm 8,32). L’onnipotenza dell’amore non è quella del potere del mondo, ma è quella del dono totale, e Gesù, il Figlio di Dio, rivela al mondo la vera onnipotenza del Padre dando la vita per noi peccatori. Ecco la vera, autentica e perfetta potenza divina: rispondere al male non con il male ma con il bene, agli insulti con il perdono, all’odio omicida con l’amore che fa vivere. Allora il male è davvero vinto, perché lavato dall’amore di Dio; allora la morte è definitivamente sconfitta perché trasformata in dono della vita. Dio Padre risuscita il Figlio: la morte, la grande nemica (cfr 1 Cor 15,26), è inghiottita e privata del suo veleno (cfr 1 Cor 15,54-55), e noi, liberati dal peccato, possiamo accedere alla nostra realtà di figli di Dio.
Quindi, quando diciamo “Io credo in Dio Padre onnipotente”, noi esprimiamo la nostra fede nella potenza dell’amore di Dio che nel suo Figlio morto e risorto sconfigge l’odio, il male, il peccato e ci apre alla vita eterna, quella dei figli che desiderano essere per sempre nella “Casa del Padre”.
Dire «Io credo in Dio Padre onnipotente», nella sua potenza, nel suo modo di essere Padre, è sempre un atto di fede, di conversione, di trasformazione del nostro pensiero, di tutto il nostro affetto, di tutto il nostro modo di vivere.
Cari fratelli e sorelle, chiediamo al Signore di sostenere la nostra fede, di aiutarci a trovare veramente la fede e di darci la forza di annunciare Cristo crocifisso e risorto e di testimoniarlo nell’amore a Dio e al prossimo. E Dio ci conceda di accogliere il dono della nostra filiazione, per vivere in pienezza le realtà del Credo, nell’abbandono fiducioso all’amore del Padre e alla sua misericordiosa onnipotenza che è la vera onnipotenza e salva.

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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE PER LA QUARESIMA 2013 , 01.02.2013

Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio del Santo Padre Benedetto XVI per la Quaresima 2013 sul tema: Credere nella carità suscita carità - «Abbiamo conosciuto e creduto l'amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16):

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE

Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio del Santo Padre Benedetto XVI per la Quaresima 2013 sul tema: Credere nella carità suscita carità - «Abbiamo conosciuto e creduto l'amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16):


MESSAGGIO DEL SANTO PADRE

Credere nella carità suscita carità
«Abbiamo conosciuto e creduto l'amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16)

Cari fratelli e sorelle,

la celebrazione della Quaresima, nel contesto dell’Anno della fede, ci offre una preziosa occasione per meditare sul rapporto tra fede e carità: tra il credere in Dio, nel Dio di Gesù Cristo, e l’amore, che è frutto dell’azione dello Spirito Santo e ci guida in un cammino di dedizione verso Dio e verso gli altri.

1. La fede come risposta all'amore di Dio.

Già nella mia prima Enciclica ho offerto qualche elemento per cogliere lo stretto legame tra queste due virtù teologali, la fede e la carità. Partendo dalla fondamentale affermazione dell’apostolo Giovanni: «Abbiamo conosciuto e creduto l'amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16), ricordavo che «all'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva... Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4,10), l'amore adesso non è più solo un "comandamento", ma è la risposta al dono dell'amore, col quale Dio ci viene incontro» (Deus caritas est, 1). La fede costituisce quella personale adesione – che include tutte le nostre facoltà – alla rivelazione dell'amore gratuito e «appassionato» che Dio ha per noi e che si manifesta pienamente in Gesù Cristo. L’incontro con Dio Amore che chiama in causa non solo il cuore, ma anche l’intelletto: «Il riconoscimento del Dio vivente è una via verso l'amore, e il sì della nostra volontà alla sua unisce intelletto, volontà e sentimento nell'atto totalizzante dell'amore. Questo però è un processo che rimane continuamente in cammino: l'amore non è mai "concluso" e completato» (ibid., 17). Da qui deriva per tutti i cristiani e, in particolare, per gli «operatori della carità», la necessità della fede, di quell'«incontro con Dio in Cristo che susciti in loro l'amore e apra il loro animo all'altro, così che per loro l'amore del prossimo non sia più un comandamento imposto per così dire dall'esterno, ma una conseguenza derivante dalla loro fede che diventa operante nell'amore» (ibid., 31a). Il cristiano è una persona conquistata dall’amore di Cristo e perciò, mosso da questo amore - «caritas Christi urget nos» (2 Cor 5,14) –, è aperto in modo profondo e concreto all'amore per il prossimo (cfr ibid., 33). Tale atteggiamento nasce anzitutto dalla coscienza di essere amati, perdonati, addirittura serviti dal Signore, che si china a lavare i piedi degli Apostoli e offre Se stesso sulla croce per attirare l’umanità nell’amore di Dio.
«La fede ci mostra il Dio che ha dato il suo Figlio per noi e suscita così in noi la vittoriosa certezza che è proprio vero: Dio è amore! ... La fede, che prende coscienza dell'amore di Dio rivelatosi nel cuore trafitto di Gesù sulla croce, suscita a sua volta l'amore. Esso è la luce – in fondo l'unica – che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire» (ibid., 39). Tutto ciò ci fa capire come il principale atteggiamento distintivo dei cristiani sia proprio «l'amore fondato sulla fede e da essa plasmato» (ibid., 7).

2. La carità come vita nella fede

Tutta la vita cristiana è un rispondere all'amore di Dio. La prima risposta è appunto la fede come accoglienza piena di stupore e gratitudine di un’inaudita iniziativa divina che ci precede e ci sollecita. E il «sì» della fede segna l’inizio di una luminosa storia di amicizia con il Signore, che riempie e dà senso pieno a tutta la nostra esistenza. Dio però non si accontenta che noi accogliamo il suo amore gratuito. Egli non si limita ad amarci, ma vuole attiraci a Sé, trasformarci in modo così profondo da portarci a dire con san Paolo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (cfr Gal 2,20).

Quando noi lasciamo spazio all’amore di Dio, siamo resi simili a Lui, partecipi della sua stessa carità. Aprirci al suo amore significa lasciare che Egli viva in noi e ci porti ad amare con Lui, in Lui e come Lui; solo allora la nostra fede diventa veramente «operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6) ed Egli prende dimora in noi (cfr 1 Gv 4,12).
La fede è conoscere la verità e aderirvi (cfr 1 Tm 2,4); la carità è «camminare» nella verità (cfr Ef 4,15). Con la fede si entra nell'amicizia con il Signore; con la carità si vive e si coltiva questa amicizia (cfr Gv 15,14s). La fede ci fa accogliere il comandamento del Signore e Maestro; la carità ci dona la beatitudine di metterlo in pratica (cfr Gv 13,13-17). Nella fede siamo generati come figli di Dio (cfr Gv 1,12s); la carità ci fa perseverare concretamente nella figliolanza divina portando il frutto dello Spirito Santo (cfr Gal 5,22). La fede ci fa riconoscere i doni che il Dio buono e generoso ci affida; la carità li fa fruttificare (cfr Mt 25,14-30).

3. L'indissolubile intreccio tra fede e carità

Alla luce di quanto detto, risulta chiaro che non possiamo mai separare o, addirittura, opporre fede e carità. Queste due virtù teologali sono intimamente unite ed è fuorviante vedere tra di esse un contrasto o una «dialettica». Da un lato, infatti, è limitante l'atteggiamento di chi mette in modo così forte l'accento sulla priorità e la decisività della fede da sottovalutare e quasi disprezzare le concrete opere della carità e ridurre questa a generico umanitarismo. Dall’altro, però, è altrettanto limitante sostenere un’esagerata supremazia della carità e della sua operosità, pensando che le opere sostituiscano la fede. Per una sana vita spirituale è necessario rifuggire sia dal fideismo che dall'attivismo moralista.
L’esistenza cristiana consiste in un continuo salire il monte dell’incontro con Dio per poi ridiscendere, portando l'amore e la forza che ne derivano, in modo da servire i nostri fratelli e sorelle con lo stesso amore di Dio. Nella Sacra Scrittura vediamo come lo zelo degli Apostoli per l’annuncio del Vangelo che suscita la fede è strettamente legato alla premura caritatevole riguardo al servizio verso i poveri (cfr At 6,1-4). Nella Chiesa, contemplazione e azione, simboleggiate in certo qual modo dalle figure evangeliche delle sorelle Maria e Marta, devono coesistere e integrarsi (cfr Lc 10,38-42). La priorità spetta sempre al rapporto con Dio e la vera condivisione evangelica deve radicarsi nella fede (cfr Catechesi all’Udienza generale del 25 aprile 2012). Talvolta si tende, infatti, a circoscrivere il termine «carità» alla solidarietà o al semplice aiuto umanitario. E’ importante, invece, ricordare che massima opera di carità è proprio l’evangelizzazione, ossia il «servizio della Parola». Non v'è azione più benefica, e quindi caritatevole, verso il prossimo che spezzare il pane della Parola di Dio, renderlo partecipe della Buona Notizia del Vangelo, introdurlo nel rapporto con Dio: l'evangelizzazione è la più alta e integrale promozione della persona umana. Come scrive il Servo di Dio Papa Paolo VI nell'Enciclica Populorum progressio, è l'annuncio di Cristo il primo e principale fattore di sviluppo (cfr n. 16). E’ la verità originaria dell’amore di Dio per noi, vissuta e annunciata, che apre la nostra esistenza ad accogliere questo amore e rende possibile lo sviluppo integrale dell’umanità e di ogni uomo (cfr Enc. Caritas in veritate, 8).
In sostanza, tutto parte dall'Amore e tende all'Amore. L'amore gratuito di Dio ci è reso noto mediante l'annuncio del Vangelo. Se lo accogliamo con fede, riceviamo quel primo ed indispensabile contatto col divino capace di farci «innamorare dell'Amore», per poi dimorare e crescere in questo Amore e comunicarlo con gioia agli altri.
A proposito del rapporto tra fede e opere di carità, un’espressione della Lettera di san Paolo agli Efesini riassume forse nel modo migliore la loro correlazione: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (2, 8-10). Si percepisce qui che tutta l'iniziativa salvifica viene da Dio, dalla sua Grazia, dal suo perdono accolto nella fede; ma questa iniziativa, lungi dal limitare la nostra libertà e la nostra responsabilità, piuttosto le rende autentiche e le orienta verso le opere della carità. Queste non sono frutto principalmente dello sforzo umano, da cui trarre vanto, ma nascono dalla stessa fede, sgorgano dalla Grazia che Dio offre in abbondanza. Una fede senza opere è come un albero senza frutti: queste due virtù si implicano reciprocamente. La Quaresima ci invita proprio, con le tradizionali indicazioni per la vita cristiana, ad alimentare la fede attraverso un ascolto più attento e prolungato della Parola di Dio e la partecipazione ai Sacramenti, e, nello stesso tempo, a crescere nella carità, nell’amore verso Dio e verso il prossimo, anche attraverso le indicazioni concrete del digiuno, della penitenza e dell’elemosina.

4. Priorità della fede, primato della carità

Come ogni dono di Dio, fede e carità riconducono all'azione dell'unico e medesimo Spirito Santo (cfr 1 Cor 13), quello Spirito che in noi grida «Abbà! Padre» (Gal 4,6), e che ci fa dire: «Gesù è il Signore!» (1 Cor 12,3) e «Maranatha!» (1 Cor 16,22; Ap 22,20).
La fede, dono e risposta, ci fa conoscere la verità di Cristo come Amore incarnato e crocifisso, piena e perfetta adesione alla volontà del Padre e infinita misericordia divina verso il prossimo; la fede radica nel cuore e nella mente la ferma convinzione che proprio questo Amore è l'unica realtà vittoriosa sul male e sulla morte. La fede ci invita a guardare al futuro con la virtù della speranza, nell’attesa fiduciosa che la vittoria dell'amore di Cristo giunga alla sua pienezza. Da parte sua, la carità ci fa entrare nell’amore di Dio manifestato in Cristo, ci fa aderire in modo personale ed esistenziale al donarsi totale e senza riserve di Gesù al Padre e ai fratelli. Infondendo in noi la carità, lo Spirito Santo ci rende partecipi della dedizione propria di Gesù: filiale verso Dio e fraterna verso ogni uomo (cfr Rm 5,5).
Il rapporto che esiste tra queste due virtù è analogo a quello tra due Sacramenti fondamentali della Chiesa: il Battesimo e l'Eucaristia. Il Battesimo (sacramentum fidei) precede l'Eucaristia (sacramentum caritatis), ma è orientato ad essa, che costituisce la pienezza del cammino cristiano. In modo analogo, la fede precede la carità, ma si rivela genuina solo se è coronata da essa. Tutto parte dall'umile accoglienza della fede («il sapersi amati da Dio»), ma deve giungere alla verità della carità («il saper amare Dio e il prossimo»), che rimane per sempre, come compimento di tutte le virtù (cfr 1 Cor 13,13).

Carissimi fratelli e sorelle, in questo tempo di Quaresima, in cui ci prepariamo a celebrare l’evento della Croce e della Risurrezione, nel quale l’Amore di Dio ha redento il mondo e illuminato la storia, auguro a tutti voi di vivere questo tempo prezioso ravvivando la fede in Gesù Cristo, per entrare nel suo stesso circuito di amore verso il Padre e verso ogni fratello e sorella che incontriamo nella nostra vita. Per questo elevo la mia preghiera a Dio, mentre invoco su ciascuno e su ogni comunità la Benedizione del Signore!

Dal Vaticano, 15 ottobre 2012

BENEDICTUS PP. XVI

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OMELIA DEL SANTO PADRE PER LA FESTA DELLA PRESENTAZIONE DEL SIGNORE


Cari fratelli e sorelle!

nel suo racconto dell’infanzia di Gesù, san Luca sottolinea come Maria e Giuseppe fossero fedeli alla Legge del Signore. Con profonda devozione compiono tutto ciò che è prescritto dopo il parto di un primogenito maschio. Si tratta di due prescrizioni molto antiche: una riguarda la madre e l’altra il bambino neonato.
Per la donna è prescritto che si astenga per quaranta giorni dalle pratiche rituali, dopo di che offra un duplice sacrificio: un agnello in olocausto e una tortora o un colombo per il peccato; ma se la donna è povera, può offrire due tortore o due colombi (cfr Lv 12,1-8). San Luca precisa che Maria e Giuseppe offrirono il sacrificio dei poveri (cfr 2,24), per evidenziare che Gesù è nato in una famiglia di gente semplice, umile ma molto credente: una famiglia appartenente a quei poveri di Israele che formano il vero popolo di Dio. Per il primogenito maschio, che secondo la Legge di Mosè è proprietà di Dio, era invece prescritto il riscatto, stabilito nell’offerta di cinque sicli, da pagare ad un sacerdote in qualunque luogo. Ciò a perenne memoria del fatto che, al tempo dell’Esodo, Dio risparmiò i primogeniti degli ebrei (cfr Es 13,11-16).
E’ importante osservare che per questi due atti – la purificazione della madre e il riscatto del figlio – non era necessario andare al Tempio. Invece Maria e Giuseppe vogliono compiere tutto a Gerusalemme, e san Luca fa vedere come l’intera scena converga verso il Tempio, e quindi si focalizzi su Gesù che vi entra. Ed ecco che, proprio attraverso le prescrizioni della Legge, l’avvenimento principale diventa un altro, cioè la “presentazione” di Gesù al Tempio di Dio, che significa l’atto di offrire il Figlio dell’Altissimo al Padre che lo ha mandato (cfr Lc 1,32.35). Questa narrazione dell’Evangelista trova riscontro nella parola del profeta Malachia che abbiamo ascoltato all’inizio della prima Lettura: «Così dice il Signore Dio: “Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire … Egli purificherà i figli di Levi … perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia» (3,1.3). Chiaramente qui non si parla di un bambino, e tuttavia questa parola trova compimento in Gesù, perché «subito», grazie alla fede dei suoi genitori, Egli è stato portato al Tempio; e nell’atto della sua «presentazione», o della sua «offerta» personale a Dio Padre, traspare chiaramente il tema del sacrifico e del sacerdozio, come nel passo del profeta. Il bambino Gesù, che viene subito presentato al Tempio, è quello stesso che, una volta adulto, purificherà il Tempio (cfr Gv 2,13- 22; Mc 11,15,19 e par.) e soprattutto farà di se stesso il sacrificio e il sommo sacerdote della nuova Alleanza.
Questa è anche la prospettiva della Lettera agli Ebrei, di cui è stato proclamato un passo nella seconda Lettura, così che il tema del nuovo sacerdozio viene rafforzato: un sacerdozio – quello inaugurato da Gesù – che è esistenziale: «Proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (Eb 2,18). E così troviamo anche il tema della sofferenza, molto marcato nel brano evangelico, là dove Simeone pronuncia la sua profezia sul Bambino e sulla Madre: «Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,34-35). La «salvezza» che Gesù porta al suo popolo, e che incarna in se stesso, passa attraverso la croce, attraverso la morte violenta che Egli vincerà e trasformerà con l’oblazione della vita per amore. Questa oblazione è già tutta preannunciata nel gesto della presentazione al Tempio, un gesto certamente mosso dalle tradizioni dell’antica Alleanza, ma intimamente animato dalla pienezza della fede e dell’amore che corrisponde alla pienezza dei tempi, alla presenza di Dio e del suo Santo Spirito in Gesù. Lo Spirito, in effetti, aleggia su tutta la scena della presentazione di Gesù al Tempio, in particolare sulla figura di Simeone, ma anche di Anna. E’ lo Spirito «Paraclito», che porta la «consolazione» di Israele e muove i passi e il cuore di coloro che la attendono. E’ lo Spirito che suggerisce le parole profetiche di Simeone e Anna, parole di benedizione, di lode a Dio, di fede nel suo Consacrato, di ringraziamento perché finalmente i nostri occhi possono vedere e le nostre braccia stringere «la sua salvezza» (cfr 2,30). «Luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele» (2,32): così Simeone definisce il Messia del Signore, al termine del suo canto di benedizione. Il tema della luce, che riecheggia il primo e il secondo carme del Servo del Signore, nel Deutero-Isaia (cfr Is 42,6; 49,6), è fortemente presente in questa liturgia. Essa infatti è stata aperta da una suggestiva processione, a cui hanno partecipato i Superiori e le Superiore Generali degli Istituti di vita consacrata qui rappresentati, che portavano i ceri accesi. Questo segno, specifico della tradizione liturgica di questa Festa, è molto espressivo. Manifesta la bellezza e il valore della vita consacrata come riflesso della luce di Cristo; un segno che richiama l’ingresso di Maria nel Tempio: la Vergine Maria, la Consacrata per eccellenza, portava in braccio la Luce stessa, il Verbo incarnato, venuto a scacciare le tenebre dal mondo con l’amore di Dio.
Cari fratelli e sorelle consacrati, tutti voi siete stati rappresentati in quel simbolico pellegrinaggio, che nell’Anno della fede esprime ancora di più il vostro convenire nella Chiesa, per essere confermati nella fede e rinnovare l’offerta di voi stessi a Dio. A ciascuno di voi, e ai vostri Istituti, rivolgo con affetto il mio più cordiale saluto e vi ringrazio per la vostra presenza. Nella luce di Cristo, con i molteplici carismi di vita contemplativa e apostolica, voi cooperate alla vita e alla missione della Chiesa nel mondo. In questo spirito di riconoscenza e di comunione, vorrei rivolgervi tre inviti, affinché possiate entrare pienamente in quella «porta della fede» che è sempre aperta per noi (cfr Lett. ap. Porta fidei, 1).
Vi invito in primo luogo ad alimentare una fede in grado di illuminare la vostra vocazione. Vi esorto per questo a fare memoria, come in un pellegrinaggio interiore, del «primo amore» con cui il Signore Gesù Cristo ha riscaldato il vostro cuore, non per nostalgia, ma per alimentare quella fiamma. E per questo occorre stare con Lui, nel silenzio dell’adorazione; e così risvegliare la volontà e la gioia di condividerne la vita, le scelte, l’obbedienza di fede, la beatitudine dei poveri, la radicalità dell’amore. A partire sempre nuovamente da questo incontro d’amore voi lasciate ogni cosa per stare con Lui e mettervi come Lui al servizio di Dio e dei fratelli (cfr Esort. ap. Vita consecrata, 1).
In secondo luogo vi invito a una fede che sappia riconoscere la sapienza della debolezza. Nelle gioie e nelle afflizioni del tempo presente, quando la durezza e il peso della croce si fanno sentire, non dubitate che la kenosi di Cristo è già vittoria pasquale. Proprio nel limite e nella debolezza umana siamo chiamati a vivere la conformazione a Cristo, in una tensione totalizzante che anticipa, nella misura possibile nel tempo, la perfezione escatologica (ibid., 16). Nelle società dell’efficienza e del successo, la vostra vita segnata dal «minorità» e dalla debolezza dei piccoli, dall’empatia con coloro che non hanno voce, diventa un evangelico segno di contraddizione.
Infine, vi invito a rinnovare la fede che vi fa essere pellegrini verso il futuro. Per sua natura la vita consacrata è pellegrinaggio dello spirito, alla ricerca di un Volto che talora si manifesta e talora si vela: «Faciem tuam, Domine, requiram» (Sal 26,8). Questo sia l’anelito costante del vostro cuore, il criterio fondamentale che orienta il vostro cammino, sia nei piccoli passi quotidiani che nelle decisioni più importanti. Non unitevi ai profeti di sventura che proclamano la fine o il non senso della vita consacrata nella Chiesa dei nostri giorni; piuttosto rivestitevi di Gesù Cristo e indossate le armi della luce – come esorta san Paolo (cfr Rm 13,11-14) – restando svegli e vigilanti. San Cromazio di Aquileia scriveva: «Allontani da noi il Signore tale pericolo affinché mai ci lasciamo appesantire dal sonno dell’infedeltà; ma ci conceda la sua grazia e la sua misericordia, perché possiamo vegliare sempre nella fedeltà a Lui. Infatti la nostra fedeltà può vegliare in Cristo» (Sermone 32, 4).
Cari fratelli e sorelle, la gioia della vita consacrata passa necessariamente attraverso la partecipazione alla Croce di Cristo. Così è stato per Maria Santissima. La sua è la sofferenza del cuore che forma un tutt’uno col Cuore del Figlio di Dio, trafitto per amore. Da quella ferita sgorga la luce di Dio, e anche dalle sofferenze, dai sacrifici, dal dono di se stessi che i consacrati vivono per amore di Dio e degli altri si irradia la stessa luce, che evangelizza le genti. In questa Festa, auguro in modo particolare a voi consacrati che la vostra vita abbia sempre il sapore della parresia evangelica, affinché in voi la Buona Novella sia vissuta, testimoniata, annunciata e risplenda come Parola di verità (cfr Lett. ap. Porta fidei, 6). Amen.

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LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 03.02.2013

Alle ore 12 di oggi il Santo Padre Benedetto XVI si affaccia alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare l’Angelus con i fedeli ed i pellegrini convenuti in Piazza San Pietro.
Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:

PRIMA DELL’ANGELUS

Cari fratelli e sorelle!

Il Vangelo di oggi – tratto dal capitolo quarto di san Luca – è la prosecuzione di quello di domenica scorsa. Ci troviamo ancora nella sinagoga di Nazaret, il paese dove Gesù è cresciuto e dove tutti conoscono lui e la sua famiglia. Ora, dopo un periodo di assenza, Egli è ritornato in un modo nuovo: durante la liturgia del sabato legge una profezia di Isaia sul Messia e ne annuncia il compimento, lasciando intendere che quella parola si riferisce a Lui, che Isaia ha parlato di Lui. Questo fatto suscita lo sconcerto dei nazaretani: da una parte, «tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca» (Lc 4,22); san Marco riferisce che molti dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data?» (6,2). D’altra parte, però, i suoi compaesani lo conoscono troppo bene: E’ uno come noi – dicono –. La sua pretesa non può essere che una presunzione (cfr L’infanzia di Gesù, 11). «Non è costui il figlio di Giuseppe?» (Lc 4,22), come dire: un carpentiere di Nazaret, quali aspirazioni può avere?
Proprio conoscendo questa chiusura, che conferma il proverbio «nessun profeta è bene accetto nella sua patria», Gesù rivolge alla gente, nella sinagoga, parole che suonano come una provocazione. Cita due miracoli compiuti dai grandi profeti Elia ed Eliseo in favore di persone non israelite, per dimostrare che a volte c’è più fede al di fuori d’Israele. A quel punto la reazione è unanime: tutti si alzano e lo cacciano fuori, e cercano persino di buttarlo giù da un precipizio, ma Egli, con calma sovrana, passa in mezzo alla gente inferocita e se ne va.
A questo punto viene spontaneo chiedersi: come mai Gesù ha voluto provocare questa rottura? All’inizio la gente era ammirata di lui, e forse avrebbe potuto ottenere un certo consenso… Ma proprio questo è il punto: Gesù non è venuto per cercare il consenso degli uomini, ma – come dirà alla fine a Pilato – per «dare testimonianza alla verità» (Gv 18,37).
Il vero profeta non obbedisce ad altri che a Dio e si mette al servizio della verità, pronto a pagare di persona. E’ vero che Gesù è il profeta dell’amore, ma l’amore ha la sua verità. Anzi, amore e verità sono due nomi della stessa realtà, due nomi di Dio.
Nella liturgia odierna risuonano anche queste parole di san Paolo: «La carità…non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità» (1 Cor 13,4-6). Credere in Dio significa rinunciare ai propri pregiudizi e accogliere il volto concreto in cui Lui si è rivelato: l’uomo Gesù di Nazaret. E questa via conduce anche a riconoscerlo e a servirlo negli altri.
In questo è illuminante l’atteggiamento di Maria. Chi più di lei ebbe familiarità con l’umanità di Gesù? Ma non ne fu mai scandalizzata come i compaesani di Nazaret. Ella custodiva nel suo cuore il mistero e seppe accoglierlo sempre di più e sempre di nuovo, nel cammino della fede, fino alla notte della Croce e alla piena luce della Risurrezione. Maria aiuti anche noi a percorrere con fedeltà e con gioia questo cammino.

DOPO L’ANGELUS

Cari fratelli e sorelle,

nella prima domenica di febbraio ricorre in Italia la "Giornata per la vita". Mi associo ai Vescovi italiani che nel loro messaggio invitano ad investire sulla vita e sulla famiglia, anche come risposta efficace alla crisi attuale. Saluto il Movimento per la Vita ed auguro successo all’iniziativa denominata "Uno di noi", affinché l’Europa sia sempre luogo dove ogni essere umano sia tutelato nella sua dignità. Saluto i rappresentanti delle Facoltà di Medicina e Chirurgia delle Università di Roma, specialmente i docenti di Ostetricia e Ginecologia, accompagnati dal Cardinale Vicario, e li incoraggio a formare gli operatori sanitari alla cultura della vita.

Je salue cordialement les pèlerins francophones, particulièrement les Scouts Unitaires de France. La fête de la Vie consacrée célébrée hier nous invite à entendre l’appel du Seigneur et à y répondre avec confiance et générosité. Rendons grâce et prions pour tous les consacrés, afin qu’ils grandissent dans la sainteté. Leur témoignage nous entraîne à faire une large place à Dieu dans notre vie par la prière, la messe dominicale, la lecture de sa Parole. Notre foi plus vivante pourra changer notre cœur ! Bon dimanche à tous !

I greet all the English-speaking pilgrims and visitors present at today’s Angelus. In the Gospel of today’s liturgy, Jesus reminds us that being a prophet is no easy task, even among those nearest to us. Let us ask the Lord to give each of us a spirit of courage and wisdom, so that in our words and actions, we may proclaim the saving truth of God’s love with boldness, humility and coherence. God bless each of you!

Einen frohen Gruß richte ich an die Pilger und Gäste aus den Ländern deutscher Sprache. Jesus verkündet und verkörpert die gute Nachricht von Gottes Liebe zu den Menschen. Dabei erfährt er Widerspruch, wie uns das Evangelium dieses Sonntags berichtet. Seine Botschaft fordert heraus zur Entscheidung nicht für einen Menschen, sondern für Christus als den Sohn Gottes und Erlöser der Welt. Auch heute - wir wissen es - stößt das Evangelium auf Ablehnung in einer Welt, die Gott beiseite schieben und sich mit unverbindlichen und bequemen Antworten zufrieden geben will. Werden wir daher nicht müde, die Wahrheit Christi und seine Hoffnung zu den Menschen zu bringen. Dazu schenke euch der Herr die Kraft des Heiligen Geistes.

Saludo con afecto a los peregrinos de lengua española, en particular a los alumnos y profesores del Instituto Suárez de Figueroa, de Zafra, y del Instituto Ildefonso Serrano, de Segura de León, Badajoz, así como a los profesores de los colegios diocesanos de Valencia. En la liturgia de hoy se lee el llamado «himno a la caridad» del apóstol san Pablo, en el que explica el «camino» de la perfección, que no consiste en tener cualidades particulares sino en vivir el amor auténtico, el que Dios nos reveló en Jesucristo. Que Santa María, la Virgen, nos ayude cada vez más para que la caridad sea el distintivo del obrar cristiano y que sea éste el fruto de lo que creemos como discípulos de su Hijo. ¡Feliz domingo!

Moją myśl i słowo pozdrowienia kieruję do wszystkich Polaków. Wczoraj obchodziliśmy Dzień Życia Konsekrowanego. Maryi, która blaskiem świętości opromienia życie każdego człowieka, polecamy w modlitwie wszystkich, którzy wybrali drogę rad ewangelicznych. Niech z radością naśladują Jezusa w ubóstwie, czystości i posłuszeństwie, podejmując każdego dnia posługę Bogu i bliźnim. Niech Bóg wam błogosławi. Życzę wszystkim dobrej niedzieli!

[Rivolgo ora il mio pensiero e la mia parola di saluto a tutti i Polacchi. Ieri abbiamo celebrato la Giornata della vita consacrata. A Maria, che irradia con lo splendore della santità la vita di ogni persona, raccomandiamo nella preghiera tutti coloro che hanno scelto la vita secondo i consigli evangelici. Imitino con gioia Gesù nella povertà, castità e obbedienza, compiendo ogni giorno il servizio di Dio e del prossimo. Dio vi benedica. Auguro buona domenica a tutti.]

Rivolgo infine il mio cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare ai fedeli venuti da Verona e da Chiusi e a quelli della parrocchia romana di Santa Maria Goretti. A tutti auguro una buona domenica, buona settimana. Grazie. Buona domenica!

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CONCERTO PER I PATTI LATERANENSI

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Signor Presidente della Repubblica,
Signori Cardinali,
Onorevoli Ministri e distinte Autorità,
venerati Fratelli,
gentili Signori e Signore!

Anzitutto saluto il Signor Presidente della Repubblica Italiana, Onorevole Giorgio Napolitano, e lo ringrazio per le intense espressioni che mi ha rivolto; in questi sette anni - come ha ricordato - ci siamo incontrati più volte e abbiamo condiviso esperienze e riflessioni. Saluto la sua gentile consorte, le Autorità italiane, come pure i Signori Ambasciatori e le numerose Personalità presenti. Un grazie di vero cuore ai promotori e agli organizzatori di questa serata, in particolare alla “Flying Angels Foundation”, impegnata nel campo della solidarietà.
L’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino e il suo Direttore, Zubin Metha, non necessitano di presentazioni: entrambi occupano un posto importante nel panorama musicale internazionale e questa sera l’hanno dimostrato donandoci un momento di profonda elevazione dello spirito con la notevole esecuzione della Sinfonia verdiana e della Terza di Beethoven.
Giuseppe Verdi, La Forza del Destino: un omaggio dovuto al grande musicista italiano nell’anno in cui celebriamo i 200 anni dalla sua nascita. Nelle sue opere colpisce sempre come egli abbia saputo cogliere e tratteggiare musicalmente le situazioni della vita, soprattutto i drammi dell’animo umano, in modo così immediato, incisivo ed essenziale come raramente si trova nel panorama musicale. E’ un destino sempre tragico quello dei personaggi verdiani a cui non sfuggono i protagonisti de La Forza del Destino: la Sinfonia che abbiamo ascoltato, fin dalle prime battute, ce lo ha fatto percepire. Ma affrontando il tema del destino, Verdi si trova ad affrontare direttamente il tema religioso, a confrontarsi con Dio, con la fede, con la Chiesa; ed emerge ancora una volta l’animo di questo musicista, la sua inquietudine, la sua ricerca religiosa. Ne La Forza del Destino non solo una delle arie più famose, “La Vergine degli Angeli”, è un’accorata preghiera, ma vi troviamo anche due storie di conversione e avvicinamento a Dio: quella di Leonora, che riconosce drammaticamente le sue colpe e decide di ritirarsi in una vita eremitica, e quella di don Alvaro, che lotta tra il mondo e una vita in solitudine con Dio. E’ interessante notare come nelle due versioni di quest’opera, quella del 1862 per San Pietroburgo e quella del 1869 per “La Scala” di Milano, i finali cambino: nella prima don Alvaro termina la vita suicida, rifiutando l’abito religioso e invocando l’inferno; nella seconda, invece, egli accoglie le parole del Frate Guardiano a confidare nel perdono di Dio e l’opera termina con le parole “Salita a Dio”. Qui è disegnato il dramma dell’esistenza umana segnata da un tragico destino e dalla nostalgia di Dio, della sua misericordia e del suo amore, che offrono luce, senso e speranza anche nel buio. La fede ci offre questa prospettiva che non è illusoria, ma reale; come afferma san Paolo «né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né altezze, né profondità, né alcun’altra creatura potrà separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,38-39). Questa è la forza del cristiano, che nasce dalla morte e risurrezione di Cristo, dall’atto supremo di un Dio che è entrato nella storia dell’uomo non solo con le parole, ma incarnandosi.
Una parola anche sulla Terza Sinfonia di Beethoven, un’opera complessa che segna in modo chiaro il distacco dal sinfonismo classico di Haydn e Mozart. Come è noto, era dedicata a Napoleone, ma il grande compositore tedesco cambiò idea dopo che Bonaparte si proclamò imperatore, mutando il titolo in: “composta per festeggiare il sovvenire di un grand’Uomo”. Beethoven esprime musicalmente l’ideale dell’eroe portatore di libertà e di uguaglianza, che è davanti alla scelta della rassegnazione o della lotta, della morte o della vita, della resa o della vittoria; e la Sinfonia descrive questi stati d’animo con una ricchezza coloristica e tematica fino ad allora sconosciuta. Non entro nella lettura dei quattro tempi, ma accenno solo al secondo, la celebre Marcia funebre, un’accorata meditazione sulla morte, che inizia con una prima sezione dai toni drammatici e desolati, ma che contiene, nella parte centrale, un episodio sereno intonato dall’oboe e poi la doppia fuga e gli squilli di tromba: il pensiero sulla morte invita a riflettere sull’al di là, sull’infinito. In quegli anni, Beethoven, nel testamento di Heiligenstadt dell’ottobre 1802 scriveva: «O Dio, Tu dall’alto guardi nel mio intimo, lo conosci e sai che è colmo d’amore per l’umanità e di desiderio di fare del bene». La ricerca di senso che apra ad una speranza solida per il futuro fa parte del cammino dell’umanità.
Grazie, Signor Presidente, per la sua presenza. Grazie al Direttore e ai Professori dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino. Grazie ai promotori e agli organizzatori e a voi tutti! Buona serata!

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L’UDIENZA GENERALE, 06.02.2013

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 nell’Aula Paolo VI dove il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli provenienti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana il Papa ha continuato il ciclo di catechesi dedicato all’Anno della fede.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica.


CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

L'Anno della fede. Io credo in Dio: il Creatore del cielo e della terra, il Creatore dell'essere umano


Cari fratelli e sorelle,

il Credo, che inizia qualificando Dio come “Padre Onnipotente”, come abbiamo meditato la settimana scorsa, aggiunge poi che Egli è il “Creatore del cielo e della terra”, e riprende così l’affermazione con cui inizia la Bibbia. Nel primo versetto della Sacra Scrittura, infatti, si legge: «In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gen 1,1): è Dio l’origine di tutte le cose e nella bellezza della creazione si dispiega la sua onnipotenza di Padre che ama.
Dio si manifesta come Padre nella creazione, in quanto origine della vita, e, nel creare, mostra la sua onnipotenza. Le immagini usate dalla Sacra Scrittura al riguardo sono molto suggestive (cfr Is 40,12; 45,18; 48,13; Sal 104,2.5; 135,7; Pr 8, 27-29; Gb 38–39). Egli, come un Padre buono e potente, si prende cura di ciò che ha creato con un amore e una fedeltà che non vengono mai meno, dicono ripetutamente i salmi (cfr Sal 57,11; 108,5; 36,6). Così, la creazione diventa luogo in cui conoscere e riconoscere l’onnipotenza del Signore e la sua bontà, e diventa appello alla fede di noi credenti perché proclamiamo Dio come Creatore. «Per fede, - scrive l’autore della Lettera agli Ebrei - noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio, sicché dall’invisibile ha preso origine il mondo visibile» (11,3).
La fede implica dunque di saper riconoscere l’invisibile individuandone la traccia nel mondo visibile. Il credente può leggere il grande libro della natura e intenderne il linguaggio (cfr Sal 19,2-5); ma è necessaria la Parola di rivelazione, che suscita la fede, perché l’uomo possa giungere alla piena consapevolezza della realtà di Dio come Creatore e Padre. È nel libro della Sacra Scrittura che l’intelligenza umana può trovare, alla luce della fede, la chiave di interpretazione per comprendere il mondo. In particolare, occupa un posto speciale il primo capitolo della Genesi, con la solenne presentazione dell’opera creatrice divina che si dispiega lungo sette giorni: in sei giorni Dio porta a compimento la creazione e il settimo giorno, il sabato, cessa da ogni attività e si riposa. Giorno della libertà per tutti, giorno della comunione con Dio. E così, con questa immagine, il libro della Genesi ci indica che il primo pensiero di Dio era trovare un amore che risponda al suo amore. Il secondo pensiero è poi creare un mondo materiale dove collocare questo amore, queste creature che in libertà gli rispondono. Tale struttura, quindi, fa sì che il testo sia scandito da alcune ripetizioni significative. Per sei volte, ad esempio, viene ripetuta la frase: «Dio vide che era cosa buona» (vv. 4.10.12.18.21.25), per concludere, la settima volta, dopo la creazione dell’uomo: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (v. 31). Tutto ciò che Dio crea è bello e buono, intriso di sapienza e di amore; l’azione creatrice di Dio porta ordine, immette armonia, dona bellezza. Nel racconto della Genesi poi emerge che il Signore crea con la sua parola: per dieci volte si legge nel testo l’espressione «Dio disse» (vv. 3.6.9.11.14.20.24.26.28.29). E' la parola, il Logos di Dio che è l'origine della realtà del mondo e dicendo: “Dio disse”, fu così, sottolinea la potenza efficace della Parola divina. Così canta il Salmista: «Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro schiera…, perché egli parlò e tutto fu creato, comandò e tutto fu compiuto» (33,6.9). La vita sorge, il mondo esiste, perché tutto obbedisce alla Parola divina.
Ma la nostra domanda oggi è: nell’epoca della scienza e della tecnica, ha ancora senso parlare di creazione? Come dobbiamo comprendere le narrazioni della Genesi? La Bibbia non vuole essere un manuale di scienze naturali; vuole invece far comprendere la verità autentica e profonda delle cose. La verità fondamentale che i racconti della Genesi ci svelano è che il mondo non è un insieme di forze tra loro contrastanti, ma ha la sua origine e la sua stabilità nel Logos, nella Ragione eterna di Dio, che continua a sorreggere l’universo.
C’è un disegno sul mondo che nasce da questa Ragione, dallo Spirito creatore. Credere che alla base di tutto ci sia questo, illumina ogni aspetto dell’esistenza e dà il coraggio di affrontare con fiducia e con speranza l’avventura della vita. Quindi, la scrittura ci dice che l'origine dell'essere, del mondo, la nostra origine non è l'irrazionale e la necessità, ma la ragione e l'amore e la libertà. Da questo l'alternativa: o priorità dell'irrazionale, della necessità, o priorità della ragione, della libertà, dell'amore. Noi crediamo in questa ultima posizione.
Ma vorrei dire una parola anche su quello che è il vertice dell’intera creazione: l’uomo e la donna, l’essere umano, l’unico “capace di conoscere e di amare il suo Creatore” (Cost. past. Gaudium et spes, 12). Il Salmista guardando i cieli si chiede: «Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?» (8,4-5). L’essere umano, creato con amore da Dio, è ben piccola cosa davanti all’immensità dell’universo; a volte, guardando affascinati le enormi distese del firmamento, anche noi abbiamo percepito la nostra limitatezza. L’essere umano è abitato da questo paradosso: la nostra piccolezza e la nostra caducità convivono con la grandezza di ciò che l’amore eterno di Dio ha voluto per lui.
I racconti della creazione nel Libro della Genesi ci introducono anche in questo misterioso ambito, aiutandoci a conoscere il progetto di Dio sull’uomo. Anzitutto affermano che Dio formò l’uomo con la polvere della terra (cfr Gen 2,7). Questo significa che non siamo Dio, non ci siamo fatti da soli, siamo terra; ma significa anche che veniamo dalla terra buona, per opera del Creatore buono. A questo si aggiunge un’altra realtà fondamentale: tutti gli esseri umani sono polvere, al di là delle distinzioni operate dalla cultura e dalla storia, al di là di ogni differenza sociale; siamo un’unica umanità plasmata con l’unica terra di Dio. Vi è poi un secondo elemento: l’essere umano ha origine perché Dio soffia l’alito di vita nel corpo modellato dalla terra (cfr Gen 2,7). L’essere umano è fatto a immagine e somiglianza di Dio (cfr Gen 1,26-27). Tutti allora portiamo in noi l’alito vitale di Dio e ogni vita umana – ci dice la Bibbia – sta sotto la particolare protezione di Dio. Questa è la ragione più profonda dell’inviolabilità della dignità umana contro ogni tentazione di valutare la persona secondo criteri utilitaristici e di potere. L’essere ad immagine e somiglianza di Dio indica poi che l’uomo non è chiuso in se stesso, ma ha un riferimento essenziale in Dio.
Nei primi capitoli del Libro della Genesi troviamo due immagini significative: il giardino con l’albero della conoscenza del bene e del male e il serpente (cfr 2,15-17; 3,1-5). Il giardino ci dice che la realtà in cui Dio ha posto l’essere umano non è una foresta selvaggia, ma luogo che protegge, nutre e sostiene; e l’uomo deve riconoscere il mondo non come proprietà da saccheggiare e da sfruttare, ma come dono del Creatore, segno della sua volontà salvifica, dono da coltivare e custodire, da far crescere e sviluppare nel rispetto, nell’armonia, seguendone i ritmi e la logica, secondo il disegno di Dio (cfr Gen 2,8-15). Poi, il serpente è una figura che deriva dai culti orientali della fecondità, che affascinavano Israele e costituivano una costante tentazione di abbandonare la misteriosa alleanza con Dio.
Alla luce di questo, la Sacra Scrittura presenta la tentazione che subiscono Adamo ed Eva come il nocciolo della tentazione e del peccato. Che cosa dice infatti il serpente? Non nega Dio, ma insinua una domanda subdola: «È vero che Dio ha detto “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino?”» (Gen 3,1). In questo modo il serpente suscita il sospetto che l’alleanza con Dio sia come una catena che lega, che priva della libertà e delle cose più belle e preziose della vita. La tentazione diventa quella di costruirsi da soli il mondo in cui vivere, di non accettare i limiti dell’essere creatura, i limiti del bene e del male, della moralità; la dipendenza dall’amore creatore di Dio è vista come un peso di cui liberarsi. Questo è sempre il nocciolo della tentazione. Ma quando si falsa il rapporto con Dio, con una menzogna, mettendosi al suo posto, tutti gli altri rapporti vengono alterati. Allora l’altro diventa un rivale, una minaccia: Adamo, dopo aver ceduto alla tentazione, accusa immediatamente Eva (cfr Gen 3,12); i due si nascondono dalla vista di quel Dio con cui conversavano in amicizia (cfr 3,8-10); il mondo non è più il giardino in cui vivere con armonia, ma un luogo da sfruttare e nel quale si celano insidie (cfr 3,14-19); l’invidia e l’odio verso l’altro entrano nel cuore dell’uomo: esemplare è Caino che uccide il proprio fratello Abele (cfr 4,3-9). Andando contro il suo Creatore, in realtà l’uomo va contro se stesso, rinnega la sua origine e dunque la sua verità; e il male entra nel mondo, con la sua penosa catena di dolore e di morte. E così quanto Dio aveva creato era buono, anzi, molto buono, dopo questa libera decisione dell'uomo per la menzogna contro la verità, il male entra nel mondo.
Dei racconti della creazione, vorrei evidenziare un ultimo insegnamento: il peccato genera peccato e tutti i peccati della storia sono legati tra di loro. Questo aspetto ci spinge a parlare di quello che è chiamato il “peccato originale”.
Qual è il significato di questa realtà, difficile da comprendere? Vorrei dare soltanto qualche elemento. Anzitutto dobbiamo considerare che nessun uomo è chiuso in se stesso, nessuno può vivere solo di sé e per sé; noi riceviamo la vita dall’altro e non solo al momento della nascita, ma ogni giorno. L’essere umano è relazione: io sono me stesso solo nel tu e attraverso il tu, nella relazione dell’amore con il Tu di Dio e il tu degli altri. Ebbene, il peccato è turbare o distruggere la relazione con Dio, questa la sua essenza: distruggere la relazione con Dio, la relazione fondamentale, mettersi al posto di Dio. Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che con il primo peccato l’uomo “ha fatto la scelta di se stesso contro Dio, contro le esigenze della propria condizione creaturale e conseguentemente contro il proprio bene” (n. 398). Turbata la relazione fondamentale, sono compromessi o distrutti anche gli altri poli della relazione, il peccato rovina le relazioni, così rovina tutto, perché noi siamo relazione.
Ora, se la struttura relazionale dell’umanità è turbata fin dall’inizio, ogni uomo entra in un mondo segnato da questo turbamento delle relazioni, entra in un mondo turbato dal peccato, da cui viene segnato personalmente; il peccato iniziale intacca e ferisce la natura umana (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 404-406). E l’uomo da solo, uno solo non può uscire da questa situazione, non può redimersi da solo; solamente il Creatore stesso può ripristinare le giuste relazioni. Solo se Colui dal quale ci siamo allontanati viene a noi e ci tende la mano con amore, le giuste relazioni possono essere riannodate. Questo avviene in Gesù Cristo, che compie esattamente il percorso inverso di quello di Adamo, come descrive l’inno nel secondo capitolo della Lettera di San Paolo ai Filippesi (2,5-11): mentre Adamo non riconosce il suo essere creatura e vuole porsi al posto di Dio, Gesù, il Figlio di Dio, è in una relazione filiale perfetta con il Padre, si abbassa, diventa il servo, percorre la via dell’amore umiliandosi fino alla morte di croce, per rimettere in ordine le relazioni con Dio. La Croce di Cristo diventa così il nuovo albero della vita.
Cari fratelli e sorelle, vivere di fede vuol dire riconoscere la grandezza di Dio e accettare la nostra piccolezza, la nostra condizione di creature lasciando che il Signore la ricolmi del suo amore e così cresca la nostra vera grandezza. Il male, con il suo carico di dolore e di sofferenza, è un mistero che viene illuminato dalla luce della fede, che ci dà la certezza di poterne essere liberati: la certezza che è bene essere un uomo.
Grazie.


* * *

Cari amici, sono lieto di accogliere i Vescovi che prendono parte al convegno «Cristiani e Pastori per la Chiesa di domani», promosso dalla Comunità di Sant’Egidio, in coincidenza con l’anniversario della sua fondazione. Benvenuti! Auguro a voi, cari Confratelli, e a tutti i membri di questa Comunità di ravvivare la fede nel Signore e di testimoniare con rinnovato entusiasmo la carità evangelica, in particolare per i deboli e i poveri. Un caloroso saluto rivolgo anche ai Frati Minori Conventuali, che celebrano il loro duecentesimo Capitolo Generale. Cari Fratelli, testimoniate agli uomini di oggi la bellezza di seguire il Vangelo in semplicità e fraternità.

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare ai partecipanti al Corso di formazione umana per il sacerdozio e la vita consacrata, accompagnati dal Card. Elio Sgreccia, al Gruppo dello Studio Teologico Interdiocesano di Camaiore, con l’Arcivescovo di Pisa, Mons. Benotto e alla Pia Opera Croce Verde di Padova, nel centenario della sua attività. Grazie per tutto.

Infine, un pensiero affettuoso ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. L’odierna memoria di San Paolo Miki e dei compagni martiri giapponesi, stimoli voi, cari giovani, in particolare gli studenti dell’Istituto Francescano “Faà di Bruno” di Torino, nel 150° anniversario di fondazione, e quelli delle Scuole Regnum Christi di Roma, a spendere le vostre energie per la causa del Vangelo; aiuti voi, cari ammalati, ad accettare la croce in spirituale unione con il cuore di Cristo; e incoraggi voi, cari sposi novelli, ad avere sempre fiducia nella Provvidenza, anche nei momenti difficili della vostra vita coniugale.


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UDIENZA AI PARTECIPANTI ALL’ASSEMBLEA GENERALE DELLA FRATERNITÀ SACERDOTALE DI SAN CARLO BORROMEO (6 FEBBRAIO 2013) , 07.02.2013

Al termine dell’Udienza Generale di ieri, il Santo Padre Benedetto XVI ha ricevuto in Udienza nell’Auletta dell’Aula Paolo VI i partecipanti all’Assemblea Generale della Fraternità sacerdotale di San Carlo Borromeo (cfr Boll. N. 77), che ha eletto il nuovo Superiore Generale, don Paolo Sottopietra, ed ha loro rivolto le parole che riportiamo di seguito:

PAROLE DEL SANTO PADRE

Eccellenze,
cari Fratelli,

è per me una grande gioia essere con voi. Mi ricordo bene delle mie visite nel Palazzo Borromeo, accanto a Santa Maria Maggiore, dove ho conosciuto personalmente don Giussani; ho conosciuto la sua fede, la sua gioia, la sua forza e la ricchezza delle sue idee, la creatività della fede. È cresciuta una vera amicizia; così, tramite lui, ho conosciuto anche meglio la comunità di Comunione e Liberazione.
E sono lieto che il successore sia con noi; che continua questa grande opera e ispira tante persone, tanti laici, donne e uomini, sacerdoti e laici, per collaborare alla diffusione del Vangelo, alla crescita del Regno di Dio. E qui ho conosciuto anche Massimo Camisasca; abbiamo parlato di diverse cose, ho conosciuto la sua creatività nell’arte, la sua capacità di vedere, interpretare i segni dei tempi, il suo grande dono di educatore, di sacerdote. Una volta ho avuto anche l’onore di ordinare alcuni sacerdoti a Porto Santa Rufina, ed era bello, quindi, conoscere che qui cresce una nuova Fraternità Sacerdotale nello spirito di San Carlo Borromeo, che sempre rimane il grande modello di un Pastore che è realmente stimolato dall’amore di Cristo, cerca i piccoli, li ama e così realmente crea fede e fa crescere la Chiesa.
Adesso la vostra Fraternità è grande, ed è un segno che le vocazioni ci siano. Ma c’è anche la necessità della nostra apertura per trovare, per accompagnare, per guidare e aiutare le vocazioni nella maturazione. Questa è la cosa per la quale ringrazio don Camisasca che ha fatto da grande educatore. Ed oggi l’educazione è sempre fondamentale per la crescita della verità, per la crescita del nostro essere figli di Dio e fratelli di Gesù Cristo.
Adesso, grazie a Dio, conosco anche già da molto tempo il vostro nuovo Superiore Generale, che anche un po’ ha avuto contatto con la mia teologia. Così, sono contento che io possa essere anche spiritualmente ed intellettualmente con voi e che possiamo reciprocamente fecondare il nostro lavoro.
Il Signore vi benedica. Grazie al Signore per questo dono della vostra Fraternità: cresca e si approfondisca sempre, ancora di più nell’amore di Cristo, nell’amore degli uomini per Cristo. Il Signore vi accompagna.
Vi do la Benedizione, sicuro che voi pregate per me, mi accompagnate con la vostra preghiera. Grazie a voi tutti!

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UDIENZA AI PARTECIPANTI ALLA PLENARIA DEL PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA CULTURA, 07.02.2013

Alle ore 12.15 di questa mattina, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza i partecipanti all’Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, in corso dal 6 al 9 febbraio sul tema: "Culture giovanili emergenti".
Dopo l’indirizzo di omaggio del Presidente del Dicastero, Card. Gianfranco Ravasi, il Papa rivolge ai presenti il discorso che pubblichiamo di seguito:

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Cari Amici,

sono veramente lieto di incontrarvi all’apertura dei lavori dell’Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, in cui sarete impegnati a comprendere e approfondire – come ha detto il Presidente –, da diverse prospettive, le "culture giovanili emergenti". Saluto cordialmente il Presidente, Cardinale Gianfranco Ravasi, e lo ringrazio per le cortesi parole che mi ha rivolto a nome di tutti voi. Saluto i Membri, i Consultori e tutti i Collaboratori del Dicastero, augurando un proficuo lavoro, che offrirà un utile contributo per l’azione che la Chiesa svolge nei confronti della realtà giovanile; una realtà, come è stato detto, complessa e articolata, che non può più essere compresa all’interno di un universo culturale omogeneo, bensì in un orizzonte che può definirsi "multiverso", determinato cioè da una pluralità di visioni, di prospettive, di strategie. Per questo è opportuno parlare di "culture giovanili", atteso che gli elementi che distinguono e differenziano i fenomeni e gli ambiti culturali prevalgono su quelli, pur presenti, che invece li accomunano. Numerosi fattori concorrono, infatti, a disegnare un panorama culturale sempre più frammentato e in continua, velocissima evoluzione, a cui non sono certo estranei i social media, i nuovi strumenti di comunicazione che favoriscono e, talvolta, provocano essi stessi continui e rapidi cambiamenti di mentalità, di costume, di comportamento.
Si riscontra, così, un clima diffuso di instabilità che tocca l’ambito culturale, come quello politico ed economico – quest’ultimo segnato anche dalle difficoltà dei giovani a trovare un lavoro - per incidere soprattutto a livello psicologico e relazionale.
L’incertezza e la fragilità che connotano tanti giovani, non di rado li spingono alla marginalità, li rendono quasi invisibili e assenti nei processi storici e culturali delle società. E sempre più frequentemente fragilità e marginalità sfociano in fenomeni di dipendenza dalle droghe, di devianza, di violenza. La sfera affettiva ed emotiva, l’ambito dei sentimenti, come quello della corporeità, sono fortemente interessati da questo clima e dalla temperie culturale che ne consegue, espressa, ad esempio, da fenomeni apparentemente contraddittori, come la spettacolarizzazione della vita intima e personale e la chiusura individualistica e narcisistica sui propri bisogni ed interessi. Anche la dimensione religiosa, l’esperienza di fede e l’appartenenza alla Chiesa sono spesso vissute in una prospettiva privatistica ed emotiva.
Non mancano, però, fenomeni decisamente positivi.
Gli slanci generosi e coraggiosi di tanti giovani volontari che dedicano ai fratelli più bisognosi le loro migliori energie; le esperienze di fede sincera e profonda di tanti ragazzi e ragazze che con gioia testimoniano la loro appartenenza alla Chiesa; gli sforzi compiuti per costruire, in tante parti del mondo, società capaci di rispettare la libertà e la dignità di tutti, cominciando dai più piccoli e deboli. Tutto questo ci conforta e ci aiuta a tracciare un quadro più preciso ed obiettivo delle culture giovanili. Non ci si può, dunque, accontentare di leggere i fenomeni culturali giovanili secondo paradigmi consolidati, ma divenuti ormai dei luoghi comuni, o di analizzarli con metodi non più utili, partendo da categorie culturali superate e non adeguate.
Ci troviamo, in definitiva, di fronte ad una realtà quanto mai complessa ma anche affascinante, che va compresa in maniera approfondita e amata con grande spirito di empatia, una realtà di cui bisogna saper cogliere con attenzione le linee di fondo e gli sviluppi. Guardando, ad esempio, i giovani di tanti Paesi del cosiddetto "Terzo mondo", ci rendiamo conto che essi rappresentano, con le loro culture e con i loro bisogni, una sfida alla società del consumismo globalizzato, alla cultura dei privilegi consolidati, di cui beneficia una ristretta cerchia della popolazione del mondo occidentale.
Le culture giovanili, di conseguenza, diventano "emergenti" anche nel senso che manifestano un bisogno profondo, una richiesta di aiuto o addirittura una "provocazione", che non può essere ignorata o trascurata, sia dalla società civile sia dalla Comunità ecclesiale. Più volte ho manifestato, ad esempio, la preoccupazione mia e di tutta la Chiesa per la cosiddetta "emergenza educativa", a cui vanno sicuramente affiancate altre "emergenze", che toccano le diverse dimensioni della persona e le sue relazioni fondamentali e a cui non si può rispondere in modo evasivo e banale. Penso, ad esempio, alla crescente difficoltà nel campo del lavoro o alla fatica di essere fedeli nel tempo alle responsabilità assunte. Ne deriverebbe, per il futuro del mondo e di tutta l’umanità, un impoverimento non solo economico e sociale ma soprattutto umano e spirituale: se i giovani non sperassero e non progredissero più, se non inserissero nelle dinamiche storiche la loro energia, la loro vitalità, la loro capacità di anticipare il futuro, ci ritroveremmo un’umanità ripiegata su se stessa, priva di fiducia e di uno sguardo positivo verso il domani.
Pur consapevoli delle tante situazioni problematiche, che toccano anche l’ambito della fede e dell’appartenenza alla Chiesa, vogliamo rinnovare la nostra fiducia nei giovani, riaffermare che la Chiesa guarda alla loro condizione, alle loro culture, come ad un punto di riferimento essenziale ed ineludibile per la sua azione pastorale.
Per questo vorrei riprendere nuovamente alcuni significativi passaggi del Messaggio che il Concilio Vaticano II rivolse ai giovani, affinché sia motivo di riflessione e di stimolo per le nuove generazioni. Anzitutto, in questo Messaggio, si affermava: «La Chiesa vi guarda con fiducia e con amore… Essa possiede ciò che fa la forza o la bellezza dei giovani: la capacità di rallegrarsi per ciò che comincia, di darsi senza ritorno, di rinnovarsi e di ripartire per nuove conquiste». Quindi il Venerabile Paolo VI rivolgeva questo appello ai giovani del mondo: «È a nome di questo Dio e del suo Figlio Gesù che noi vi esortiamo ad ampliare i vostri cuori secondo le dimensioni del mondo, ad intendere l’appello dei vostri fratelli, ed a mettere arditamente le vostre giovani energie al loro servizio. Lottate contro ogni egoismo. Rifiutate di dar libero corso agli istinti della violenza e dell’odio, che generano le guerre e il loro triste corteo di miserie. Siate generosi, puri, rispettosi, sinceri. E costruite nell’entusiasmo un mondo migliore di quello attuale!».
Anch’io voglio ribadirlo con forza: la Chiesa ha fiducia nei giovani, spera in essi e nelle loro energie, ha bisogno di loro e della loro vitalità, per continuare a vivere con rinnovato slancio la missione affidatale da Cristo. Auspico vivamente, dunque, che l’Anno della fede sia, anche per le giovani generazioni, un’occasione preziosa per ritrovare e rafforzare l’amicizia con Cristo, da cui far scaturire la gioia e l’entusiasmo per trasformare profondamente le culture e le società.
Cari amici, ringraziando per l’impegno che con generosità ponete a servizio della Chiesa, e per la particolare attenzione che rivolgete ai giovani, di cuore vi imparto la mia Apostolica Benedizione. Grazie.

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UDIENZA AI MEMBRI DEL SOVRANO MILITARE ORDINE DI MALTA , 09.02.2013

Alle ore 12 di questa mattina, nella Basilica Vaticana, al termine della Celebrazione Eucaristica presieduta dal Cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone, il Santo Padre Benedetto XVI incontra i Membri del Sovrano Militare Ordine di Malta (S.M.O.M.) in occasione del IX centenario del riconoscimento ufficiale dell’Istituzione ospitaliera, avvenuto mediante la Bolla Piae postulatio voluntatis del 15 febbraio 1113.
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa rivolge ai presenti:

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle!

Sono lieto di accogliere e di salutare ciascuno di voi, Cavalieri e Dame, Cappellani e volontari, del Sovrano Militare Ordine di Malta. Saluto, in modo speciale, il Gran Maestro Sua Altezza Eminentissima Fra’ Matthew Festing, ringraziandolo per le cordiali espressioni che mi ha rivolto a nome di tutti voi; ringrazio anche per l’offerta che avete voluto consegnarmi e che ho destinato ad un’opera di carità. Il mio affettuoso pensiero va ai Cardinali e ai Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato, in particolare al mio Segretario di Stato, che ha presieduto poc’anzi l’Eucaristia, e al Cardinale Paolo Sardi, Patrono dell’Ordine, che ringrazio per la premura con la quale si adopera per consolidare lo speciale vincolo che vi lega alla Chiesa cattolica e in modo peculiare alla Santa Sede. Con riconoscenza saluto l’Arcivescovo Angelo Acerbi, vostro Prelato. Un saluto, infine, ai Diplomatici, come pure a tutte le alte Personalità e le Autorità qui presenti.
L’occasione di questo incontro è data dal nono centenario del solenne privilegio Pie postulatio voluntatis del 15 febbraio 1113, con cui Papa Pasquale II poneva la neonata "fraternità ospedaliera" di Gerusalemme, intitolata a San Giovanni Battista, sotto la tutela della Chiesa, e la rendeva sovrana, costituendola in un Ordine di diritto ecclesiale, con facoltà di eleggere liberamente i suoi superiori, senza interferenza da parte di altre autorità laiche o religiose. Questa importante ricorrenza riveste uno speciale significato nel contesto dell’Anno della Fede, durante il quale la Chiesa è chiamata a rinnovare la gioia e l’impegno di credere in Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo. Al riguardo, anche voi siete chiamati ad accogliere questo tempo di grazia per approfondire la conoscenza del Signore e per far risplendere la verità e la bellezza della fede, con la testimonianza della vostra vita e del vostro servizio, nell’oggi del nostro tempo.
Il vostro Ordine, fin dagli inizi, si è distinto per la fedeltà alla Chiesa e al Successore di Pietro, come anche per la sua irrinunciabile fisionomia spirituale, caratterizzata dall’alto ideale religioso. Continuate a camminare su questa strada, testimoniando in modo concreto la forza trasformante della fede. Per fede gli Apostoli lasciarono ogni cosa per seguire Gesù, e poi andarono nel mondo intero, attuando il mandato di portare il Vangelo ad ogni creatura; senza alcun timore annunciarono a tutti la forza della croce e la gioia della Risurrezione di Cristo, di cui furono diretti testimoni. Per fede i martiri donarono la loro vita, mostrando la verità del Vangelo che li aveva trasformati e resi capaci di giungere fino al dono più grande, frutto dell’amore, con il perdono dei propri persecutori. E per fede, nel corso dei secoli, i membri del vostro Ordine si sono prodigati, prima nell’assistenza degli infermi in Gerusalemme e poi nel soccorso dei pellegrini in Terrasanta esposti a gravi pericoli, scrivendo luminose pagine di carità cristiana e di tutela della cristianità. Nel XIX secolo l’Ordine si aprì a nuovi e più ampi spazi di attività in campo assistenziale e a servizio degli ammalati e dei poveri, ma senza mai rinunciare agli ideali originari, specialmente quello dell’intensa vita spirituale dei singoli membri. In questa direzione deve proseguire il vostro impegno con un’attenzione del tutto particolare alla consacrazione religiosa – quella dei Professi - che costituisce il cuore dell’Ordine. Non dovete dimenticare mai le vostre radici, quando il beato Gerardo e i suoi compagni si consacrarono con i voti al servizio dei poveri, e il privilegio Pie postulatio voluntatis sancì la loro vocazione. I membri della neonata istituzione si configuravano così con i tratti della vita religiosa: l’impegno per raggiungere la perfezione cristiana mediante la professione dei tre voti, il carisma a cui consacrarsi e la fraternità tra i membri. La vocazione del professo, anche oggi, deve essere oggetto di grande cura, unita all’attenzione per la vita spirituale di tutti.
In questo senso, il vostro Ordine, rispetto ad altre realtà impegnate in ambito internazionale nell’assistenza ai malati, nella solidarietà e nella promozione umana, si distingue per l’ispirazione cristiana che costantemente deve orientare l’impegno sociale dei suoi membri. Sappiate conservare e coltivare questo vostro carattere qualificante ed operate con rinnovato ardore apostolico, sempre in atteggiamento di profonda sintonia con il Magistero della Chiesa.
La vostra preziosa e benefica opera, articolata in vari ambiti e svolta in diverse parti del mondo, concentrata in particolare nel servizio al malato con strutture ospedaliere e sanitarie, non è semplice filantropia, ma espressione efficace e testimonianza viva dell’amore evangelico.
Nella Sacra Scrittura il richiamo all’amore del prossimo è legato al comandamento di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze (cfr Mc 12,29-31). Di conseguenza, l’amore del prossimo corrisponde al mandato e all’esempio di Cristo, se si fonda su un vero amore verso Dio. È così possibile per il cristiano, attraverso la sua dedizione, far sperimentare agli altri la tenerezza provvidente del Padre celeste, grazie ad una sempre più profonda conformazione a Cristo. Per dare amore ai fratelli è necessario attingerlo alla fornace della carità divina, mediante la preghiera, il costante ascolto della Parola di Dio e un’esistenza incentrata sull’Eucaristia. La vostra vita di ogni giorno dev’essere penetrata dalla presenza di Gesù, sotto il cui sguardo siete chiamati a porre anche le sofferenze degli ammalati, la solitudine degli anziani, le difficoltà dei disabili. Andando incontro a queste persone, voi servite Cristo: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40).
Cari amici, continuate ad operare nella società e nel mondo lungo le strade maestre indicate dal Vangelo: la fede e la carità, per ravvivare la speranza. La fede, quale testimonianza di adesione a Cristo e di impegno nella missione evangelica, che vi stimola ad una presenza sempre più viva nella comunità ecclesiale e ad una sempre più consapevole appartenenza al Popolo di Dio; la carità, quale espressione di fraternità in Cristo, attraverso le opere di misericordia per gli ammalati, i poveri, i bisognosi di amore, di conforto e di assistenza, gli afflitti dalla solitudine, dallo smarrimento e dalle nuove povertà materiali e spirituali. Tali ideali sono bene espressi nel vostro motto: «Tuitio fidei et Obsequium pauperum». Queste parole ben sintetizzano il carisma del vostro Ordine che, come soggetto di diritto internazionale, non ambisce ad esercitare poteri ed influenze di carattere mondano, ma desidera svolgere in piena libertà la propria missione per il bene integrale dell’uomo, spirito e corpo, guardando sia ai singoli che alla comunità, soprattutto a coloro che più hanno bisogno di speranza e di amore.
La Vergine Santa - la Beata Vergine di Fileremo - sostenga con la sua materna protezione i vostri propositi e i vostri progetti; il vostro celeste protettore San Giovanni Battista e il beato Gerardo, i Santi e Beati dell’Ordine vi accompagnino con la loro intercessione. Da parte mia, vi assicuro di pregare per voi qui presenti, per tutti i membri dell’Ordine, come pure per i numerosi e benemeriti volontari, tra i quali il nutrito gruppo dei bambini, e per quanti vi affiancano nelle vostre attività, mentre con affetto vi imparto una speciale Benedizione Apostolica, che estendo volentieri alle vostre famiglie.

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"LECTIO DIVINA" DEL SANTO PADRE AI SEMINARISTI ROMANI

Eminenza,
cari Fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio,
cari amici!

E’ per me ogni anno una grande gioia essere qui con voi, vedere tanti giovani che camminano verso il sacerdozio, che sono attenti alla voce del Signore, vogliono seguire questa voce e cercano la strada per servire il Signore in questo nostro tempo.
Abbiamo ascoltato tre versetti dalla Prima Lettera di San Pietro (cfr 1,3-5). Prima di entrare in questo testo, mi sembra importante proprio essere attenti al fatto che è Pietro che parla. Le prime due parole della Lettera sono “Petrus apostolus” (cfr v. 1): lui parla, e parla alle Chiese in Asia e chiama i fedeli “eletti e stranieri dispersi” (ibidem). Riflettiamo un po’ su questo. Pietro parla, e parla - come si sente alla fine della Lettera - da Roma, che ha chiamato “Babilonia” (cfr 5,13). Pietro parla: quasi una prima enciclica, con la quale il primo apostolo, vicario di Cristo, parla alla Chiesa di tutti i tempi.
Pietro, apostolo. Parla quindi colui che ha trovato in Cristo Gesù il Messia di Dio, che ha parlato come primo in nome della Chiesa futura: “Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo” (cfr Mt 16,16). Parla colui che ci ha introdotto in questa fede. Parla colui al quale il Signore ha detto: “Ti trasmetto le chiavi del regno dei cieli” (cfr Mt 16,19), al quale ha affidato il suo gregge dopo la Risurrezione, dicendogli tre volte: “Pascola il mio gregge, le mie pecore” (cfr Gv 21,15-17).
Parla anche l’uomo che è caduto, che ha negato Gesù e che ha avuto la grazia di vedere lo sguardo di Gesù, di essere toccato nel suo cuore e di avere trovato il perdono e un rinnovamento della sua missione. Ma è soprattutto importante che questo uomo, pieno di passione, di desiderio di Dio, di desiderio del regno di Dio, del Messia, che quest’uomo che ha trovato Gesù, il Signore e il Messia, è anche l’uomo che ha peccato, che è caduto, e tuttavia è rimasto sotto gli occhi del Signore e così rimane responsabile per la Chiesa di Dio, rimane incaricato da Cristo, rimane portatore del suo amore.
Parla Pietro l’apostolo, ma gli esegeti ci dicono: non è possibile che questa Lettera sia di Pietro, perché il greco è talmente buono che non può essere il greco di un pescatore del Lago di Galilea. E non solo il linguaggio, la struttura della lingua è ottima, ma anche il pensiero è già abbastanza maturo, ci sono già formule concrete nelle quali si condensa la fede e la riflessione della Chiesa. Quindi essi dicono: è già uno stato di sviluppo che non può essere quello di Pietro.
Come rispondere? Vi sono due posizioni importanti: primo, Pietro stesso – cioè la Lettera – ci dà una chiave perché alla fine dello Scritto dice: “Vi scrivo tramite Silvano – dia Silvano”. Questo tramite [dia] può significare diverse cose: può significare che lui [Silvano] trasporta, trasmette; può voler dire che lui ha aiutato nella redazione; può dire che lui realmente era lo scrittore pratico. In ogni caso, possiamo concludere che la Lettera stessa ci indica che Pietro non è stato solo nello scrivere questa Lettera, ma esprime la fede di una Chiesa che è già in cammino di fede, in una fede sempre più matura. Non scrive da solo, individuo isolato, scrive con l’aiuto della Chiesa, delle persone che aiutano ad approfondire la fede, ad entrare nella profondità del suo pensiero, della sua ragionevolezza, della sua profondità. E questo è molto importante: non parla Pietro come individuo, parla ex persona Ecclesiae, parla come uomo della Chiesa, certamente come persona, con la sua responsabilità personale, ma anche come persona che parla in nome della Chiesa: non solo idee private, non come un genio del secolo XIX che voleva esprimere solo idee personali, originali, che nessuno avrebbe potuto dire prima. No. Non parla come genio individualistico, ma parla proprio nella comunione della Chiesa.
Nell’Apocalisse, nella visione iniziale di Cristo è detto che la voce di Cristo è la voce di molte acque (cfr Ap 1,15). Questo vuol dire: la voce di Cristo riunisce tutte le acque del mondo, porta in sé tutte le acque vive che danno vita al mondo; è Persona, ma proprio questa è la grandezza del Signore, che porta in sé tutto il fiume dell’Antico Testamento, anzi, della saggezza dei popoli. E quanto qui è detto sul Signore vale, in altro modo, anche per l’apostolo, che non vuole dire una parola solo sua, ma porta in sé realmente le acque della fede, le acque di tutta la Chiesa, e proprio così dà fertilità, dà fecondità e proprio così è un testimone personale che si apre al Signore, e così diventa aperto e largo. Quindi, questo è importante.
Poi mi sembra anche importante che in questa conclusione della Lettera vengono nominati Silvano e Marco, due persone che appartengono anche alle amicizie di san Paolo.
Così, tramite questa conclusione, i mondi di san Pietro e di san Paolo vanno insieme: non è una teologia esclusivamente petrina contro una teologia paolina, ma è una teologia della Chiesa, della fede della Chiesa, nella quale c’è diversità – certamente – di temperamento, di pensiero, di stile nel parlare tra Paolo e Pietro. E’ bene che ci siano queste diversità, anche oggi, di diversi carismi, di diversi temperamenti, ma tuttavia non sono contrastanti e si uniscono nella comune fede.
Vorrei dire ancora una cosa: san Pietro scrive da Roma. E’ importante: qui abbiamo già il Vescovo di Roma, abbiamo l’inizio della successione, abbiamo già l’inizio del primato concreto collocato a Roma, non solo consegnato dal Signore, ma collocato qui, in questa città, in questa capitale del mondo. Come è venuto Pietro a Roma? Questa è una domanda seria.
Gli Atti degli Apostoli ci raccontano che, dopo la sua fuga dal carcere di Erode, è andato in un altro luogo (cfr 12,17) – eis eteron topon –, non si sa in quale altro luogo; alcuni dicono Antiochia, alcuni dicono Roma. In ogni caso, in questo capitolo, va detto anche che, prima di fuggire, ha affidato la Chiesa giudeo-cristiana, la Chiesa di Gerusalemme, a Giacomo e, affidandola a Giacomo, egli tuttavia rimane Primate della Chiesa universale, della Chiesa dei pagani, ma anche della Chiesa giudeo-cristiana. E qui a Roma ha trovato una grande comunità giudeo-cristiana. I liturgisti ci dicono che nel Canone romano ci sono tracce di un linguaggio tipicamente giudeo-cristiano; così vediamo che in Roma si trovano ambedue le parti della Chiesa: quella giudeo cristiana e quella pagano-cristiana, unite, espressione della Chiesa universale. E per Pietro certamente il passaggio da Gerusalemme a Roma è il passaggio all’universalità della Chiesa, il passaggio alla Chiesa dei pagani e di tutti i tempi, alla Chiesa anche sempre degli ebrei. E penso che, andando a Roma, san Pietro non solo ha pensato a questo passaggio: Gerusalemme/Roma, Chiesa giudeo-cristiana/Chiesa universale. Certamente si è ricordato anche delle ultime parole di Gesù a lui rivolte, riportate da san Giovanni: “Alla fine, tu andrai dove non vuoi andare. Ti cingeranno, estenderanno le tue mani” (cfr Gv 21,18). E’ una profezia della crocifissione. I filologi ci mostrano che è un’espressione precisa, tecnica, questo “estendere le mani”, per la crocifissione. San Pietro sapeva che la sua fine sarebbe stato il martirio, sarebbe stata la croce. E così, sarà nella completa sequela di Cristo. Quindi, andando a Roma certamente è andato anche al martirio: in Babilonia lo aspettava il martirio. Quindi, il primato ha questo contenuto della universalità, ma anche un contenuto martirologico. Dall’inizio, Roma è anche luogo del martirio.
Andando a Roma, Pietro accetta di nuovo questa parola del Signore: va verso la Croce, e ci invita ad accettare anche noi l’aspetto martirologico del cristianesimo, che può avere forme molto diverse. E la croce può avere forme molto diverse, ma nessuno può essere cristiano senza seguire il Crocifisso, senza accettare anche il momento martirologico.
Dopo queste parole sul mittente, una breve parola anche sulle persone alle quali è scritto. Ho già detto che san Pietro definisce quelli ai quali scrive con le parole “eklektois parepidemois”, “agli eletti che sono stranieri dispersi” (cfr 1 Pt 1,1). Abbiamo di nuovo questo paradosso di gloria e croce: eletti, ma dispersi e stranieri. Eletti: questo era il titolo di gloria di Israele: noi siamo gli eletti, Dio ha eletto questo piccolo popolo non perché noi siamo grandi - dice il Deuteronomio - ma perché lui ci ama (cfr 7,7-8). Siamo eletti: questo, adesso san Pietro lo trasferisce a tutti i battezzati, e il contenuto proprio dei primi capitoli della sua Prima Lettera è che i battezzati entrano nei privilegi di Israele, sono il nuovo Israele. Eletti: mi sembra valga la pena di riflettere su questa parola.
Siamo eletti. Dio ci ha conosciuto da sempre, prima della nostra nascita, del nostro concepimento; Dio mi ha voluto come cristiano, come cattolico, mi ha voluto come sacerdote. Dio ha pensato a me, ha cercato me tra milioni, tra tanti, ha visto me e mi ha eletto, non per i miei meriti che non c’erano, ma per la sua bontà; ha voluto che io sia portatore della sua elezione, che è anche sempre missione, soprattutto missione, e responsabilità per gli altri. Eletti: dobbiamo essere grati e gioiosi per questo fatto. Dio ha pensato a me, ha eletto me come cattolico, me come portatore del suo Vangelo, come sacerdote. Mi sembra che valga la pena di riflettere diverse volte su questo, e rientrare di nuovo in questo fatto della sua elezione: mi ha eletto, mi ha voluto; adesso io rispondo.
Forse oggi siamo tentati di dire: non vogliamo essere gioiosi di essere eletti, sarebbe trionfalismo. Trionfalismo sarebbe se noi pensassimo che Dio mi ha eletto perché io sono così grande. Questo sarebbe realmente trionfalismo sbagliato. Ma essere lieti perché Dio mi ha voluto non è trionfalismo, ma è gratitudine, e penso che dobbiamo re-imparare questa gioia: Dio ha voluto che io sia nato così, in una famiglia cattolica, che abbia conosciuto dall’inizio Gesù. Che dono essere voluto da Dio, così che ho potuto conoscere il suo volto, che ho potuto conoscere Gesù Cristo, il volto umano di Dio, la storia umana di Dio in questo mondo! Essere gioiosi perché mi ha eletto per essere cattolico, per essere in questa Chiesa sua, dove subsistit Ecclesia unica; dobbiamo essere gioiosi perché Dio mi ha dato questa grazia, questa bellezza di conoscere la pienezza della verità di Dio, la gioia del suo amore.
Eletti: una parola di privilegio e di umiltà nello stesso momento. Ma “eletti” è – come dicevo – accompagnato da “parapidemois”, dispersi, stranieri. Da cristiani siamo dispersi e siamo stranieri: vediamo che oggi nel mondo i cristiani sono il gruppo più perseguitato perché non conforme, perché è uno stimolo, perché contro le tendenze dell’egoismo, del materialismo, di tutte queste cose.
Certamente i cristiani sono non solo stranieri; siamo anche nazioni cristiane, siamo fieri di aver contribuito alla formazione della cultura; c’è un sano patriottismo, una sana gioia di appartenere ad una nazione che ha una grande storia di cultura, di fede. Ma, tuttavia, come cristiani, siamo sempre anche stranieri - la sorte di Abramo, descritta nella Lettera agli Ebrei. Siamo, come cristiani, proprio oggi, anche sempre stranieri. Nei posti di lavoro i cristiani sono una minoranza, si trovano in una situazione di estraneità; meraviglia che uno oggi possa ancora credere e vivere così.
Questo appartiene anche alla nostra vita: è la forma di essere con Cristo Crocifisso; questo essere stranieri, non vivendo secondo il modo in cui vivono tutti, ma vivendo – o cercando almeno di vivere – secondo la sua Parola, in una grande diversità rispetto a quanto dicono tutti. E proprio questo per i cristiani è caratteristico. Tutti dicono: “Ma tutti fanno così, perché non io?” No, io no, perché voglio vivere secondo Dio. Sant’Agostino una volta ha detto: “I cristiani sono quelli che non hanno le radici in giù come gli alberi, ma hanno le radici in su, e vivono questa gravitazione non nella gravitazione naturale verso il basso”. Preghiamo il Signore perché ci aiuti ad accettare questa missione di vivere come dispersi, come minoranza, in un certo senso; di vivere come stranieri e tuttavia di essere responsabili per gli altri e, proprio così, dando forza al bene nel nostro mondo.
Arriviamo finalmente ai tre versetti di oggi. Vorrei solo sottolineare, o diciamo un po’ interpretare, per quanto posso, tre parole: la parola rigenerati, la parola eredità e la parola custoditi dalla fede. Rigenerati - anaghennesas, dice il testo greco - vuol dire: essere cristiano non è semplicemente una decisione della mia volontà, un’idea mia; io vedo che è un gruppo che mi piace, mi faccio membro di questo gruppo, condivido i loro obiettivi eccetera. No: essere cristiano non è entrare in un gruppo per fare qualcosa, non è un atto solo della mia volontà, non primariamente della mia volontà, della mia ragione: è un atto di Dio. Rigenerato non concerne solo la sfera della volontà, del pensare, ma la sfera dell’essere. Sono rinato: questo vuol dire che divenire cristiano è innanzitutto passivo; io non posso farmi cristiano, ma vengo fatto rinascere, vengo rifatto dal Signore nella profondità del mio essere. Ed io entro in questo processo del rinascere, mi lascio trasformare, rinnovare, rigenerare.
Questo mi sembra molto importante: da cristiano non mi faccio solo un’idea mia che condivido con alcuni altri, e se non mi piacciono più posso uscire. No: concerne proprio la profondità dell’essere, cioè il divenire cristiano comincia con un’azione di Dio, soprattutto un’azione sua, ed io mi lascio formare e trasformare.
Mi sembra sia materia di riflessione, proprio in un anno in cui riflettiamo sui Sacramenti dell’Iniziazione cristiana, meditare questo: questo passivo e attivo profondo dell’essere rigenerato, del divenire di tutta una vita cristiana, del lasciarmi trasformare dalla sua Parola, per la comunione della Chiesa, per la vita della Chiesa, per i segni con i quali il Signore lavora in me, lavora con me e per me. E rinascere, essere rigenerati, indica anche che entro così in una nuova famiglia: Dio, il Padre mio, la Chiesa, mia Madre, gli altri cristiani, miei fratelli e sorelle. Essere rigenerati, lasciarsi rigenerare implica, quindi, anche questo lasciarsi volutamente inserire in questa famiglia, vivere per Dio Padre e da Dio Padre, vivere dalla comunione con Cristo suo Figlio, che mi rigenera per la sua Risurrezione, come dice la Lettera (cfr 1 Pt 1,3), vivere con la Chiesa lasciandomi formare dalla Chiesa in tanti sensi, in tanti cammini, ed essere aperto ai miei fratelli, riconoscere negli altri realmente i miei fratelli, che con me vengono rigenerati, trasformati, rinnovati; uno porta responsabilità per l’altro. Una responsabilità quindi del Battesimo che è un processo di tutta una vita.
Seconda parola: eredità. E’ una parola molto importante nell’Antico Testamento, dove è detto ad Abramo che il suo seme sarà erede della terra, e questa è stata sempre la promessa per i suoi: Voi avrete la terra, sarete eredi della terra.
Nel Nuovo Testamento, questa parola diventa parola per noi: noi siamo eredi, non di un determinato Paese, ma della terra di Dio, del futuro di Dio. Eredità è una cosa del futuro, e così questa parola dice soprattutto che da cristiani abbiamo il futuro: il futuro è nostro, il futuro è di Dio. E così, essendo cristiani, sappiamo che nostro è il futuro e l’albero della Chiesa non è un albero morente, ma l’albero che cresce sempre di nuovo. Quindi, abbiamo motivo di non lasciarci impressionare - come ha detto Papa Giovanni - dai profeti di sventura, che dicono: la Chiesa, bene, è un albero venuto dal grano di senape, cresciuto in due millenni, adesso ha il tempo dietro di sé, adesso è il tempo in cui muore”. No. La Chiesa si rinnova sempre, rinasce sempre. Il futuro è nostro. Naturalmente, c’è un falso ottimismo e un falso pessimismo. Un falso pessimismo che dice: il tempo del cristianesimo è finito. No: comincia di nuovo! Il falso ottimismo era quello dopo il Concilio, quando i conventi chiudevano, i seminari chiudevano, e dicevano: ma … niente, va tutto bene … No! Non va tutto bene. Ci sono anche cadute gravi, pericolose, e dobbiamo riconoscere con sano realismo che così non va, non va dove si fanno cose sbagliate. Ma anche essere sicuri, allo stesso tempo, che se qua e là la Chiesa muore a causa dei peccati degli uomini, a causa della loro non credenza, nello stesso tempo, nasce di nuovo. Il futuro è realmente di Dio: questa è la grande certezza della nostra vita, il grande, vero ottimismo che sappiamo. La Chiesa è l’albero di Dio che vive in eterno e porta in sé l’eternità e la vera eredità: la vita eterna.
E, infine, custoditi dalla fede. Il testo del Nuovo Testamento, della Lettera di San Pietro, usa qui una parola rara, phrouroumenoi, che vuol dire: ci sono “i vigili”, e la fede è come “il vigile” che custodisce l’integrità del mio essere, della mia fede. Questa parola interpreta soprattutto i “vigili” delle porte di una città, dove essi stanno e custodiscono la città, affinché non sia invasa da poteri di distruzione.
Così la fede è “vigile” del mio essere, della mia vita, della mia eredità. Dobbiamo essere grati per questa vigilanza della fede che ci protegge, ci aiuta, ci guida, ci da la sicurezza: Dio non mi lascia cadere dalle sue mani. Custoditi dalla fede: così concludo. Parlando della fede devo sempre pensare a quella donna siro-fenicia malata, che, in mezzo alla folla, trova accesso a Gesù, lo tocca per essere guarita, ed è guarita. Il Signore dice: “Chi mi ha toccato?”. Gli dicono: “Ma Signore, tutti ti toccano, come puoi chiedere: chi mi ha toccato?” (cfr Mc 7,24-30). Ma il Signore sa: c’è un modo di toccarlo, superficiale, esteriore, che non ha realmente nulla a che fare con un vero incontro con Lui. E c’è un modo di toccarlo profondamente. E questa donna lo ha toccato veramente: toccato non solo con la mano, ma con il suo cuore e così ha ricevuto la forza sanatrice di Cristo, toccandolo realmente dall’interno, dalla fede. Questa è la fede: toccare con la mano della fede, con il nostro cuore Cristo e così entrare nella forza della sua vita, nella forza risanante del Signore. E preghiamo il Signore che sempre più possiamo toccarlo così da essere risanati. Preghiamo che non ci lasci cadere, che sempre anche essa ci tenga per mano e così ci custodisca per la vera vita. Grazie.

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"CON IL CUORE SPEZZATO... SEMPRE CON TE!"
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LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS , 10.02.2013

Alle ore 12 di oggi il Santo Padre Benedetto XVI si affaccia alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare l’Angelus con i fedeli ed i pellegrini convenuti in Piazza San Pietro.
Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:

PRIMA DELL’ANGELUS

Cari fratelli e sorelle!

Nella liturgia odierna, il Vangelo secondo Luca presenta il racconto della chiamata dei primi discepoli, con una versione originale rispetto agli altri due Sinottici, Matteo e Marco (cfr Mt 4,18-22; Mc 1,16-20). La chiamata, infatti, è preceduta dall’insegnamento di Gesù alla folla e da una pesca miracolosa, compiuta per volontà del Signore (Lc 5,1-6). Mentre infatti la folla si accalca sulla riva del lago di Gennèsaret per ascoltare Gesù, Egli vede Simone sfiduciato per non aver pescato nulla tutta la notte. Dapprima gli chiede di poter salire sulla sua barca per predicare alla gente stando a poca distanza dalla riva; poi, finita la predicazione, gli comanda di uscire al largo con i suoi compagni e di gettare le reti (cfr v. 5). Simone obbedisce, ed essi pescano una quantità incredibile di pesci. In questo modo, l’evangelista fa vedere come i primi discepoli seguirono Gesù fidandosi di Lui, fondandosi sulla sua Parola, accompagnata anche da segni prodigiosi. Osserviamo che, prima di questo segno, Simone si rivolge a Gesù chiamandolo «Maestro» (v. 5), mentre dopo lo chiama «Signore» (v. 7). E’ la pedagogia della chiamata di Dio, che non guarda tanto alle qualità degli eletti, ma alla loro fede, come quella di Simone che dice: «Sulla tua parola getterò le reti» (v. 5).
L’immagine della pesca rimanda alla missione della Chiesa. Commenta al riguardo sant’Agostino: «Due volte i discepoli si misero a pescare dietro comando del Signore: una volta prima della passione e un’altra dopo la risurrezione. Nelle due pesche è raffigurata l’intera Chiesa: la Chiesa come è adesso e come sarà dopo la risurrezione dei morti. Adesso accoglie una moltitudine impossibile a enumerarsi, comprendente i buoni e i cattivi; dopo la risurrezione comprenderà solo i buoni» (Discorso 248,1). L’esperienza di Pietro, certamente singolare, è anche rappresentativa della chiamata di ogni apostolo del Vangelo, che non deve mai scoraggiarsi nell’annunciare Cristo a tutti gli uomini, fino ai confini del mondo. Tuttavia, il testo odierno fa riflettere sulla vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata. Essa è opera di Dio. L’uomo non è autore della propria vocazione, ma dà risposta alla proposta divina; e la debolezza umana non deve far paura se Dio chiama. Bisogna avere fiducia nella sua forza che agisce proprio nella nostra povertà; bisogna confidare sempre più nella potenza della sua misericordia, che trasforma e rinnova.
Cari fratelli e sorelle, questa Parola di Dio ravvivi anche in noi e nelle nostre comunità cristiane il coraggio, la fiducia e lo slancio nell’annunciare e testimoniare il Vangelo. Gli insuccessi e le difficoltà non inducano allo scoraggiamento: a noi spetta gettare le reti con fede, il Signore fa il resto. Confidiamo anche nell’intercessione della Vergine Maria, Regina degli Apostoli. Alla chiamata del Signore, Ella, ben consapevole della sua piccolezza, rispose con totale affidamento: «Eccomi». Col suo materno aiuto, rinnoviamo la nostra disponibilità a seguire Gesù, Maestro e Signore.

DOPO L’ANGELUS

Oggi, vari Popoli dell’Estremo Oriente festeggiano il capodanno lunare. Pace, armonia e ringraziamento al Cielo sono i valori universali che si celebrano in questa lieta circostanza e sono desiderati da tutti per costruire la propria famiglia, la società e la nazione. Auguro che si possano compiere per quei Popoli le aspirazioni di una vita felice e prospera. Invio un saluto speciale ai cattolici di quei Paesi, affinché in quest’Anno della fede si lascino guidare dalla saggezza di Cristo.

Domani, memoria liturgica della Beata Vergine Maria di Lourdes, ricorrerà la Giornata Mondiale del Malato. La celebrazione solenne avrà luogo nel Santuario mariano di Altötting, in Baviera. Con la preghiera e con l’affetto sono vicino a tutti i malati e mi unisco spiritualmente a quanti si raduneranno in quel Santuario, a me particolarmente caro.

Chers pèlerins francophones, la Journée mondiale du malade célébrée demain nous invite à être attentifs aux personnes qui souffrent. Par l’affection et l’aide que nous leur apportons, elles peuvent retrouver l’espérance et la confiance en Dieu qui les aime. Jésus nous a demandé de visiter les malades (cf. Mt 25,36). Profitons de l’Année de la foi pour approfondir le sens véritable de ce geste qui ne sépare pas la foi de la charité ! Que la Vierge Marie, Notre Dame de Lourdes, nous accompagne durant le Carême qui va commencer. Bon dimanche à tous !

I am pleased to greet all the visitors present at today’s Angelus, especially the young people of Saint Patrick’s Evangelisation School, London. In today’s Gospel, the crowds press round Jesus, "listening to the word of God". May we too listen attentively to Jesus’ words, as he calls us, like Simon Peter, to go out fearlessly and draw others to Christ. Godblessyouandyourlovedones!

Ganz herzlich grüße ich alle Brüder und Schwestern deutscher Sprache, und mein besonderer Gruß geht von hier aus auch zu allen Kranken und zu jenen, die sich morgen zum Weltkrankentag in Altötting im Gebet versammeln. Den Weltkrankentag begeht die Kirche jedes Jahr am 11. Februar, dem Gedenktag Unserer Lieben Frau zu Lourdes. In Lourdes zeigte sich die Muttergottes dem armen Mädchen Bernadette Soubirous und wies auf eine Quelle hin, an der viele Kranke geheilt wurden. Maria will den Armen, Kranken und Bedürftigen aller Zeiten nahe sein und mit ihnen den Weg zu Christus, der Quelle des Lebens, gehen. Euch und eure Lieben, besonders die Kranken, empfehle ich der Fürsprache Mariens, Heil der Kranken und der Mutter allen Trostes. Gott segne euch alle!

Saludo cordialmente a los fieles de lengua española, en particular a los grupos venidos de la Archidiócesis de Oviedo, así como a los que se unen a través de los medios de comunicación social. Hoy san Pablo nos muestra el núcleo de la predicación del Evangelio en el que estamos fundados: «Cristo murió por nuestros pecados, fue sepultado y resucitó al tercer día, según las Escrituras». Ésta es la fe a la que hemos adherido y que estamos llamados a trasmitir. Pidamos a la Santísima Virgen María que nos ayude a ser testigos de este mensaje de salvación y podamos ver, en nuestro trabajo diario por la edificación del Reino de los cielos, la gracia de Dios que actúa en nosotros. Feliz Domingo.

Lepo pozdravljam vernike iz Mute, Trbonj in drugih krajev Slovenije! V letu vere ste poromali v mesto, kjer sta svojo zvestobo Kristusu s krvjo izpričala apostola Peter in Pavel. Po njuni priprošnji naj bo trdna tudi vaša vera, da vas, kakor pravi sv. Pavel, ne bodo zanašali vetrovi krivih naukov in da boste dejavni v ljubezni do bližnjega. Naj bo z vami moj blagoslov!

[Rivolgo un cordiale saluto ai fedeli da Muta, Trbonje ed altri luoghi della Slovenia! Nell’anno della Fede siete venuti in pellegrinaggio nella città in cui i Ss. Apostoli Pietro e Paolo hanno testimoniato con il sangue la loro fedeltà a Cristo. Per la loro intercessione sia salda anche la vostra fede affinché, come dice S. Paolo, non siate trasportati qua e là dalle false dottrine, e affinché portate abbondati frutti di carità verso il prossimo. Vi accompagni la mia Benedizione!]

Serdeczne pozdrowienie kieruję do Polaków. Jutro będziemy obchodzili XXI Światowy Dzień Chorego. Jednocząc się z pielgrzymami zgromadzonymi w sanktuarium w Altötting, Maryi Pannie Łaskawej zawierzam wszystkich chorych na całym świecie oraz tych, którzy z miłością niosą im pomoc. Niech wyprasza ulgę dla cierpiących, siłę ducha dla samarytan, a dla wszystkich Boże błogosławieństwo.

[Un cordiale saluto rivolgo ai polacchi. Domani celebreremo XXI Giornata Mondiale del Malato. Unendomi ai pellegrini radunati nel santuario di Altötting, affido a Maria Vergine delle Grazie tutti i malati nel mondo e coloro che con amore gli portano aiuto. Ai sofferenti ottenga il sollievo, ai samaritani la forza dello spirito e a tutti la benedizione di Dio.]

Infine, saluto con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli venuti da Solbiate Olona, Genova, Sottomarina, Roseto degli Abruzzi e Torino di Sangro. Salutoi cresimandi di Conselve, Cavenago d’Adda,Robilante e Piana di Valdagno, con i genitori e i catechisti; i ragazzi di Mattarello e Brescia; i ministranti di Caravaggio; i giovani di Como, Lipòmo eAltavilla. Vorrei anche esprimere apprezzamento per l’iniziativa chiamata "Banco Farmaceutico", che ieri ha effettuato la raccolta di farmaci in Italia, Spagna e Portogallo. A tutti auguro una buona domenica, una buona settimana. Buona domenica. Grazie!.

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Benedetto XVI annuncia la sua rinuncia al ministero petrino

Il Papa ha annunciato oggi la sua rinuncia al ministero petrino. Questa la sua dichiarazione stamani durante il Concistoro per tre canonizzazioni:

Carissimi Fratelli,

vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino.
Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando.

Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato.

Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice.

Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti.

Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo la sua santa Madre Maria, affinché assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice.

Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio.

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CONCISTORO ORDINARIO PUBBLICO - DECLARATIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI SULLA SUA RINUNCIA AL MINISTERO DI VESCOVO DI ROMA, SUCCESSORE DI SAN PIETRO, 11.02.2013

Nel corso del Concistoro Ordinario Pubblico per la Canonizzazione di alcuni Beati, tenuto alle ore 11 di questa mattina, nella Sala del Concistoro del Palazzo Apostolico Vaticano, durante la celebrazione dell’Ora Sesta, il Santo Padre Benedetto XVI ha fatto ai cardinali presenti il seguente annuncio:


Carissimi Fratelli,

vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice.
Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti. Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo la sua santa Madre Maria, affinché assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice. Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio.

Dal Vaticano, 10 febbraio 2013

BENEDICTUS PP XVI

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L’UDIENZA GENERALE, 13.02.2013


L’Udienza Generale di oggi, mercoledì delle Ceneri e primo giorno del tempo quaresimale, si è svolta alle ore 10.30 nell’Aula Paolo VI dove il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli provenienti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
All’inizio dell’incontro, il Santo Padre ha rivolto ai fedeli presenti alcune parole sulla sua decisione, annunciata lunedì 11 febbraio, di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, ed ha invitato tutti a continuare a pregare per lui, per la Chiesa, per il prossimo Papa.
Quindi, nel discorso in lingua italiana, ha incentrato la sua meditazione sul tema: "Le tentazioni di Gesù e la conversione per il Regno dei Cieli".
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

Le tentazioni di Gesù e la conversione per il Regno dei Cieli

Cari fratelli e sorelle,

oggi, Mercoledì delle Ceneri, iniziamo il Tempo liturgico della Quaresima, quaranta giorni che ci preparano alla celebrazione della Santa Pasqua; è un tempo di particolare impegno nel nostro cammino spirituale. Il numero quaranta ricorre varie volte nella Sacra Scrittura. In particolare, come sappiamo, esso richiama i quarant’anni in cui il popolo di Israele peregrinò nel deserto: un lungo periodo di formazione per diventare il popolo di Dio, ma anche un lungo periodo in cui la tentazione di essere infedeli all’alleanza con il Signore era sempre presente. Quaranta furono anche i giorni di cammino del profeta Elia per raggiungere il Monte di Dio, l’Horeb; come pure il periodo che Gesù passò nel deserto prima di iniziare la sua vita pubblica e dove fu tentato dal diavolo. Nell’odierna Catechesi vorrei soffermarmi proprio su questo momento della vita terrena del Signore, che leggeremo nel Vangelo di domenica prossima.
Anzitutto il deserto, dove Gesù si ritira, è il luogo del silenzio, della povertà, dove l’uomo è privato degli appoggi materiali e si trova di fronte alle domande fondamentali dell’esistenza, è spinto ad andare all’essenziale e proprio per questo gli è più facile incontrare Dio. Ma il deserto è anche il luogo della morte, perché dove non c’è acqua non c’è neppure vita, ed è il luogo della solitudine, in cui l’uomo sente più intensa la tentazione. Gesù va nel deserto, e là subisce la tentazione di lasciare la via indicata dal Padre per seguire altre strade più facili e mondane (cfr Lc 4,1-13). Così Egli si carica delle nostre tentazioni, porta con Sè la nostra miseria, per vincere il maligno e aprirci il cammino verso Dio, il cammino della conversione.
Riflettere sulle tentazioni a cui è sottoposto Gesù nel deserto è un invito per ciascuno di noi a rispondere ad una domanda fondamentale: che cosa conta davvero nella mia vita? Nella prima tentazione il diavolo propone a Gesù di cambiare una pietra in pane per spegnere la fame. Gesù ribatte che l’uomo vive anche di pane, ma non di solo pane: senza una risposta alla fame di verità, alla fame di Dio, l’uomo non si può salvare (cfr vv. 3-4). Nella seconda tentazione, il diavolo propone a Gesù la via del potere: lo conduce in alto e gli offre il dominio del mondo; ma non è questa la strada di Dio: Gesù ha ben chiaro che non è il potere mondano che salva il mondo, ma il potere della croce, dell’umiltà, dell’amore (cfr vv. 5-8). Nella terza tentazione, il diavolo propone a Gesù di gettarsi dal pinnacolo del Tempio di Gerusalemme e farsi salvare da Dio mediante i suoi angeli, di compiere cioè qualcosa di sensazionale per mettere alla prova Dio stesso; ma la risposta è che Dio non è un oggetto a cui imporre le nostre condizioni: è il Signore di tutto (cfr vv. 9-12). Qual è il nocciolo delle tre tentazioni che subisce Gesù? E’ la proposta di strumentalizzare Dio, di usarlo per i propri interessi, per la propria gloria e per il proprio successo. E dunque, in sostanza, di mettere se stessi al posto di Dio, rimuovendolo dalla propria esistenza e facendolo sembrare superfluo. Ognuno dovrebbe chiedersi allora: che posto ha Dio nella mia vita? E’ Lui il Signore o sono io?
Superare la tentazione di sottomettere Dio a sé e ai propri interessi o di metterlo in un angolo e convertirsi al giusto ordine di priorità, dare a Dio il primo posto, è un cammino che ogni cristiano deve percorrere sempre di nuovo. “Convertirsi”, un invito che ascolteremo molte volte in Quaresima, significa seguire Gesù in modo che il suo Vangelo sia guida concreta della vita; significa lasciare che Dio ci trasformi, smettere di pensare che siamo noi gli unici costruttori della nostra esistenza; significa riconoscere che siamo creature, che dipendiamo da Dio, dal suo amore, e soltanto «perdendo» la nostra vita in Lui possiamo guadagnarla. Questo esige di operare le nostre scelte alla luce della Parola di Dio.
Oggi non si può più essere cristiani come semplice conseguenza del fatto di vivere in una società che ha radici cristiane: anche chi nasce da una famiglia cristiana ed è educato religiosamente deve, ogni giorno, rinnovare la scelta di essere cristiano, cioè dare a Dio il primo posto, di fronte alle tentazioni che una cultura secolarizzata gli propone di continuo, di fronte al giudizio critico di molti contemporanei.
Le prove a cui la società attuale sottopone il cristiano, infatti, sono tante, e toccano la vita personale e sociale. Non è facile essere fedeli al matrimonio cristiano, praticare la misericordia nella vita quotidiana, lasciare spazio alla preghiera e al silenzio interiore; non è facile opporsi pubblicamente a scelte che molti considerano ovvie, quali l’aborto in caso di gravidanza indesiderata, l’eutanasia in caso di malattie gravi, o la selezione degli embrioni per prevenire malattie ereditarie. La tentazione di metter da parte la propria fede è sempre presente e la conversione diventa una risposta a Dio che deve essere confermata più volte nella vita.
Ci sono di esempio e di stimolo le grandi conversioni come quella di san Paolo sulla via di Damasco, o di sant’Agostino, ma anche nella nostra epoca di eclissi del senso del sacro, la grazia di Dio è al lavoro e opera meraviglie nella vita di tante persone. Il Signore non si stanca di bussare alla porta dell’uomo in contesti sociali e culturali che sembrano inghiottiti dalla secolarizzazione, come è avvenuto per il russo ortodosso Pavel Florenskij. Dopo un’educazione completamente agnostica, tanto da provare vera e propria ostilità verso gli insegnamenti religiosi impartiti a scuola, lo scienziato Florenskij si trova ad esclamare: “No, non si può vivere senza Dio!”, e a cambiare completamente la sua vita, tanto da farsi monaco.
Penso anche alla figura di Etty Hillesum, una giovane olandese di origine ebraica che morirà ad Auschwitz. Inizialmente lontana da Dio, lo scopre guardando in profondità dentro se stessa e scrive: “Un pozzo molto profondo è dentro di me. E Dio c’è in quel pozzo. Talvolta mi riesce di raggiungerlo, più spesso pietra e sabbia lo coprono: allora Dio è sepolto. Bisogna di nuovo che lo dissotterri” (Diario, 97). Nella sua vita dispersa e inquieta, ritrova Dio proprio in mezzo alla grande tragedia del Novecento, la Shoah. Questa giovane fragile e insoddisfatta, trasfigurata dalla fede, si trasforma in una donna piena di amore e di pace interiore, capace di affermare: “Vivo costantemente in intimità con Dio”.
La capacità di contrapporsi alle lusinghe ideologiche del suo tempo per scegliere la ricerca della verità e aprirsi alla scoperta della fede è testimoniata da un’altra donna del nostro tempo, la statunitense Dorothy Day. Nella sua autobiografia, confessa apertamente di essere caduta nella tentazione di risolvere tutto con la politica, aderendo alla proposta marxista: “Volevo andare con i manifestanti, andare in prigione, scrivere, influenzare gli altri e lasciare il mio sogno al mondo. Quanta ambizione e quanta ricerca di me stessa c’era in tutto questo!”. Il cammino verso la fede in un ambiente così secolarizzato era particolarmente difficile, ma la Grazia agisce lo stesso, come lei stessa sottolinea: “È certo che io sentii più spesso il bisogno di andare in chiesa, a inginocchiarmi, a piegare la testa in preghiera. Un istinto cieco, si potrebbe dire, perché non ero cosciente di pregare. Ma andavo, mi inserivo nell’atmosfera di preghiera…”. Dio l’ha condotta ad una consapevole adesione alla Chiesa, in una vita dedicata ai diseredati.
Nella nostra epoca non sono poche le conversioni intese come il ritorno di chi, dopo un’educazione cristiana magari superficiale, si è allontanato per anni dalla fede e poi riscopre Cristo e il suo Vangelo. Nel Libro dell’Apocalisse leggiamo: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3, 20). Il nostro uomo interiore deve prepararsi per essere visitato da Dio, e proprio per questo non deve lasciarsi invadere dalle illusioni, dalle apparenze, dalle cose materiali.
In questo Tempo di Quaresima, nell’Anno della fede, rinnoviamo il nostro impegno nel cammino di conversione, per superare la tendenza di chiuderci in noi stessi e per fare, invece, spazio a Dio, guardando con i suoi occhi la realtà quotidiana. L’alternativa tra la chiusura nel nostro egoismo e l’apertura all’amore di Dio e degli altri, potremmo dire che corrisponde all’alternativa delle tentazioni di Gesù: alternativa, cioè, tra potere umano e amore della Croce, tra una redenzione vista nel solo benessere materiale e una redenzione come opera di Dio, cui diamo il primato nell’esistenza. Convertirsi significa non chiudersi nella ricerca del proprio successo, del proprio prestigio, della propria posizione, ma far sì che ogni giorno, nelle piccole cose, la verità, la fede in Dio e l’amore diventino la cosa più importante.


* * *

Grazie per questo dono di alcuni canti a me particolarmente cari. Grazie. E rivolgo un cordiale saluto a tutti i pellegrini di lingua italiana, in particolare, alle Ancelle del Sacro Cuore di Gesù. Saluto i rappresentanti dell’Ordine nazionale dei tecnologi alimentari e il gruppo dei Carabinieri dell’Umbria. Cari amici, la sosta presso le tombe degli Apostoli rinsaldi la vostra adesione a Cristo e faccia crescere la carità nelle vostre famiglie e nelle vostre comunità.

Saluto infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. Domani celebreremo la festa dei Santi Cirillo e Metodio, apostoli e primi difensori della fede tra i popoli degli Slavi. La loro testimonianza vi aiuti ad essere anche voi apostoli del Vangelo, fermento di autentico rinnovamento nella vita personale, familiare e sociale.

Grazie a tutti voi.

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L’UDIENZA GENERALE: PAROLE INIZIALI DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI , 13.02.2013

All’inizio dell’Udienza Generale di oggi (cfr boll n. 92), il Santo Padre Benedetto XVI ha rivolto ai fedeli presenti alcune parole sulla sua decisione, annunciata lunedì 11 febbraio, di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, ed ha invitato tutti a continuare a pregare per lui, per la Chiesa, per il prossimo Papa.
Riportiamo di seguito le parole del Papa e la traduzione delle stesse nelle varie lingue:

PAROLE DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle,

come sapete ho deciso ... [applausi] - grazie per la vostra simpatia! - ho deciso di rinunciare al ministero che il Signore mi ha affidato il 19 aprile 2005. Ho fatto questo in piena libertà per il bene della Chiesa, dopo aver pregato a lungo ed aver esaminato davanti a Dio la mia coscienza, ben consapevole della gravità di tale atto, ma altrettanto consapevole di non essere più in grado di svolgere il ministero petrino con quella forza che esso richiede. Mi sostiene e mi illumina la certezza che la Chiesa è di Cristo, il Quale non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura. Ringrazio tutti per l’amore e per la preghiera con cui mi avete accompagnato. Grazie! Ho sentito quasi fisicamente in questi giorni, per me non facili, la forza della preghiera, che l’amore della Chiesa, la vostra preghiera, mi porta. Continuate a pregare per me, per la Chiesa, per il futuro Papa. Il Signore ci guiderà.


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OMELIA DEL SANTO PADRE PER IL MERCOLEDI' DELLE CENERI


Venerati Fratelli,
cari fratelli e sorelle!

Oggi, Mercoledì delle Ceneri, iniziamo un nuovo cammino quaresimale, un cammino che si snoda per quaranta giorni e ci conduce alla gioia della Pasqua del Signore, alla vittoria della Vita sulla morte. Seguendo l’antichissima tradizione romana delle quaresimali, ci siamo radunati per la Celebrazione dell’Eucaristia. Tale tradizione prevede che la prima statio abbia luogo nella Basilica di Santa Sabina sul colle Aventino. Le circostanze hanno suggerito di radunarsi nella Basilica Vaticana.
Stasera siamo numerosi intorno alla Tomba dell’Apostolo Pietro anche a chiedere la sua intercessione per il cammino della Chiesa in questo particolare momento, rinnovando la nostra fede nel Pastore Supremo, Cristo Signore.
Per me è un’occasione propizia per ringraziare tutti, specialmente i fedeli della Diocesi di Roma, mentre mi accingo a concludere il ministero petrino, e per chiedere un particolare ricordo nella preghiera. Le Letture che sono state proclamate ci offrono spunti che, con la grazia di Dio, siamo chiamati a far diventare atteggiamenti e comportamenti concreti in questa Quaresima.
La Chiesa ci ripropone, anzitutto, il forte richiamo che il profeta Gioele rivolge al popolo di Israele: «Così dice il Signore: ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti» (2,12). Va sottolineata l’espressione «con tutto il cuore», che significa dal centro dei nostri pensieri e sentimenti, dalle radici delle nostre decisioni, scelte e azioni, con un gesto di totale e radicale libertà. Ma è possibile questo ritorno a Dio? Sì, perché c’è una forza che non risiede nel nostro cuore, ma che si sprigiona dal cuore stesso di Dio. È la forza della sua misericordia. Dice ancora il profeta: «Ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male» (v.13). Il ritorno al Signore è possibile come "grazia", perché è opera di Dio e frutto della fede che noi riponiamo nella sua misericordia. Ma questo ritornare a Dio diventa realtà concreta nella nostra vita solo quando la grazia del Signore penetra nell’intimo e lo scuote donandoci la forza di «lacerare il cuore». È ancora il profeta a far risuonare da parte di Dio queste parole: «Laceratevi il cuore e non le vesti» (v.13). In effetti, anche ai nostri giorni, molti sono pronti a “stracciarsi le vesti” di fronte a scandali e ingiustizie – naturalmente commessi da altri –, ma pochi sembrano disponibili ad agire sul proprio “cuore”, sulla propria coscienza e sulle proprie intenzioni, lasciando che il Signore trasformi, rinnovi e converta. Quel «ritornate a me con tutto il cuore», poi, è un richiamo che coinvolge non solo il singolo, ma la comunità. Abbiamo ascoltato sempre nella prima Lettura: «Suonate il corno in Sion, proclamate un solenne digiuno, convocate una riunione sacra. Radunate il popolo, indite un’assemblea solenne, chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e la sposa dal suo talamo» (vv.15-16). La dimensione comunitaria è un elemento essenziale nella fede e nella vita cristiana. Cristo è venuto «per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (cfr 11,52). Il “Noi” della Chiesa è la comunità in cui Gesù ci riunisce insieme (cfr 12,32): la fede è necessariamente ecclesiale. E questo è importante ricordarlo e viverlo in questo Tempo della Quaresima: ognuno sia consapevole che il cammino penitenziale non lo affronta da solo, ma insieme con tanti fratelli e sorelle, nella Chiesa. Il profeta, infine, si sofferma sulla preghiera dei sacerdoti, i quali, con le lacrime agli occhi, si rivolgono a Dio dicendo: «Non esporre la tua eredità al ludibrio e alla derisione delle genti. Perché si dovrebbe dire fra i popoli: “Dov’è il loro Dio?”» (v.17).
Questa preghiera ci fa riflettere sull’importanza della testimonianza di fede e di vita cristiana di ciascuno di noi e delle nostre comunità per manifestare il volto della Chiesa e come questo volto venga, a volte, deturpato. Penso in particolare alle colpe contro l’unità della Chiesa, alle divisioni nel corpo ecclesiale. Vivere la Quaresima in una più intensa ed evidente comunione ecclesiale, superando individualismi e rivalità, è un segno umile e prezioso per coloro che sono lontani dalla fede o indifferenti.
«Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» ( 6,2). Le parole dell’apostolo Paolo ai cristiani di Corinto risuonano anche per noi con un’urgenza che non ammette assenze o inerzie. Il termine “ora” ripetuto più volte dice che questo momento non può essere lasciato sfuggire, esso viene offerto a noi come un’occasione unica e irripetibile. E lo sguardo dell’Apostolo si concentra sulla condivisione con cui Cristo ha voluto caratterizzare la sua esistenza, assumendo tutto l’umano fino a farsi carico dello stesso peccato degli uomini. La frase di san Paolo è molto forte: Dio «lo fece peccato in nostro favore». Gesù, l’innocente, il Santo, «Colui che non aveva conosciuto peccato» ( 5,21), si fa carico del peso del peccato condividendone con l’umanità l’esito della morte, e della morte di croce. La riconciliazione che ci viene offerta ha avuto un prezzo altissimo, quello della croce innalzata sul Golgota, su cui è stato appeso il Figlio di Dio fatto uomo. In questa immersione di Dio nella sofferenza umana e nell’abisso del male sta la radice della nostra giustificazione.
Il «ritornare a Dio con tutto il cuore» nel nostro cammino quaresimale passa attraverso la Croce, il seguire Cristo sulla strada che conduce al Calvario, al dono totale di sé. E’ un cammino in cui imparare ogni giorno ad uscire sempre più dal nostro egoismo e dalle nostre chiusure, per fare spazio a Dio che apre e trasforma il cuore. E san Paolo ricorda come l’annuncio della Croce risuoni a noi grazie alla predicazione della Parola, di cui l’Apostolo stesso è ambasciatore; un richiamo per noi affinché questo cammino quaresimale sia caratterizzato da un ascolto più attento e assiduo della Parola di Dio, luce che illumina i nostri passi.
Nella pagina del Vangelo di Matteo, che appartiene al cosiddetto Discorso della montagna, Gesù fa riferimento a tre pratiche fondamentali previste dalla Legge mosaica: l’elemosina, la preghiera e il digiuno; sono anche indicazioni tradizionali nel cammino quaresimale per rispondere all’invito di «ritornare a Dio con tutto il cuore». Ma Gesù sottolinea come sia la qualità e la verità del rapporto con Dio ciò che qualifica l’autenticità di ogni gesto religioso. Per questo Egli denuncia l’ipocrisia religiosa, il comportamento che vuole apparire, gli atteggiamenti che cercano l’applauso e l’approvazione. Il vero discepolo non serve se stesso o il “pubblico”, ma il suo Signore, nella semplicità e nella generosità: «E il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (6,4.6.18).
La nostra testimonianza allora sarà sempre più incisiva quanto meno cercheremo la nostra gloria e saremo consapevoli che la ricompensa del giusto è Dio stesso, l’essere uniti a Lui, quaggiù, nel cammino della fede, e, al termine della vita, nella pace e nella luce dell’incontro faccia a faccia con Lui per sempre (cfr 1 Cor 13,12). Cari fratelli e sorelle, iniziamo fiduciosi e gioiosi l’itinerario quaresimale. Risuoni forte in noi l’invito alla conversione, a «ritornare a Dio con tutto il cuore», accogliendo la sua grazia che ci fa uomini nuovi, con quella sorprendente novità che è partecipazione alla vita stessa di Gesù. Nessuno di noi, dunque, sia sordo a questo appello, che ci viene rivolto anche nell’austero rito, così semplice e insieme così suggestivo, dell’imposizione delle ceneri, che tra poco compiremo. Ci accompagni in questo tempo la Vergine Maria, Madre della Chiesa e modello di ogni autentico discepolo del Signore. Amen!​

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14/02/2013 23:29
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INCONTRO CON I PARROCI E IL CLERO DI ROMA

DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Aula Paolo VI
Giovedì, 14 febbraio 2013

Eminenza,
cari fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio!

E’ per me un dono particolare della Provvidenza che, prima di lasciare il ministero petrino, possa ancora vedere il mio clero, il clero di Roma. E’ sempre una grande gioia vedere come la Chiesa vive, come a Roma la Chiesa è vivente; ci sono Pastori che, nello spirito del Pastore supremo, guidano il gregge del Signore. E’ un clero realmente cattolico, universale, e questo risponde all’essenza della Chiesa di Roma: portare in sé l’universalità, la cattolicità di tutte le genti, di tutte le razze, di tutte le culture. Nello stesso tempo, sono molto grato al Cardinale Vicario che aiuta a risvegliare, a ritrovare le vocazioni nella stessa Roma, perché se Roma, da una parte, dev’essere la città dell’universalità, dev’essere anche una città con una propria forte e robusta fede, dalla quale nascono anche vocazioni. E sono convinto che, con l’aiuto del Signore, possiamo trovare le vocazioni che Egli stesso ci dà, guidarle, aiutarle a maturare, e così servire per il lavoro nella vigna del Signore.
Oggi avete confessato davanti alla tomba di san Pietro il Credo: nell’Anno della fede, mi sembra un atto molto opportuno, necessario forse, che il clero di Roma si riunisca sulla tomba dell’Apostolo al quale il Signore ha detto: “A te affido la mia Chiesa. Sopra di te costruisco la mia Chiesa” (cfr Mt 16,18-19). Davanti al Signore, insieme con Pietro, avete confessato: “Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo” (cfr Mt 16,15-16).
Così cresce la Chiesa: insieme con Pietro, confessare Cristo, seguire Cristo. E facciamo questo sempre. Io sono molto grato per la vostra preghiera, che ho sentito – l’ho detto mercoledì – quasi fisicamente. Anche se adesso mi ritiro, nella preghiera sono sempre vicino a tutti voi e sono sicuro che anche voi sarete vicini a me, anche se per il mondo rimango nascosto.
Per oggi, secondo le condizioni della mia età, non ho potuto preparare un grande, vero discorso, come ci si potrebbe aspettare; ma piuttosto penso ad una piccola chiacchierata sul Concilio Vaticano II, come io l’ho visto.
Comincio con un aneddoto: io ero stato nominato nel ’59 professore all’Università di Bonn, dove studiano gli studenti, i seminaristi della diocesi di Colonia e di altre diocesi circostanti. Così, sono venuto in contatto con il Cardinale di Colonia, il Cardinale Frings. Il Cardinale Siri, di Genova – mi sembra nel ’61 - aveva organizzato una serie di conferenze di diversi Cardinali europei sul Concilio, e aveva invitato anche l’Arcivescovo di Colonia a tenere una delle conferenze, con il titolo: Il Concilio e il mondo del pensiero moderno.
Il Cardinale mi ha invitato – il più giovane dei professori – a scrivergli un progetto; il progetto gli è piaciuto e ha proposto alla gente, a Genova, il testo come io l’avevo scritto. Poco dopo, Papa Giovanni lo invita ad andare da lui e il Cardinale era pieno di timore di avere forse detto qualcosa di non corretto, di falso, e di venire citato per un rimprovero, forse anche per togliergli la porpora. Sì, quando il suo segretario lo ha vestito per l’udienza, il Cardinale ha detto: “Forse adesso porto per l’ultima volta questa roba”. Poi è entrato, Papa Giovanni gli va incontro, lo abbraccia, e dice: “Grazie, Eminenza, lei ha detto le cose che io volevo dire, ma non avevo trovato le parole”. Così, il Cardinale sapeva di essere sulla strada giusta e mi ha invitato ad andare con lui al Concilio, prima come suo esperto personale; poi, nel corso del primo periodo - mi pare nel novembre ’62 – sono stato nominato anche perito ufficiale del Concilio.
Allora, noi siamo andati al Concilio non solo con gioia, ma con entusiasmo. C’era un’aspettativa incredibile. Speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse veramente una nuova Pentecoste, una nuova era della Chiesa, perché la Chiesa era ancora abbastanza robusta in quel tempo, la prassi domenicale ancora buona, le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa erano già un po’ ridotte, ma ancora sufficienti. Tuttavia, si sentiva che la Chiesa non andava avanti, si riduceva, che sembrava piuttosto una realtà del passato e non la portatrice del futuro. E in quel momento, speravamo che questa relazione si rinnovasse, cambiasse; che la Chiesa fosse di nuovo forza del domani e forza dell’oggi. E sapevamo che la relazione tra la Chiesa e il periodo moderno, fin dall’inizio, era un po’ contrastante, cominciando con l’errore della Chiesa nel caso di Galileo Galilei; si pensava di correggere questo inizio sbagliato e di trovare di nuovo l’unione tra la Chiesa e le forze migliori del mondo, per aprire il futuro dell’umanità, per aprire il vero progresso. Così, eravamo pieni di speranza, di entusiasmo, e anche di volontà di fare la nostra parte per questa cosa. Mi ricordo che un modello negativo era considerato il Sinodo Romano. Si disse - non so se sia vero – che avessero letto i testi preparati, nella Basilica di San Giovanni, e che i membri del Sinodo avessero acclamato, approvato applaudendo, e così si sarebbe svolto il Sinodo. I Vescovi dissero: No, non facciamo così. Noi siamo Vescovi, siamo noi stessi soggetto del Sinodo; non vogliamo soltanto approvare quanto è stato fatto, ma vogliamo essere noi il soggetto, i portatori del Concilio. Così anche il Cardinale Frings, che era famoso per la fedeltà assoluta, quasi scrupolosa, al Santo Padre, in questo caso disse: Qui siamo in altra funzione. Il Papa ci ha convocati per essere come Padri, per essere Concilio ecumenico, un soggetto che rinnovi la Chiesa. Così vogliamo assumere questo nostro ruolo.
Il primo momento, nel quale questo atteggiamento si è mostrato, è stato subito il primo giorno. Erano state previste, per questo primo giorno, le elezioni delle Commissioni ed erano state preparate, in modo – si cercava – imparziale, le liste, i nominativi; e queste liste erano da votare. Ma subito i Padri dissero: No, non vogliamo semplicemente votare liste già fatte. Siamo noi il soggetto. Allora, si sono dovute spostare le elezioni, perché i Padri stessi volevano conoscersi un po’, volevano loro stessi preparare delle liste. E così è stato fatto. I Cardinali Liénart di Lille, il Cardinale Frings di Colonia avevano pubblicamente detto: Così no. Noi vogliamo fare le nostre liste ed eleggere i nostri candidati. Non era un atto rivoluzionario, ma un atto di coscienza, di responsabilità da parte dei Padri conciliari.
Così cominciava una forte attività per conoscersi, orizzontalmente, gli uni gli altri, cosa che non era a caso. Al “Collegio dell’Anima”, dove abitavo, abbiamo avuto molte visite: il Cardinale era molto conosciuto, abbiamo visto Cardinali di tutto il mondo. Mi ricordo bene la figura alta e snella di mons. Etchegaray, che era Segretario della Conferenza Episcopale Francese, degli incontri con Cardinali, eccetera. E questo era tipico, poi, per tutto il Concilio: piccoli incontri trasversali. Così ho conosciuto grandi figure come Padre de Lubac, Daniélou, Congar, eccetera. Abbiamo conosciuto vari Vescovi; mi ricordo particolarmente del Vescovo Elchinger di Strasburgo, eccetera. E questa era già un’esperienza dell’universalità della Chiesa e della realtà concreta della Chiesa, che non riceve semplicemente imperativi dall’alto, ma insieme cresce e va avanti, sempre sotto la guida – naturalmente – del Successore di Pietro.
Tutti, come ho detto, venivano con grandi aspettative; non era mai stato realizzato un Concilio di queste dimensioni, ma non tutti sapevano come fare. I più preparati, diciamo quelli con intenzioni più definite, erano l’episcopato francese, tedesco, belga, olandese, la cosiddetta “alleanza renana”. E, nella prima parte del Concilio, erano loro che indicavano la strada; poi si è velocemente allargata l’attività e tutti sempre più hanno partecipato nella creatività del Concilio. I francesi ed i tedeschi avevano diversi interessi in comune, anche con sfumature abbastanza diverse. La prima, iniziale, semplice - apparentemente semplice – intenzione era la riforma della liturgia, che era già cominciata con Pio XII, il quale aveva già riformato la Settimana Santa; la seconda, l’ecclesiologia; la terza, la Parola di Dio, la Rivelazione; e, infine, anche l’ecumenismo. I francesi, molto più che i tedeschi, avevano ancora il problema di trattare la situazione delle relazioni tra la Chiesa e il mondo.
Cominciamo con il primo. Dopo la Prima Guerra Mondiale, era cresciuto, proprio nell’Europa centrale e occidentale, il movimento liturgico, una riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia, che era finora quasi chiusa nel Messale Romano del sacerdote, mentre la gente pregava con propri libri di preghiera, i quali erano fatti secondo il cuore della gente, così che si cercava di tradurre i contenuti alti, il linguaggio alto, della liturgia classica in parole più emozionali, più vicine al cuore del popolo. Ma erano quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la Messa secondo il Messale, ed i laici, che pregavano, nella Messa, con i loro libri di preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa si realizzava sull’altare. Ma ora era stata riscoperta proprio la bellezza, la profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del Messale e la necessità che non solo un rappresentante del popolo, un piccolo chierichetto, dicesse “Et cum spiritu tuo” eccetera, ma che fosse realmente un dialogo tra sacerdote e popolo, che realmente la liturgia dell’altare e la liturgia del popolo fosse un’unica liturgia, una partecipazione attiva, che le ricchezze arrivassero al popolo; e così si è riscoperta, rinnovata la liturgia.
Io trovo adesso, retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell’adorazione. “Operi Dei nihil praeponatur”: questa parola della Regola di san Benedetto (cfr 43,3) appare così come la suprema regola del Concilio. Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale parlare su Dio e aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del Corpo e Sangue di Cristo. In questo senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di Provvidenza che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione. Adesso non vorrei entrare nei dettagli della discussione, ma vale la pena sempre tornare, oltre le attuazioni pratiche, al Concilio stesso, alla sua profondità e alle sue idee essenziali.
Ve n’erano, direi, diverse: soprattutto il Mistero pasquale come centro dell’essere cristiano, e quindi della vita cristiana, dell’anno, del tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è sempre il giorno della Risurrezione. Sempre di nuovo cominciamo il nostro tempo con la Risurrezione, con l’incontro con il Risorto, e dall’incontro con il Risorto andiamo al mondo. In questo senso, è un peccato che oggi si sia trasformata la domenica in fine settimana, mentre è la prima giornata, è l’inizio; interiormente dobbiamo tenere presente questo: che è l’inizio, l’inizio della Creazione, è l’inizio della ricreazione nella Chiesa, incontro con il Creatore e con Cristo Risorto. Anche questo duplice contenuto della domenica è importante: è il primo giorno, cioè festa della Creazione, noi stiamo sul fondamento della Creazione, crediamo nel Dio Creatore; e incontro con il Risorto, che rinnova la Creazione; il suo vero scopo è creare un mondo che è risposta all’amore di Dio.
Poi c’erano dei principi: l’intelligibilità, invece di essere rinchiusi in una lingua non conosciuta, non parlata, ed anche la partecipazione attiva. Purtroppo, questi principi sono stati anche male intesi. Intelligibilità non vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia – anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna – non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere. Ed anche la Parola di Dio – se penso giorno per giorno alla lettura dell’Antico Testamento, anche alla lettura delle Epistole paoline, dei Vangeli: chi potrebbe dire che capisce subito solo perché è nella propria lingua? Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che è un entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo.
Secondo tema: la Chiesa. Sappiamo che il Concilio Vaticano I era stato interrotto a causa della guerra tedesco-francese e così è rimasto con una unilateralità, con un frammento, perché la dottrina sul primato - che è stata definita, grazie a Dio, in quel momento storico per la Chiesa, ed è stata molto necessaria per il tempo seguente - era soltanto un elemento in un’ecclesiologia più vasta, prevista, preparata. Così era rimasto il frammento. E si poteva dire: se il frammento rimane così come è, tendiamo ad una unilateralità: la Chiesa sarebbe solo il primato. Quindi già dall’inizio c’era questa intenzione di completare l’ecclesiologia del Vaticano I, in una data da trovare, per una ecclesiologia completa. Anche qui le condizioni sembravano molto buone perché, dopo la Prima Guerra Mondiale, era rinato il senso della Chiesa in modo nuovo. Romano Guardini disse: “Nelle anime comincia a risvegliarsi la Chiesa”, e un vescovo protestante parlava del “secolo della Chiesa”. Veniva ritrovato, soprattutto, il concetto, che era previsto anche dal Vaticano I, del Corpo Mistico di Cristo. Si voleva dire e capire che la Chiesa non è un’organizzazione, qualcosa di strutturale, giuridico, istituzionale - anche questo -, ma è un organismo, una realtà vitale, che entra nella mia anima, così che io stesso, proprio con la mia anima credente, sono elemento costruttivo della Chiesa come tale. In questo senso, Pio XII aveva scritto l’Enciclica Mystici Corporis Christi, come un passo verso un completamento dell’ecclesiologia del Vaticano I.
Direi che la discussione teologica degli anni ’30-’40, anche ’20, era completamente sotto questo segno della parola “Mystici Corporis”. Fu una scoperta che ha creato tanta gioia in quel tempo ed anche in questo contesto è cresciuta la formula: Noi siamo la Chiesa, la Chiesa non è una struttura; noi stessi cristiani, insieme, siamo tutti il Corpo vivo della Chiesa. E, naturalmente, questo vale nel senso che noi, il vero “noi” dei credenti, insieme con l’”Io” di Cristo, è la Chiesa; ognuno di noi, non “un noi”, un gruppo che si dichiara Chiesa. No: questo “noi siamo Chiesa” esige proprio il mio inserimento nel grande “noi” dei credenti di tutti i tempi e luoghi. Quindi, la prima idea: completare l’ecclesiologia in modo teologico, ma proseguendo anche in modo strutturale, cioè: accanto alla successione di Pietro, alla sua funzione unica, definire meglio anche la funzione dei Vescovi, del Corpo episcopale. E, per fare questo, è stata trovata la parola “collegialità”, molto discussa, con discussioni accanite, direi, anche un po’ esagerate. Ma era la parola - forse ce ne sarebbe anche un’altra, ma serviva questa - per esprimere che i Vescovi, insieme, sono la continuazione dei Dodici, del Corpo degli Apostoli. Abbiamo detto: solo un Vescovo, quello di Roma, è successore di un determinato Apostolo, di Pietro. Tutti gli altri diventano successori degli Apostoli entrando nel Corpo che continua il Corpo degli Apostoli. Così proprio il Corpo dei Vescovi, il collegio, è la continuazione del Corpo dei Dodici, ed ha così la sua necessità, la sua funzione, i suoi diritti e doveri. Appariva a molti come una lotta per il potere, e forse qualcuno anche ha pensato al suo potere, ma sostanzialmente non si trattava di potere, ma della complementarietà dei fattori e della completezza del Corpo della Chiesa con i Vescovi, successori degli Apostoli, come elementi portanti; ed ognuno di loro è elemento portante della Chiesa, insieme con questo grande Corpo.
Questi erano, diciamo, i due elementi fondamentali e, nella ricerca di una visione teologica completa dell’ecclesiologia, nel frattempo, dopo gli anni ’40, negli anni ’50, era già nata un po’ di critica nel concetto di Corpo di Cristo: “mistico” sarebbe troppo spirituale, troppo esclusivo; era stato messo in gioco allora il concetto di “Popolo di Dio”. E il Concilio, giustamente, ha accettato questo elemento, che nei Padri è considerato come espressione della continuità tra Antico e Nuovo Testamento. Nel testo del Nuovo Testamento, la parola “Laos tou Theou”, corrispondente ai testi dell’Antico Testamento, significa – mi sembra con solo due eccezioni – l’antico Popolo di Dio, gli ebrei che, tra i popoli, “goim”, del mondo, sono “il” Popolo di Dio. E gli altri, noi pagani, non siamo di per sé il Popolo di Dio, diventiamo figli di Abramo, e quindi Popolo di Dio entrando in comunione con il Cristo, che è l’unico seme di Abramo. Ed entrando in comunione con Lui, essendo uno con Lui, siamo anche noi Popolo di Dio. Cioè: il concetto “Popolo di Dio” implica continuità dei Testamenti, continuità della storia di Dio con il mondo, con gli uomini, ma implica anche l’elemento cristologico. Solo tramite la cristologia diveniamo Popolo di Dio e così si combinano i due concetti. Ed il Concilio ha deciso di creare una costruzione trinitaria dell’ecclesiologia: Popolo di Dio Padre, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito Santo.
Ma solo dopo il Concilio è stato messo in luce un elemento che si trova un po’ nascosto, anche nel Concilio stesso, e cioè: il nesso tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo, è proprio la comunione con Cristo nell’unione eucaristica. Qui diventiamo Corpo di Cristo; cioè la relazione tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo crea una nuova realtà: la comunione. E dopo il Concilio è stato scoperto, direi, come il Concilio, in realtà, abbia trovato, abbia guidato a questo concetto: la comunione come concetto centrale. Direi che, filologicamente, nel Concilio esso non è ancora totalmente maturo, ma è frutto del Concilio che il concetto di comunione sia diventato sempre più l’espressione dell’essenza della Chiesa, comunione nelle diverse dimensioni: comunione con il Dio Trinitario - che è Egli stesso comunione tra Padre, Figlio e Spirito Santo -, comunione sacramentale, comunione concreta nell’episcopato e nella vita della Chiesa.
Ancora più conflittuale era il problema della Rivelazione. Qui si trattava della relazione tra Scrittura e Tradizione, e qui erano interessati soprattutto gli esegeti per una maggiore libertà; essi si sentivano un po’ – diciamo – in una situazione di inferiorità nei confronti dei protestanti, che facevano le grandi scoperte, mentre i cattolici si sentivano un po’ “handicappati” dalla necessità di sottomettersi al Magistero. Qui, quindi, era in gioco una lotta anche molto concreta: quale libertà hanno gli esegeti? Come si legge bene la Scrittura? Che cosa vuol dire Tradizione? Era una battaglia pluridimensionale che adesso non posso mostrare, ma importante è che certamente la Scrittura è la Parola di Dio e la Chiesa sta sotto la Scrittura, obbedisce alla Parola di Dio, e non sta al di sopra della Scrittura. E tuttavia, la Scrittura è Scrittura soltanto perché c’è la Chiesa viva, il suo soggetto vivo; senza il soggetto vivo della Chiesa, la Scrittura è solo un libro e apre, si apre a diverse interpretazioni e non dà un’ultima chiarezza.
Qui, la battaglia - come ho detto - era difficile, e fu decisivo un intervento di Papa Paolo VI. Questo intervento mostra tutta la delicatezza del padre, la sua responsabilità per l’andamento del Concilio, ma anche il suo grande rispetto per il Concilio. Era nata l’idea che la Scrittura è completa, vi si trova tutto; quindi non si ha bisogno della Tradizione, e perciò il Magistero non ha niente da dire. Allora, il Papa ha trasmesso al Concilio mi sembra 14 formule di una frase da inserire nel testo sulla Rivelazione e ci dava, dava ai Padri, la libertà di scegliere una delle 14 formule, ma disse: una deve essere scelta, per rendere completo il testo. Io mi ricordo, più o meno, della formula “non omnis certitudo de veritatibus fidei potest sumi ex Sacra Scriptura”, cioè la certezza della Chiesa sulla fede non nasce soltanto da un libro isolato, ma ha bisogno del soggetto Chiesa illuminato, portato dallo Spirito Santo. Solo così poi la Scrittura parla ed ha tutta la sua autorevolezza. Questa frase che abbiamo scelto nella Commissione dottrinale, una delle 14 formule, è decisiva, direi, per mostrare l’indispensabilità, la necessità della Chiesa, e così capire che cosa vuol dire Tradizione, il Corpo vivo nel quale vive dagli inizi questa Parola e dal quale riceve la sua luce, nel quale è nata. Già il fatto del Canone è un fatto ecclesiale: che questi scritti siano la Scrittura risulta dall’illuminazione della Chiesa, che ha trovato in sé questo Canone della Scrittura; ha trovato, non creato, e sempre e solo in questa comunione della Chiesa viva si può anche realmente capire, leggere la Scrittura come Parola di Dio, come Parola che ci guida nella vita e nella morte.
Come ho detto, questa era una lite abbastanza difficile, ma grazie al Papa e grazie – diciamo – alla luce dello Spirito Santo, che era presente nel Concilio, è stato creato un documento che è uno dei più belli e anche innovativi di tutto il Concilio, e che deve essere ancora molto più studiato. Perché anche oggi l’esegesi tende a leggere la Scrittura fuori dalla Chiesa, fuori dalla fede, solo nel cosiddetto spirito del metodo storico-critico, metodo importante, ma mai così da poter dare soluzioni come ultima certezza; solo se crediamo che queste non sono parole umane, ma sono parole di Dio, e solo se vive il soggetto vivo al quale ha parlato e parla Dio, possiamo interpretare bene la Sacra Scrittura. E qui - come ho detto nella prefazione del mio libro su Gesù (cfr vol. I) - c’è ancora molto da fare per arrivare ad una lettura veramente nello spirito del Concilio. Qui l’applicazione del Concilio ancora non è completa, ancora è da fare.
E, infine, l’ecumenismo. Non vorrei entrare adesso in questi problemi, ma era ovvio – soprattutto dopo le “passioni” dei cristiani nel tempo del nazismo – che i cristiani potessero trovare l’unità, almeno cercare l’unità, ma era chiaro anche che solo Dio può dare l’unità. E siamo ancora in questo cammino. Ora, con questi temi, l’”alleanza renana” – per così dire – aveva fatto il suo lavoro.
La seconda parte del Concilio è molto più ampia. Appariva, con grande urgenza, il tema: mondo di oggi, epoca moderna, e Chiesa; e con esso i temi della responsabilità per la costruzione di questo mondo, della società, responsabilità per il futuro di questo mondo e speranza escatologica, responsabilità etica del cristiano, dove trova le sue guide; e poi libertà religiosa, progresso, e relazione con le altre religioni. In questo momento, sono entrate in discussione realmente tutte le parti del Concilio, non solo l’America, gli Stati Uniti, con un forte interesse per la libertà religiosa. Nel terzo periodo questi hanno detto al Papa: Noi non possiamo tornare a casa senza avere, nel nostro bagaglio, una dichiarazione sulla libertà religiosa votata dal Concilio. Il Papa, tuttavia, ha avuto la fermezza e la decisione, la pazienza di portare il testo al quarto periodo, per trovare una maturazione ed un consenso abbastanza completi tra i Padri del Concilio. Dico: non solo gli americani sono entrati con grande forza nel gioco del Concilio, ma anche l’America Latina, sapendo bene della miseria del popolo, di un continente cattolico, e della responsabilità della fede per la situazione di questi uomini. E così anche l’Africa, l’Asia, hanno visto la necessità del dialogo interreligioso; sono cresciuti problemi che noi tedeschi – devo dire – all’inizio, non avevamo visto. Non posso adesso descrivere tutto questo. Il grande documento “Gaudium et spes” ha analizzato molto bene il problema tra escatologia cristiana e progresso mondano, tra responsabilità per la società di domani e responsabilità del cristiano davanti all’eternità, e così ha anche rinnovato l’etica cristiana, le fondamenta. Ma, diciamo inaspettatamente, è cresciuto, al di fuori di questo grande documento, un documento che rispondeva in modo più sintetico e più concreto alle sfide del tempo, e cioè la “Nostra aetate”. Dall’inizio erano presenti i nostri amici ebrei, che hanno detto, soprattutto a noi tedeschi, ma non solo a noi, che dopo gli avvenimenti tristi di questo secolo nazista, del decennio nazista, la Chiesa cattolica deve dire una parola sull’Antico Testamento, sul popolo ebraico. Hanno detto: anche se è chiaro che la Chiesa non è responsabile della Shoah, erano cristiani, in gran parte, coloro che hanno commesso quei crimini; dobbiamo approfondire e rinnovare la coscienza cristiana, anche se sappiamo bene che i veri credenti sempre hanno resistito contro queste cose. E così era chiaro che la relazione con il mondo dell’antico Popolo di Dio dovesse essere oggetto di riflessione. Si capisce anche che i Paesi arabi – i Vescovi dei Paesi arabi – non fossero felici di questa cosa: temevano un po’ una glorificazione dello Stato di Israele, che non volevano, naturalmente. Dissero: Bene, un’indicazione veramente teologica sul popolo ebraico è buona, è necessaria, ma se parlate di questo, parlate anche dell’Islam; solo così siamo in equilibrio; anche l’Islam è una grande sfida e la Chiesa deve chiarire anche la sua relazione con l’Islam. Una cosa che noi, in quel momento, non abbiamo tanto capito, un po’, ma non molto. Oggi sappiamo quanto fosse necessario.
Quando abbiamo incominciato a lavorare anche sull’Islam, ci hanno detto: Ma ci sono anche altre religioni del mondo: tutta l’Asia! Pensate al Buddismo, all’Induismo…. E così, invece di una Dichiarazione inizialmente pensata solo sull’antico Popolo di Dio, si è creato un testo sul dialogo interreligioso, anticipando quanto solo trent’anni dopo si è mostrato in tutta la sua intensità e importanza. Non posso entrare adesso in questo tema, ma se si legge il testo, si vede che è molto denso e preparato veramente da persone che conoscevano le realtà, e indica brevemente, con poche parole, l’essenziale. Così anche il fondamento di un dialogo, nella differenza, nella diversità, nella fede sull’unicità di Cristo, che è uno, e non è possibile, per un credente, pensare che le religioni siano tutte variazioni di un tema. No, c’è una realtà del Dio vivente che ha parlato, ed è un Dio, è un Dio incarnato, quindi una Parola di Dio, che è realmente Parola di Dio. Ma c’è l’esperienza religiosa, con una certa luce umana della creazione, e quindi è necessario e possibile entrare in dialogo, e così aprirsi l’uno all’altro e aprire tutti alla pace di Dio, di tutti i suoi figli, di tutta la sua famiglia.
Quindi, questi due documenti, libertà religiosa e “Nostra aetate”, connessi con “Gaudium et spes” sono una trilogia molto importante, la cui importanza si è mostrata solo nel corso dei decenni, e ancora stiamo lavorando per capire meglio questo insieme tra unicità della Rivelazione di Dio, unicità dell’unico Dio incarnato in Cristo, e la molteplicità delle religioni, con le quali cerchiamo la pace e anche il cuore aperto per la luce dello Spirito Santo, che illumina e guida a Cristo.
Vorrei adesso aggiungere ancora un terzo punto: c’era il Concilio dei Padri – il vero Concilio –, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media. Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri. E mentre il Concilio dei Padri si realizzava all’interno della fede, era un Concilio della fede che cerca l’intellectus, che cerca di comprendersi e cerca di comprendere i segni di Dio in quel momento, che cerca di rispondere alla sfida di Dio in quel momento e di trovare nella Parola di Dio la parola per oggi e domani, mentre tutto il Concilio – come ho detto – si muoveva all’interno della fede, come fides quaerens intellectum, il Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all’interno della fede, ma all’interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un’ermeneutica diversa. Era un’ermeneutica politica: per i media, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo. C’erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i Vescovi e poi, tramite la parola “Popolo di Dio”, il potere del popolo, dei laici. C’era questa triplice questione: il potere del Papa, poi trasferito al potere dei Vescovi e al potere di tutti, sovranità popolare. Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da promulgare, da favorire. E così anche per la liturgia: non interessava la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana. E sappiamo che c’era una tendenza, che si fondava anche storicamente, a dire: La sacralità è una cosa pagana, eventualmente anche dell’Antico Testamento. Nel Nuovo vale solo che Cristo è morto fuori: cioè fuori dalle porte, cioè nel mondo profano. Sacralità quindi da terminare, profanità anche del culto: il culto non è culto, ma un atto dell’insieme, della partecipazione comune, e così anche partecipazione come attività. Queste traduzioni, banalizzazioni dell’idea del Concilio, sono state virulente nella prassi dell’applicazione della Riforma liturgica; esse erano nate in una visione del Concilio al di fuori della sua propria chiave, della fede. E così, anche nella questione della Scrittura: la Scrittura è un libro, storico, da trattare storicamente e nient’altro, e così via.
Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale. Ma la forza reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza sempre più e diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa. Mi sembra che, 50 anni dopo il Concilio, vediamo come questo Concilio virtuale si rompa, si perda, e appare il vero Concilio con tutta la sua forza spirituale. Ed è nostro compito, proprio in questo Anno della fede, cominciando da questo Anno della fede, lavorare perché il vero Concilio, con la sua forza dello Spirito Santo, si realizzi e sia realmente rinnovata la Chiesa. Speriamo che il Signore ci aiuti. Io, ritirato con la mia preghiera, sarò sempre con voi, e insieme andiamo avanti con il Signore, nella certezza: Vince il Signore! Grazie!

© Copyright 2013 - Libreria Editrice Vaticana


[Modificato da Paparatzifan 15/02/2013 16:06]
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