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Viaggio apostolico in Giordania e Israele

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    00 13/05/2009 16:12
    PELLEGRINAGGIO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI IN TERRA SANTA (8-15 MAGGIO 2009) (XX)


    CERIMONIA DI BENVENUTO NEI TERRITORI PALESTINESI, A BETHLEHEM



    Questa mattina, alle ore 8.45, il Santo Padre Benedetto XVI lascia la Delegazione Apostolica di Jerusalem e si trasferisce in auto al Palazzo Presidenziale dell’Autorità Palestinese a Bethlehem. Il Papa passa il confine tra Israele e i Territori Autonomi Palestinesi alla Porta della Tomba di Rachele.

    Alle ore 9, nel piazzale antistante il Palazzo Presidenziale di Bethlehem, ha luogo la Cerimonia di benvenuto nei Territori Palestinesi. Il Santo Padre è accolto dal Presidente dell’Autorità Palestinese, Sig. Mahmoud Abbas alias Abu Mazen, dalle Autorità politiche, civili e religiose.

    Dopo la presentazione delle rispettive Delegazioni e il saluto del Presidente dell’Autorità Palestinese, il Papa pronuncia il discorso che pubblichiamo di seguito:

    DISCORSO DEL SANTO PADRE


    Signor Presidente,
    Cari amici,

    saluto tutti voi dal profondo del cuore, e vivamente ringrazio il Presidente, il Sig. Mahmoud Abbas, per le sue parole di benvenuto. Il mio pellegrinaggio nelle terre della Bibbia non sarebbe stato completo senza una visita a Betlemme, la Città di Davide e il luogo di nascita di Gesù Cristo. Né avrei potuto venire in Terra Santa senza accettare il gentile invito del Presidente Abbas a visitare questi Territori per salutare il popolo Palestinese. So quanto avete sofferto e continuate a soffrire a causa delle agitazioni che hanno afflitto questa terra per decine di anni. Il mio cuore si volge a tutte le famiglie che sono rimaste senza casa. Questo pomeriggio farò una visita all’Aida Refugee Camp per esprimere la mia solidarietà con il popolo che ha perduto così tanto. A quelli fra voi che piangono la perdita di familiari e di loro cari nelle ostilità, particolarmente nel recente conflitto di Gaza, offro l’assicurazione della più profonda compartecipazione e del frequente ricordo nella preghiera. In effetti, io prendo con me tutti voi nelle mie preghiere quotidiane, ed imploro ardentemente l'Eccelso per la pace, una pace giusta e durevole, nei Territori Palestinesi e in tutta la regione.

    Signor Presidente, la Santa Sede appoggia il diritto del Suo popolo ad una sovrana patria Palestinese nella terra dei vostri antenati, sicura e in pace con i suoi vicini, entro confini internazionalmente riconosciuti. Anche se al presente questo obiettivo sembra lontano dall’essere realizzato, io incoraggio Lei e tutto il Suo popolo a tenere viva la fiamma della speranza, speranza che si possa trovare una via di incontro tra le legittime aspirazioni tanto degli Israeliani quanto dei Palestinesi alla pace e alla stabilità. Per usare le parole del precedente Papa Giovanni Paolo II, non vi può essere "pace senza giustizia, né giustizia senza perdono" ( Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2002). Supplico tutte le parti coinvolte in questo conflitto di vecchia data ad accantonare qualsiasi rancore e contrasto che ancora si frapponga sulla via della riconciliazione, per arrivare a tutti ugualmente con generosità e compassione, senza discriminazione. Una coesistenza giusta e pacifica fra i popoli del Medio Oriente può essere realizzata solamente con uno spirito di cooperazione e mutuo rispetto, in cui i diritti e la dignità di tutti siano riconosciuti e rispettati. Chiedo a tutti voi, chiedo ai vostri capi, di riprendere con rinnovato impegno ad operare per questi obiettivi. In particolare, chiedo alla Comunità internazionale di usare della sua influenza in favore di una soluzione. Credo e confido che tramite un onesto e perseverante dialogo, con pieno rispetto delle aspettative di giustizia, si possa raggiungere in queste terre una pace durevole.

    E’ mia ardente speranza che i gravi problemi riguardanti la sicurezza in Israele e nei Territori Palestinesi vengano presto decisamente alleggeriti così da permettere una maggiore libertà di movimento, con speciale riguardo per i contatti tra familiari e per l’accesso ai luoghi santi. I Palestinesi, così come ogni altra persona, hanno un naturale diritto a sposarsi, a formarsi una famiglia e avere accesso al lavoro, all’educazione e all’assistenza sanitaria. Prego anche perché, con l’assistenza della Comunità internazionale, il lavoro di ricostruzione possa procedere rapidamente dovunque case, scuole od ospedali siano stati danneggiati o distrutti, specialmente durante il recente conflitto in Gaza. Questo è essenziale affinché il popolo di questa terra possa vivere in condizioni che favoriscano pace durevole e benessere. Una stabile infrastruttura offrirà ai vostri giovani opportunità migliori per acquisire valide specializzazioni e per ottenere impieghi remunerativi, abilitandoli a svolgere la loro parte nella promozione della vita delle vostre comunità. Rivolgo questo appello ai tanti giovani presenti oggi nei Territori Palestinesi: non permettete che le perdite di vite e le distruzioni, delle quali siete stati testimoni suscitino amarezze o risentimento nei vostri cuori. Abbiate il coraggio di resistere ad ogni tentazione che possiate provare di ricorrere ad atti di violenza o di terrorismo. Al contrario, fate in modo che quanto avete sperimentato rinnovi la vostra determinazione a costruire la pace. Fate in modo che ciò vi riempia di un profondo desiderio di offrire un durevole contributo per il futuro della Palestina, così che essa possa avere il suo giusto posto nello scenario del mondo. Che ciò ispiri in voi sentimenti di compassione per tutti coloro che soffrono, impegno per la riconciliazione ed una ferma fiducia nella possibilità di un più luminoso futuro.

    Signor Presidente, cari amici riuniti qui a Betlemme, invoco su tutto il popolo Palestinese le benedizioni e la protezione del nostro Padre celeste, ed elevo la fervida preghiera che il canto degli angeli risuonato in questo luogo si compia: "pace sulla terra agli uomini di buona volontà". Grazie. E Dio sia con voi.


    Al termine della Cerimonia di benvenuto, il Santo Padre si reca in auto alla "Manger Square" di Bethlehem.







    PELLEGRINAGGIO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI IN TERRA SANTA (8-15 MAGGIO 2009) (XXI)


    SANTA MESSA NELLA "MANGER SQUARE" DI BETHLEHEM



    Conclusa la cerimonia di benvenuto, il Santo Padre Benedetto XVI raggiunge in auto la "Manger Square" - la Piazza della Mangiatoia - di Bethlehem, antistante alla Basilica della Natività, ove, alle ore 10, ha luogo la Celebrazione Eucaristica.

    Nel corso della Santa Messa, introdotta dall’indirizzo di saluto del Patriarca di Gerusalemme dei Latini, Sua Beatitudine Fouad Twal, dopo la proclamazione del Vangelo il Papa pronuncia l’omelia che riportiamo di seguito:

    OMELIA DEL SANTO PADRE

    Cari fratelli e sorelle in Cristo,

    ringrazio Dio Onnipotente per avermi concesso la grazia di venire a Betlemme, non solo per venerare il posto dove Cristo è nato, ma anche per essere al vostro fianco, fratelli e sorelle nella fede, in questi Territori Palestinesi. Sono grato al Patriarca Fouad Twal per i sentimenti che ha espresso a nome vostro, e saluto con affetto i confratelli Vescovi e tutti i sacerdoti, religiosi e fedeli laici che faticano ogni giorno per confermare questa Chiesa locale nella fede, nella speranza, nell’amore. Il mio cuore si volge in maniera speciale ai pellegrini provenienti dalla martoriata Gaza a motivo della guerra: vi chiedo di portare alle vostre famiglie e comunità il mio caloroso abbraccio, le mie condoglianze per le perdite, le avversità e le sofferenze che avete dovuto sopportare. Siate sicuri della mia solidarietà con voi nell’immensa opera di ricostruzione che ora vi sta davanti e delle mie preghiere che l’embargo sia presto tolto.

    "Non temete: ecco vi annuncio una grande gioia… oggi nella città di Davide è nato per voi un Salvatore" (Lc 2,10-11). Il messaggio della venuta di Cristo, recato dal cielo mediante la voce degli angeli, continua ad echeggiare in questa città, come echeggia nelle famiglie, nelle case e nelle comunità del mondo intero. È una "grande gioia", hanno detto gli angeli, "che sarà di tutto il popolo" (Lc 2,10). Questo messaggio di gioia proclama che il Messia, Figlio di Dio e figlio di Davide, è nato "per voi": per te e per me, e per tutti gli uomini e donne di ogni tempo e luogo. Nel piano di Dio, Betlemme, "così piccola per essere fra i villaggi di Giudea" (Mic 5,1) è divenuta un luogo di gloria immortale: il posto dove, nella pienezza dei tempi, Dio ha scelto di divenire uomo, per concludere il lungo regno del peccato e della morte e per portare vita nuova ed abbondante ad un mondo che era divenuto vecchio, affaticato, oppresso dalla disperazione.

    Per gli uomini e le donne di ogni luogo, Betlemme è associata al gioioso messaggio della rinascita, del rinnovamento, della luce e della libertà. E tuttavia qui, in mezzo a noi, quanto lontana sembra questa magnifica promessa dall’essere compiuta! Quanto distante appare quel Regno di ampio dominio e di pace, sicurezza, giustizia ed integrità, che il profeta Isaia aveva annunciato, secondo quanto abbiamo ascoltato nella prima lettura (cfr Is 9,7) e che proclamiamo come fondato in maniera definitiva con la venuta di Gesù Cristo, Messia e Re!

    Dal giorno della sua nascita, Gesù è stato "segno di contraddizione" (Lc 2,34) e continua ad essere tale anche oggi. Il Signore degli eserciti, "le cui origini è dall’antichità, dai giorni più remoti" (Mic 5,2), volle inaugurare il suo Regno nascendo in questa piccola città, entrando nel nostro mondo nel silenzio e nell’umiltà in una grotta, e giacendo, come bimbo bisognoso di tutto, in una mangiatoia. Qui a Betlemme, nel mezzo di ogni genere di contraddizione, le pietre continuano a gridare questa "buona novella", il messaggio di redenzione che questa città, al di sopra di tutte le altre, è chiamata a proclamare a tutto il mondo. Qui infatti, in un modo che sorpassa tutte le speranze e aspettative umane, Dio si è mostrato fedele alle sue promesse. Nella nascita del suo Figlio, Egli ha rivelato la venuta di un Regno d’amore: un amore divino che si china per portare guarigione e per innalzarci; un amore che si rivela nell’umiliazione e nella debolezza della croce, eppure trionfa nella gloriosa risurrezione a nuova vita. Cristo ha portato un Regno che non è di questo mondo, eppure è un Regno capace di cambiare questo mondo, poiché ha il potere di cambiare i cuori, di illuminare le menti e di rafforzare le volontà. Nell’assumere la nostra carne, con tutte le sue debolezze, e nel trasfigurarla con la potenza del suo Spirito, Gesù ci ha chiamato ad essere testimoni della sua vittoria sul peccato e sulla morte. E questo è ciò che il messaggio di Betlemme ci chiama ad essere: testimoni del trionfo dell’amore di Dio sull’odio, sull’egoismo, sulla paura e sul rancore che paralizzano i rapporti umani e creano divisione fra fratelli che dovrebbero vivere insieme in unità, distruzioni dove gli uomini dovrebbero edificare, disperazione dove la speranza dovrebbe fiorire!

    "Nella speranza siamo stati salvati" dice l’apostolo Paolo (Rm 8,24). E tuttavia afferma con grande realismo che la creazione continua a gemere nel travaglio, anche se noi, che abbiamo ricevuto le primizie dello Spirito, attendiamo pazientemente il compimento della redenzione (cfr Rm 8,22-24). Nella seconda lettura odierna, Paolo trae dall’Incarnazione una lezione che può essere applicata in modo particolare alle sofferenze che voi, i prescelti da Dio in Betlemme, state sperimentando: "È apparsa la grazia di Dio – egli dice – che ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà", nell’attesa della venuta della nostra beata speranza, il Salvatore Cristo Gesù (Tt 2,11-13).

    Non sono forse queste le virtù richieste a uomini e donne che vivono nella speranza? In primo luogo, la costante conversione a Cristo che si riflette non solo sulle nostre azioni, ma anche sul nostro modo di ragionare: il coraggio di abbandonare linee di pensiero, di azione e di reazione infruttuose e sterili. La cultura di un modo di pensare pacifico basato sulla giustizia, sul rispetto dei diritti e dei doveri di tutti, e l’impegno a collaborare per il bene comune. E poi la perseveranza, perseveranza nel bene e nel rifiuto del male. Qui a Betlemme si chiede ai discepoli di Cristo una speciale perseveranza: perseveranza nel testimoniare fedelmente la gloria di Dio qui rivelata nella nascita del Figlio suo, la buona novella della sua pace che discese dal cielo per dimorare sulla terra.

    "Non abbiate paura!". Questo è il messaggio che il Successore di San Pietro desidera consegnarvi oggi, facendo eco al messaggio degli angeli e alla consegna che l’amato Papa Giovanni Paolo II vi ha lasciato nell’anno del Grande Giubileo della nascita di Cristo. Contate sulle preghiere e sulla solidarietà dei vostri fratelli e sorelle della Chiesa universale, e adoperatevi con iniziative concrete per consolidare la vostra presenza e per offrire nuove possibilità a quanti sono tentati di partire. Siate un ponte di dialogo e di collaborazione costruttiva nell’edificare una cultura di pace che superi l’attuale stallo della paura, dell’aggressione e della frustrazione. Edificate le vostre Chiese locali facendo di esse laboratori di dialogo, di tolleranza e di speranza, come pure di solidarietà e di carità pratica.

    Al di sopra di tutto, siate testimoni della potenza della vita, della nuova vita donataci dal Cristo risorto, di quella vita che può illuminare e trasformare anche le più oscure e disperate situazioni umane. La vostra terra non ha bisogno soltanto di nuove strutture economiche e politiche, ma in modo più importante – potremmo dire – di una nuova infrastruttura "spirituale", capace di galvanizzare le energie di tutti gli uomini e donne di buona volontà nel servizio dell’educazione, dello sviluppo e della promozione del bene comune. Avete le risorse umane per edificare la cultura della pace e del rispetto reciproco che potranno garantire un futuro migliore per i vostri figli. Questa nobile impresa vi attende. Non abbiate paura!

    L’antica basilica della Natività, provata dai venti della storia e dal peso dei secoli, si erge di fronte a noi quale testimone della fede che permane e trionfa sul mondo (cfr 1 Gv 5,4). Nessun visitatore di Betlemme potrebbe fare a meno di notare che nel corso dei secoli la grande porta che introduce nella casa di Dio è divenuta sempre più piccola. Preghiamo oggi affinché, con la grazia di Dio e il nostro impegno, la porta che introduce nel mistero della dimora di Dio tra gli uomini, il tempio della nostra comunione nel suo amore, e l’anticipo di un mondo di perenne pace e gioia, si apra sempre più ampiamente per accogliere ogni cuore umano e rinnovarlo e trasformarlo. In questo modo, Betlemme continuerà a farsi eco del messaggio affidato ai pastori, a noi, all’umanità: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama"! Amen.


    Al termine della Santa Messa, il Papa si reca a piedi al Convento di Casa Nova a Bethlehem - la Casa francescana per i pellegrini - dove pranza con gli Ordinari di Terra Santa, con la Comunità dei Francescani e con i Membri del Seguito papale.






    Il Papa a Betlemme: il luogo della nascità di Gesù invita a testimoniare il trionfo dell'amore sull'odio. Solidarietà ai pellegrini di Gaza: sia tolto l'embargo



    Attraverso il check point che separa lo Stato israeliano dai Territori palestinesi, il Papa è giunto stamani in auto a Betlemme poco prima delle 8.00. Dopo la cerimonia di benvenuto con il presidente Abbas si è trasferito nella Piazza della Mangiatoia per celebrare la Santa Messa. Il Papa ha avuto parole di speranza pur in mezzo alle grandi sofferenze di queste popolazioni: il luogo della nascità di Gesù – ha detto - invita a testimoniare il trionfo dell'amore sull'odio. Ha quindi espresso la sua solidarietà ai pellegrini giunti da Gaza chiedendo che sia tolto l'embargo. Alla celebrazione ha partecipato anche il presidente Abbas e decine di musulmani. Molte le bandiere palestinesi tra la folla. Per le strade di Betlemme non c’era la gente del 2000 per Giovanni Paolo II ma il blocco imposto da Israele non favorisce gli spostamenti. Linea al nostro inviato Roberto Piermarini:

    (canto)

    Una giornata nel cuore del popolo palestinese per rinnovare l’appello di pace e di speranza nella cittadina che oltre 2000 anni fa ha visto la nascita di Gesù. Dalla Piazza della Mangiatoia di Betlemme, di fronte alla Basilica della Natività, sullo sfondo delle aride colline del Neghev e davanti a 10 mila fedeli, Benedetto XVI ha lanciato una forte invocazione a “non avere paura”, richiamando l’appello che nove anni fa lanciò Giovanni Paolo II nell’anno del Grande Giubileo del Duemila.


    “Per gli uomini e le donne di ogni luogo – ha detto il Papa – Betlemme è associata al gioioso messaggio della rinascita, del rinnovamento, della luce e della libertà. E tuttavia qui, in mezzo a noi, quanto lontana sembra questa magnifica promessa dall’essere compiuta! Quanto distante appare quel Regno di ampio dominio e di pace, sicurezza, giustizia ed integrità. Dal giorno della sua nascita – ha osservato il Papa – Gesù è stato ‘segno di contraddizione’ e qui a Betlemme, nel mezzo di ogni genere di contraddizione, le pietre continuano a gridare questa “buona novella”, il messaggio di redenzione che questa città, al di sopra di tutte le altre, è chiamata a proclamare a tutto il mondo”. Questo è il messaggio di Betlemme: una chiamata ad essere testimoni del trionfo dell’amore di Dio sull’odio, sull’egoismo, sulla paura e sul rancore che paralizzano i rapporti umani e creano divisione tra fratelli che dovrebbero vivere insieme in unità, distruzioni dove gli uomini dovrebbero edificare, disperazione dove la speranza dovrebbe fiorire.


    “Do not be afraid!...”
    Non abbiate paura! - ha ripetuto il Papa - Adoperatevi con iniziative concrete per consolidare la vostra presenza e per offrire nuove possibilità a quanti sono tentati di partire, soprattutto ai giovani che sono il futuro di questo popolo”.


    I cristiani a Betlemme rappresentavano l’80% della popolazione, ora sono poco più del 15-20% ed emigrano per la precarietà del lavoro, per l’instabilità politica nella regione e per le minacce dell’integralismo islamico. Benedetto XVI ha invitato i cristiani ad “essere ponte di dialogo e di collaborazione costruttiva nell’edificare una cultura di pace che superi l’attuale stallo della paura, dell’aggressione e della frustrazione. Edificate le vostre Chiese locali – ha esortato – facendo di esse laboratori di dialogo, di tolleranza e di speranza, come pure di solidarietà e di carità. ‘Non abbiate paura’, la vostra terra non ha bisogno soltanto di nuove strutture economiche e politiche ma di una nuova infrastruttura spirituale da mettere al servizio dell’educazione dello sviluppo e della promozione del bene comune.


    All’omelia il Papa non ha voluto dimenticare la presenza dei pellegrini provenienti dalla martoriata Gaza, a causa della guerra:

    “I ask you to bring back to your families...
    Vi chiedo di portare alle vostre famiglie e comunità il mio caloroso abbraccio, le mie condoglianze per le perdite, le avversità e le sofferenze che avete dovuto sopportare. Siate sicuri della mia solidarietà con voi nell’immensa opera di ricostruzione che ora vi sta davanti e delle mie preghiere che l’embargo sia presto tolto”.


    A Betlemme, ne sono arrivati da Gaza una cinquantina sui 250 cristiani che ne avevano fatto richiesta alle autorità israeliane; con loro il parroco padre Musallam.


    (preghiera dei fedeli in arabo)

    Anche alla preghiera dei fedeli si è pregato in arabo per i bambini palestinesi di Gaza rimasti uccisi nel conflitto, orfani e che vivono nella miseria e nella paura. E del dopoguerra a Gaza ha parlato nel suo indirizzo di saluto al Papa, anche il Patriarca latino di Gerusalemme mons. Twal il quale ha ricordato l’ingiustizia, l’occupazione e la mancanza di speranza – soprattutto per i giovani - causa di emigrazione di molti cristiani dalla Terra Santa:

    “No one can pretend to own this land...
    Nessuno può pretendere di possedere questa terra al posto degli altri ed escludendo gli altri. – ha detto – Dio stesso ha scelto questa terra e vuole che tutti i suoi figli vi vivano insieme”.

    Ma – ha ribadito mons. Twal – finché l’instabilità politica perdura, finchè si estende il muro che separa Betlemme da Gerusalemme e dal resto del mondo, noi non potremo trovare la pace per la nostra terra”.


    (canto)




    Il Papa al presidente Abbas: la Santa Sede appoggia i diritti dei palestinesi. Ai giovani: resistere alla tentazione del terrorismo


    Benedetto XVI partecipa la speranza che il popolo palestinese possa avere una “patria sovrana”, implorando una “pace giusta e durevole” in tutta la regione mediorientale: sono questi i temi affrontati dal Papa durante l'incontro col presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas nella cerimonia di benvenuto a Betlemme che si è svolta nel piazzale antistante il Palazzo presidenziale. Il servizio di Roberta Gisotti.

    “So quanto avete sofferto e continuate a soffrire” per le agitazioni “che hanno afflitto questa terra per decine di anni”, ha esordito Benedetto XVI rivolto al presidente Abbas e a tutti gli amici palestinesi, incontrati a Betlemme, nella città natale di Gesù, raccogliendo l’invito a visitare i Territori autonomi. Benedetto XVI ha espresso solidarietà al popolo palestinese “che ha perduto così tanto”, partecipando alla sofferenza di quanti “piangono la perdita di familiari e di loro cari nelle ostilità”, ed offrendo il conforto delle sue preghiere quotidiane per loro. “Imploro ardentemente” – ha invocato il Papa - “una pace giusta e durevole, nei Territori palestinesi e in tutta la regione”.


    “Mr President, the Holy See supports the right of your people...”
    Benedetto XVI ha rassicurato il presidente Abbas che la Santa Sede appoggia “il diritto del popolo palestinese ad una “sovrana patria” nella terra degli antenati, “sicura e in pace” con i vicini, “entro confini internazionalmente riconosciuti”. E se questo obiettivo oggi sembra ancora “lontano dall’essere realizzato”, il Papa ha incoraggiato “a tenere viva la fiamma della speranza”,“che si possa trovare una via di incontro tra le legittime aspirazioni tanto degli Israeliani quanto dei Palestinesi alla pace e alla stabilità”.


    Da qui la supplica a “tutte le parti coinvolte in questo conflitto di vecchia data ad accantonare qualsiasi rancore e contrasto” perché “i diritti e la dignità di tutti siano riconosciuti e rispettati”.


    “I ask all of you, I ask your leaders, to make a renewed commitment...”
    Ha chiesto il Santo Padre “di riprendere con rinnovato impegno ad operare per questi obiettivi”, con il sostegno della comunità internazionale, confidando che “un onesto e perseverante dialogo, con pieno rispetto delle aspettative di giustizia”, possa portare “in queste terre una pace durevole”. E condizione essenziale è risolvere “i gravi problemi” della sicurezza in Israele e nei Territori palestinesi “cosi da permettere maggiore libertà di movimento”, specie per i contatti familiari e l’accesso ai luoghi santi. “I Palestinesi così come ogni altro popolo – ha ricordato il Papa - hanno un naturale diritto a sposarsi, a formarsi una famiglia e avere accesso al lavoro, all’educazione e all’assistenza sanitaria”. E così anche ha sollecitato Benedetto XVI, la ricostruzione di case, scuole, ospedali danneggiati o distrutti, specie nel recente conflitto di Gaza. Infine un appello ai giovani:


    “Do not allow the loss of life and the destruction that you have witnessed...
    Non permettete che le perdite di vite e le distruzioni, delle quali siete stati testimoni suscitino amarezze o risentimento nei vostri cuori. Abbiate il coraggio di resistere ad ogni tentazione che possiate provare di ricorrere ad atti di violenza o di terrorismo. Al contrario, fate in modo che quanto avete sperimentato rinnovi la vostra determinazione a costruire la pace”.


    Da parte sua il presidente palestinese ha ribadito “la necessità di due Stati sovrani Israele e Palestina che vivano accanto in un clima di pace e stabilità”. Siamo per la pace - ha detto - e continuiamo ad avere speranza in un domani senza più occupazione, profughi o prigionieri, fondato sulla coesistenza pacifica e la prosperità. Ma ha poi lamentato che in quella Terra si costruiscono ancora muri e non ponti, riferendosi in particolare al muro che circonda Gerusalemme est, acuendo quindi le sofferenze del popolo palestinese; ha parlato anche di aggressione israeliana a Gaza e del tentativo– a suo dire - per mezzo dell’occupazione di costringere cristiani e musulmani all’esilio.





    Commento da Betlemme: le parole piene di amore del Papa ci danno coraggio e speranza!


    Benedetto XVI è stato accolto a Betlemme, il luogo della nascita di Gesù, in un clima di grande commozione. Sulle parole pronunciate dal Santo Padre si sofferma, al microfono di Fabio Colagrande, il dottor Geries Sa’ed Khourry, direttore del Centro Al-Liqa’ di Betlemme per la promozione della tolleranza e dell’amicizia tra cristiani, musulmani ed ebrei:

    R. – Le parole di Sua Santità hanno commosso tutti: hanno commosso non soltanto i giovani, ma tutti noi. Quando ha detto: “Bisogna resistere, non bisogna scappare, bisogna sperare, bisogna rimanere qua!”. E’ un messaggio molto importante per la Chiesa locale. Noi crediamo nel dialogo, crediamo nell’incontro sia religioso sia culturale; noi crediamo nella costruzione di ponti e non muri tra popoli e tra religioni. Perciò, i giovani sono molto importanti per il futuro della presenza viva della Chiesa locale.


    D. – Lei crede davvero che, nonostante le grandi difficoltà che stanno vivendo i Territori palestinesi, questo seme di speranza e di pace possa maturare?


    R. – Come popolo palestinese, abbiamo sofferto per più di 60 anni, e tuttora stiamo soffrendo. Ma quando sentiamo queste parole, che danno coraggio, quando sentiamo parole che sono piene di amore, piene di fede, per noi sono veramente parole che ci danno speranza per un futuro migliore. Noi palestinesi cristiani dobbiamo continuare a far sentire la nostra voce profetica che chiede la giusta pace in Terra Santa sia per il popolo palestinese sia per i nostri fratelli israeliani, noi vogliamo solo una cosa: uno Stato palestinese per il nostro popolo che ha sofferto, affianco allo Stato israeliano: che vivano in pace l’uno vicino all’altro!





    Padre Shomali e suor Nobs sulla visita del Papa al Campo profughi di Aida e al Caritas Baby Hospital


    Nel pomeriggio il Pontefice visiterà la Grotta della Natività e, a seguire, il Caritas Baby Hospital di Betlemme e il Campo profughi di Aida, dove incontrerà - come è stato a Gerusalemme per la famiglia del soldato Shalit prigioniero di Hamas - due coppie, una cristiana e l’altra musulmana, che hanno i propri figli detenuti in Israele. Inoltre il Papa donerà 50 mila euro al Campo, che li utilizzerà per la costruzione di tre aule scolastiche che saranno intitolate a suo nome. Secondo l’Onu i profughi palestinesi sono circa 4 milioni e 600 mila. Nei territori palestinesi gli sfollati sono un milione e 300 mila. Il campo profughi di Aida accoglie circa 7 mila persone. Sulla situazione in questo campo ci parla padre William Shomali rettore del seminario di Beit Jala, al microfono di Roberto Piermarini:

    R. – Il Campo profughi di Aida è uno dei tre campi che si trovano a Betlemme; era un terreno che apparteneva alla popolazione cristiana di Beit Jala. Hanno costruito prima di tutto qualche tenda, all’inizio, nel ’48; dopo hanno costruito delle case che adesso sono come tutte le altre case di Betlemme, quelle più povere, con strade malmesse: le fognature sono spesso inesistenti. La popolazione non arriva a più di sei, sette mila persone, per la maggior parte musulmana eccetto qualche famiglia cristiana che aveva dei terreni là e vi ha costruito.


    D. – Come vivono queste poche famiglie cristiane all’interno di questo campo profughi, a maggioranza musulmana?


    R. – Dipende. C’è qualcuno che vive meglio: non sono mendicanti, direi che sono persone normali.


    D. – Sono in armonia con la comunità musulmana?


    R. – Direi di sì perché ogni volta che noi cristiani siamo minoritari, non c’è problema. Il problema arriva quando siamo maggioritari, come a Betlemme o in altre città dove il numero è consistente: ma quando siamo un due per cento, non siamo oggetto di minaccia per nessuno.


    D. – Quali problematiche ci sono all’interno di questo campo di Aida?


    R. – Questa gente vuol ritornare alla sua casa di origine: hanno lasciato la propria terra, la casa, i familiari. Ogni anno la situazione diventa più difficile perché i primi profughi, quelli del ’48, sono quasi tutti morti. Ci sono i figli, ma dopo tre generazioni, la possibilità di ritornare, diventa meno probabile. Dunque, una certa disperazione di ritornare, esiste, sapendo che gli israeliani non vogliono il ritorno dei profughi. Hanno messo questa condizione per qualsiasi soluzione al problema. Forse permetteranno il ritorno dei profughi all’interno dei Territori palestinesi, ma mai all’interno di Israele. (Montaggio a cura di Maria Brigini)


    Prima di arrivare al Campo profughi di Aida, il Papa si reca al Caritas Baby Hospital di Betlemme: un ospedale pediatrico fondato nel 1978 e sostenuto dai vescovi svizzeri e tedeschi. Assicura circa 30 mila prestazioni ambulatoriali e 4 mila degenze all’anno anche grazie all’impegno delle Suore Francescane Elisabettiane di Padova. Roberto Piermarini ne ha parlato con suor Erika Nobs, direttrice delle infermiere dell’ospedale:

    R. – Assistiamo i bambini palestinesi che vengono da Betlemme e dalla circoscrizione di Hebron, dalla parte sud del West Bank.


    D. – Quindi, sono tutti bambini musulmani, la maggior parte?


    R. – La maggior parte sono bambini musulmani, la stragrande maggioranza: il 90 per cento e anche più.


    D. – Che rapporto avete con le famiglie musulmane che portano a voi questi bambini?


    R. – Di solito un buon rapporto: loro sono contenti e grati per il servizio che diamo. Siamo l’unico ospedale ed hanno veramente bisogno di noi. Ed anche per questo sono grati.


    D. – Cosa curate in particolare?


    R. – Curiamo tutte le malattie interne e anche tante malattie genetiche, malattie metaboliche, malattie del cuore, dovute al matrimonio tra consanguinei.


    D. – Quali sono le difficoltà maggiori che incontrate nel vostro lavoro, nell’ospedale?


    R. – Le difficoltà sono quelle del trasferimento a Gerusalemme, quando un bambino ha bisogno di un intervento chirurgico. E’ una grande difficoltà, perché senza permessi non possono partire. Si devono, poi, coordinare le ambulanze. Una nostra ambulanza deve andare al check-point e dall’altra parte deve venire l’ambulanza da Israele, e questo crea difficoltà, perché i bambini a volte sono molto ammalati, ma devono, in ogni caso, cambiare l’ambulanza.


    D. – I bambini che voi accogliete nel vostro ospedale, la maggior parte non pagano, non hanno la possibilità di pagare. Ma come va avanti l’ospedale economicamente, avete dei donatori?


    R. – Noi abbiamo tanti donatori e siamo grati a tutti gli amici che ci aiutano a portare avanti l’opera: amici dall’Italia, amici dalla Germania, dalla Svizzera, dall’Europa e anche altrove. Possiamo veramente fare una buona opera.


    D. – Suor Erika, perché questa visita del Papa al Caritas Baby Hospital? Come vede lei questa visita?


    R. – Devo dire che siamo tanto contenti di questa visita, di questa sorpresa che ci fa il Santo Padre. Ma io penso che oltre a visitare i luoghi santi, cioè il luogo dove Gesù è nato, lui voglia vedere anche i bambini Gesù viventi, che abbiamo nel nostro ospedale. (Montaggio a cura di Maria Brigini)




    Domani la visita a Nazareth: intervista con mons. Marcuzzo


    Domani Benedetto XVI visiterà Nazareth, nella penultima giornata del suo pellegrinaggio in Terra Santa. Nella mattinata presiederà la Messa presso il Monte del Precipizio. Nel pomeriggio incontrerà i capi religiosi della Galilea nella Basilica dell’Annunciazione e visiterà la Grotta del “sì” di Maria all’Arcangelo Gabriele. La celebrazione dei Vespri nel Santuario concluderà la giornata. Sul significato di questa visita del Papa a Nazareth, Roberto Piermarini ha sentito mons. Giacinto-Boulos Marcuzzo, vicario patriarcale latino per Israele:


    R. – Il tema principale è la famiglia, per due motivi. Prima di tutto, naturalmente, perché Nazareth è il luogo della Sacra Famiglia di Nazareth, e anche perché la Chiesa locale di Terra Santa – Giordania, Israele, Palestina – conclude quest’anno l’Anno della Famiglia: è da tre anni che noi stiamo concentrando tutti i nostri sforzi intorno alla Famiglia e siamo contentissimi che il Papa possa anche benedire la prima pietra di un progetto molto caro a Giovanni Paolo II: il famoso Centro internazionale per la spiritualità della famiglia, che si costruirà a Nazareth.


    D. – In ogni viaggio del Papa si parla di attentati, di minacce – immancabilmente. Perché in questo viaggio si fa riferimento però anche a minacce fatte a Nazareth?


    R. – Perché Nazareth, negli anni tra il 1997 e il 2002, ha vissuto momenti poco belli nella coesistenza interreligiosa. Grazie a Dio, questi momenti ora sono superati: adesso le relazioni sono buone – tradizionalmente erano ottime! Infatti, quell’episodio della famosa moschea da costruirsi nel centro di Nazareth era qualcosa veramente di non naturale, venuto quasi da fuori e soprattutto molto politicizzato. Allora, queste tensioni sono un po’ collegate a quei ricordi che adesso sono sorpassati, e adesso la comunità di Nazareth – i cristiani, naturalmente, ma anche i musulmani – accolgono con amore, con calore, il Papa.


    D. – Lei, eccellenza, personalmente, che cosa si aspetta da questa visita del Papa a Nazareth?


    R. – Abbiamo in Terra Santa ancora oggi una comunità di cristiani composta dai discendenti della prima comunità cristiana fondata da Gesù Cristo stesso. Che il Papa venga e possa incontrare questa comunità è molto, molto significativo! Per noi il Papa è Pietro, la roccia sulla quale vogliamo fondare la nostra presenza, il nostro radicamento qui, le nostre relazioni con gli altri. E’ la pietra sicura …





    Padre Lombardi: giornata splendida a Betlemme!


    Sulla visita del Papa a Betlemme ascoltiamo il commento del direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, al microfono di Sergio Centofanti:

    R. – E’ una giornata splendida, c’è un’accoglienza molto calorosa … La Messa è una vera, grande festa con una partecipazione estremamente cordiale dei cristiani che non solo sono quelli di Betlemme ma sono anche venuti dalla West Bank e un gruppo è venuto anche da Gaza … quindi, è un momento veramente di gioia. E nonostante le difficoltà che qui le comunità cristiane vivono e che sono state ricordate con molta efficacia anche dal Santo Padre - oltre che dal patriarca latino Twal - però è un messaggio di speranza, quello che porta il Papa, di grande solidarietà della Chiesa universale con queste comunità cristiane, e anche di speranza, perché continuino ad impegnarsi qui, ad essere ponti di riconciliazione in Paesi di tensione, e ad essere testimoni, i custodi – diciamo – come comunità viva dei Luoghi più santi della nostra religione.


    D. – Come sono state accolte dai palestinesi le espressioni di solidarietà del Papa?


    R. – Bè, naturalmente sono state accolte con grandissima gioia: è quello che loro desiderano, è quello di cui sentono il bisogno; però, bisogna notare sempre che le espressioni di solidarietà del Papa sono unite ad un incoraggiamento, ad uno spirito di pace e di riconciliazione. Ci sono state le parole chiare del Papa soprattutto per i giovani, di non cedere alla tentazione del terrorismo e della violenza. Quindi, il Papa continua a dare un messaggio che è chiarissimamente orientato alla pace e al superamento delle divisioni. Lo ha fatto in Israele, lo ha fatto con i musulmani e lo fa anche qui con i palestinesi.


    D. – E’ un pellegrinaggio di pace che cerca di mettere insieme le legittime aspirazioni dei palestinesi e degli israeliani …


    R. – Certamente: questo il Papa lo ha ripetuto molto chiaramente, soprattutto nel discorso all’arrivo qui, al Palazzo presidenziale di Mahmoud Abbas, dicendo chiaramente il sostegno della Santa Sede per la linea di due Stati sovrani, indipendenti, con confini internazionalmente riconosciuti che vivano in pace. Tra l’altro, due Stati che vivono così vicini sono anche interrelati da tantissimi rapporti di carattere sociale, economico, umano … Ecco, la pace può essere fatta solo se queste entità statali crescono in un clima in cui poi anche tutti i tessuti umani siano di riconciliazione e di pace.





    Gerusalemme: concerto per la riconciliazione


    In occasione della visita del Santo Padre in Terra Santa, si terrà stasera a Gerusalemme un grande evento internazionale di musica e danza per favorire l'unità e la pace tra i popoli: il concerto per la Riconciliazione, patrocinato dal Comune di Roma, ed organizzato da Sat2000, l'emittente satellitare dei Vescovi italiani. Il concerto avrà come scenario l'anfiteatro romano di Bet She'an, che potrà ospitare oltre 7000 persone. Sul palco canteranno star e reciteranno e balleranno ragazzi di fede ebraica, cristiana e musulmana. Il servizio di Debora Donnini:


    (musica)

    “Se l’Eden si trova in Israele le sue porte sono a Bet She’an” dice la tradizione ebraica. E’ proprio questa cittadina della Galilea infatti ad ospitare il concerto per la Riconciliazione. Nello splendido palco dell’anfiteatro romano musicisti e cantanti, ballerini professionisti e ragazzi di fede musulmana, ebraica e cristiana daranno vita ad uno spettacolo per parlare della pace, anzi per mostrare come si costruisce la pace: dai cuori delle persone, come tante volte ha ricordato il Papa in questo viaggio. Tanti gli artisti attesi. Presente anche il coro del Magnificent Institute composto da 20 bambine ebree, cristiane e musulmane, così come l’orchestra di 150 persone. Francesco Porcelli, produttore esecutivo del concerto e responsabile delle produzioni di Sat 2000.


    “E’ una risposta concreta che si vuol dare: questa sensibilizzazione che il Santo Padre cerca di fare sul processo di pace in Terra Santa. Quindi, si è partiti da questa considerazione e si è arrivati appunto alla conclusione che bisogna frapporre fra i due popoli uno spartito, l’arte, che comunque li accomuna”.


    Uno dei pezzi forti dello spettacolo è senz’altro la performance del gruppo di teatro della Fondazione “Beereshit-In principio la Shalom” fondato da Angelica Livne Calò, che da anni insegna a bambini ebrei e arabi, cristiani e musulmani, a dialogare attraverso le arti, prima fra tutte il teatro. I ragazzi appaiono sul palco con maschere e tuniche bianche, ma questo momento sarà spezzato da un litigio e dallo strappo delle tuniche sotto le quali si accorgeranno di essere vestiti chi di viola, chi di arancione, i due colori più lontani fra loro nella scala cromatica. Scoppia dunque la guerra. Quando però due ragazzi usciti dal gruppo si tolgono la maschera, scoprono di avere un volto, infrangendo una convenzione anche teatrale. Allora prende il via una bellissima danza, due di loro però non riescono a togliersi la maschera.


    Ad aiutarli una voce fuori campo che legge un brano di Anna Frank: perché, si chiedeva la giovane ragazza ebrea, si spendono tanti soldi per le armi e non per i poveri. Dopo queste parole e l’offerta del pane da parte di un bimbo, anche gli ultimi due ragazzi riescono a togliersi la maschera. E il pane viene distribuito a tutto il pubblico. Vedere il volto dell’altro, la sua umanità, è il primo passo, come ci spiega la stessa Angelica Livne Calò:

    “Nel momento in cui ti togli la maschera vedi il volto, vedi che c’è un sorriso, vedi che ci sono delle gote come le tue, vedi che puoi parlare con questa persona e questa persona è diversa dalla tua identità, ma è un essere umano come te. Per cui tu hai meno paura. Le guerre nascono dalle paure. Noi siamo nati per amare, per vivere, siamo nati per creare, per procreare, per cui si spera che togliendoci una maschera, sia poi quello che ci aiuta ad avvicinarci”.

    Gran finale le note di “we are the world”, cantato in ebraico, arabo e inglese perché come ricorda il filo conduttore della serata, lì dove non arrivano le parole, posso arrivare l’arte. Ad Angelica abbiamo chiesto ancora cosa suscita in lei questa visita del Papa:

    “Suscita molta speranza e tutto ciò che può creare amicizia, il calare di certe maschere, l’avvicinamento di persone è la cosa più inestimabile e più importante che abbiamo in questo momento. Io spero che questa visita porti una buona svolta nella storia, che ci aiuti, in un momento come questo così difficile, a creare nuovi orizzonti, diversi per lo meno per le nuove generazioni. Poi questo spettacolo, secondo me, è una cosa molto importante perché è attraverso l’arte, la musica, tutti i gesti universali che si possono unire le persone. Riusciamo per lo meno a dare un buon esempio di speranza per il futuro, che è quello che di cui tutti abbiamo bisogno in questo momento. Abbiamo bisogno di piccoli miracoli”.





    Il saluto del patriarca Twal: finché il muro separerà Betlemme dal mondo, non ci potrà essere pace


    All'inizio della Messa nella Piazza della Mangiatoia di Betlemme il patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal ha rivolto il suo indirizzo di saluto al Papa. Ecco il testo integrale di questo saluto.

    Santissimo Padre,

    In nome dei miei fratelli i vescovi cattolici di Terra Santa; in nome di tutte le Chiese locali di Gesù Cristo presenti su questa terra; in nome di tutti gli abitanti e visitatori di questa terra santificata dalla nascita, dalla vita, dalla morte e dalla resurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo, Le do il benvenuto oggi a Betlemme.

    Noi L’accogliamo come successore di san Pietro, al quale il Cristo ha dato la missione di “confermare i suoi fratelli”: Lei è tra noi come nostre padre e nostro fratello. La sua presenza qui oggi significa che noi siamo sempre presenti nel cuore e nello spirito della Chiesa universale, che la Chiesa cattolica tutta intera è con noi e per noi. Le Sue preghiere e le preghiere della Chiesa ci sostengono e ci danno un coraggio rinnovato per servire Nostro Signore in questa terra.

    Solamente ad alcuni metri di qui, Nostro Signore Gesù Cristo è nato; il Verbo di Dio s’è reso visibile. Dio ha visitato il suo popolo per essere l’Emmanuele, per “essere con noi”; ed egli continua a venire, per essere con noi tutti i giorni. In questa terra, il messaggio degli angeli di Dio è stato sentito dai più poveri e dai più piccoli: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace al suo popolo”. Tale è stato il messaggio celeste ricevuto dai nostri antenati, i pastori di Betlemme. Tale è il messaggio che continua ad essere proclamato tutti i giorni. Se tale è il messaggio della nostra terra e di Betlemme per il mondo, la nostra vocazione-missione in questa terra martirizzata è quella di glorificare Dio e di espandere la Sua pace sulla terra. Questo messaggio rappresenta un compito e una missione quotidiana. Esso si traduce nell’impegno della Chiesa a servire la pace e la riconciliazione, a sostenere i poveri, a fortificare i deboli, a comunicare la speranza a coloro che disperano. Per questa missione, noi abbiamo bisogno del Suo sostegno e delle Sue preghiere.

    Santissimo Padre, questa terra dove Gesù ha scelto di vivere per salvare il mondo, ha bisogno di pace, di giustizia e di riconciliazione. Le nostre ferite hanno bisogno di essere guarite, i prigionieri d’essere rilasciati, i nostri cuori d’essere purificati dall’odio, e il nostro popolo di vivere in pace e in sicurezza. Il nostro popolo soffre e continua a soffrire l’ingiustizia, la guerra (la guerra di Gaza è ancora una ferita aperta per centinaia di migliaia di persone), l’occupazione e la mancanza di speranza in un avvenire migliore. Quando noi abbiamo accolto il Suo predecessore, il papa Giovanni Paolo II, noi avevamo la speranza di pervenire alla pace, ma questa pace non è mai venuta. Molti hanno allora abbandonato ogni speranza e hanno lasciato la Terra Santa per andare in cerca di un avvenire migliore in altri paesi. Ecco perché il numero dei Palestinesi, soprattutto cristiani, è diminuito e continua a diminuire. Finché noi non troveremo la pace e la tranquillità, ho paura che questo continui. Finché l’instabilità politica perdura, finché si estende il muro che separa Betlemme da Gerusalemme e dal resto del mondo, noi non potremo trovare la pace per la nostra terra.

    Santissimo Padre, i cittadini di Betlemme e dei Territori palestinesi sono venuti ad accoglierLa e a pregare con Lei: cattolici e cristiani di tutte le Chiese, mussulmani e rappresentanti dell’Autorità palestinese, noi siamo venuti tutti per rinnovare il nostro impegno a favore di una pace giusta, una pace che dia a ciascun individuo e ad ogni popolo di vivere degnamente in questa terra; una pace che permetta ai genitori di non avere paura per i loro figli e la loro sicurezza; una pace che dia ai giovani di condurre una vita normale e di costruire il loro avvenire; una pace che permetta a questa Terra Santa di adempiere la sua vocazione: glorificare Dio e vivere in pace.

    Noi siamo coscienti della vocazione di questa terra di essere aperta a tutti i credenti, a lodare Dio, a essere una terra di armonia e di coesistenza pacifica, una terra dove tutti i credenti in uno stesso Dio possono sperimentare che essi “sono nati qui” (Sm 87). Nessuno può pretendere di possedere questa terra al posto degli altri ed escludendo gli altri. Dio stesso ha scelto questa terra, e vuole che tutti i suoi figli vi vivano insieme.

    Santissimo Padre, noi siamo venuti qui per pregare con Lei e per ascoltarLa. Noi tutti vediamo in Lei un messaggero di pace, un capo spirituale che difende i poveri e gli oppressi, un padre e un fratello che porta un messaggio d’amore e di solidarietà.

    Per finire, noi vogliamo ridirLe il nostro impegno a vivere e ad espandere la Buona Novella di Gesù Cristo: alla Sua presenza, la Chiesa cattolica rinnova la sua fede in Nostro Signore Gesù Cristo, il suo amore per Dio e per il prossimo, e la sua speranza nei disegni misericordiosi di Dio per noi tutti.

    Che Dio e il nostro Salvatore siano con Lei, che La sostengano e La guidino nella Sua missione e nella Sua opera costante in favore della pace e della riconciliazione.





    Benedetto XVI cammina su un filo religioso
    Cercando di portare avanti il suo messaggio nonostante le critiche
    di padre Thomas D. Williams, LC



    GERUSALEMME, mercoledì, 13 maggio 2009 (ZENIT.org).- Questa mattina ci siamo svegliati a Gerusalemme con i titoli dei giornali che sottolineavano la presunta inadeguatezza del rimorso di Papa Benedetto XVI nella sua visita al Memoriale dell'Olocausto Yad Vashem questo lunedì e nel suo incontro con sei sopravvissuti all'Olocausto. Le critiche avevano più a che vedere con le omissioni – ciò che i critici pensavano avrebbe dovuto essere detto – che con ciò che il Papa ha effettivamente fatto e detto.

    Nonostante il suo ricordo esplicito della Shoah nel primo discorso pronunciato in Israele e la sua inequivocabile condanna dell'antisemitismo (“Ogni sforzo deve essere fatto per combattere l'antisemitismo dovunque si trovi”), molti commentatori hanno affermato che non è stato abbastanza. Alcuni hanno detto che le parole “nazista” e “assassinio” non erano comparse nel suo discorso allo Yad Vashem, altri hanno dichiarato che il Papa avrebbe dovuto scusarsi per la presunta complicità cattolica nell'Olocausto. Altri ancora hanno criticato il Pontefice per essere stato arruolato nell'esercito tedesco (anche se poi ha disertato) e per aver mostrato una scarsa emozione nel suo discorso allo Yad Vashem.

    Di fronte a questa ondata di critiche si sa a malapena da dove iniziare (ho solo grattato la superficie). Sembra che alcuni degli ascoltatori del Santo Padre non sarebbero mai stati soddisfatti per ciò che poteva dire o fare, a meno che non fosse caduto in ginocchio pregando la terra di inghiottirlo nella vergogna più totale. In cambio di quello che mi è sembrato un approccio sincero e umile di pace e riconciliazione, il Santo Padre è stato rimproverato come se fosse personalmente responsabile della sofferenza ebraica nel mondo.

    Ho cercato invano di spiegare a molti israeliani che il Papa non è un uomo che esprime apertamente le sue emozioni, per cui qualunque dimostrazione di angoscia che si aspettavano da lui non corrisponderebbe alla sua natura. Li ho invitati a guardare maggiormente alla decisione personale del Pontefice di affrontare la questione in un modo così franco e di visitare il Memoriale dell'Olocausto come momento forte del suo primo giorno in Israele (il che non gli era stato certo richiesto), come dimostrazione della sua profonda vicinanza. Purtroppo queste argomentazioni non sono servite.

    Nel frattempo, dall'altro estremo, le reazioni sono altrettanto appassionate. Questa mattina ho ricevuto una forte e-mail di un cristiano di Gaza che mi aveva visto al telegiornale e ha obiettato nei confronti dell'attenzione quasi esclusiva data agli ebrei nei resoconti di questa visita. Il suo lungo messaggio, intitolato “E noi?”, elencava una serie di lamentele contro il trattamento dei palestinesi da parte dello Stato di Israele. “Forse lei ha dimenticato”, ha scritto, “che Israele è stato costruito sul sangue e sulle case di migliaia di palestinesi cattolici e cristiani”. “Forse ha dimenticato che Israele sta costruendo un muro di apartheid, in qualche modo peggiore del muro di Berlino e di quello sudafricano”, ha aggiunto.

    Per un momento mi sono sentito in piccola parte partecipe di ciò che il Santo Padre deve sperimentare mentre cerca di navigare per le secche estremamente difficili del teso sentimento religioso che permea questa regione. Come un uomo che cammina su un filo spirituale, basta che si pieghi leggermente a sinistra o a destra e viene immediatamente etichettato come insensibile o malvagio. Ancora peggio, anche quando cerca di raggiungere il perfetto equilibrio non è mai sufficiente. Sembra che molti osservatori non si interessino minimamente delle reali intenzioni del Papa per questo pellegrinaggio o del contenuto positivo del suo messaggio, e passano tutte le sue parole e le sue azioni al microscopio alla ricerca di qualcosa in cui trovare un errore.

    Malgrado tutto questo, il Papa sembra notevolmente sicuro di sé e sereno, segno della profondità delle sue convinzioni spirituali e della sua grande fiducia che la grazia di Dio porti abbondanti frutti da questa visita. Le sue giornate sono letteralmente piene di attività, a volte una ogni ora, e nonostante questo ha un costante buonumore.

    Un uomo che almeno in apparenza è sembrato più in sintonia con Papa Benedetto è stato il Presidente di Israele, Shimon Peres. In un importante passaggio del suo discorso di benvenuto al Santo Padre, è sembrato che abbia captato meglio di chiunque altro l'importanza della sua visita apostolica. “I leader spirituali possono spianare la strada ai leader politici”, ha detto. “Possono liberare i campi minati che ostacolano la via per la pace. I leader spirituali dovrebbero ridurre l'animosità, così che i leader politici non ricorrano a mezzi distruttivi”. A quanti hanno criticato il viaggio papale definendolo inefficace, le parole di Peres sono sembrate incisive e lungimiranti. “Non abbiamo bisogno di più veicoli blindati”, ha aggiunto Peres, “ma di una leadership spirituale ispirata”. E' ciò che Benedetto XVI sta rappresentando in questa terra martoriata.

    Da un punto di vista più “leggero”, mi sono piaciute le mie frequenti corse in ascensore a Gerusalemme per via di una piccola placca ironica che vi ho trovato. Gli ascensori in Israele sono perlopiù costruiti da una compagnia che si chiama Schindler. E visto che qui viene usato l'inglese britannico, chi viaggia in ascensore viene portato su e giù dagli “Schindler Lifts”.

    ----------

    *Padre Thomas D. Williams, Legionario di Cristo, è un teologo statunitense che vive a Roma. Attualmente sta seguedo per la CBS News la storica visita di Benedetto XVI in Terra Santa. Per l'occasione ha deciso di scivere una cronaca del viaggio anche per ZENIT.

    [Traduzione dall'inglese di Roberta Sciamplicotti]






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    00 13/05/2009 18:28
    Saluto di Benedetto XVI nel visitare il "Caritas Baby Hospital"


    BETLEMME, mercoledì, 13 maggio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito le parole di saluto che il Papa ha pronunciato questo mercoledì durante la visita al "Caritas Baby Hospital", un ospedale pediatrico fondato nel 1978 e sostenuto dall’Associazione svizzera "Kinderhilfe Bethlehem".

    * * *

    Cari Amici,

    vi saluto affettuosamente nel nome di nostro Signore Gesù Cristo, "che è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio ed intercede per noi" (cfr Rm 8,34). Possa la vostra fede nella sua Risurrezione e nella sua promessa di nuova vita mediante il Battesimo riempire i vostri cuori di gioia in questo tempo pasquale!

    Sono grato per il caloroso benvenuto rivoltomi a vostro nome da Padre Michael Scheiger, Presidente dell'Associazione di Kinderhilfe, da Mr. Ernesto Langensand, il quale sta completando il suo periodo di Amministratore Capo della Caritas Baby Hospital, e da Madre Erika Nobs, Superiora di questa locale comunità delle Suore Elisabettine Francescane di Padova. Saluto anche cordialmente l’Arcivescovo Robert Zollisch ed il Vescovo Kurt Koch, che rappresentano rispettivamente le Conferenze Episcopali tedesca e svizzera, che hanno fatto avanzare la missione del Caritas Baby Hospital mediante la loro generosa assistenza finanziaria.

    Dio mi ha benedetto con questa opportunità di esprimere agli amministratori, medici, infermiere e personale del Caritas Baby Hospital il mio apprezzamento per l’inestimabile servizio che hanno offerto - e continuano ad offrire - ai bambini della regione di Betlemme e di tutta la Palestina da più di cinquant’anni. Padre Ernst Schnydrig fondò questa struttura nella convinzione che i bambini innocenti meritano un posto sicuro da tutto ciò che può far loro del male in tempi e luoghi di conflitto. Grazie alla dedizione del Children’s Relief Bethlehem, questa istituzione è rimasta un'oasi quieta per i più vulnerabili, e ha brillato come un faro di speranza circa la possibilità che l’amore ha di prevalere sull’odio e la pace sulla violenza.

    Ai giovani pazienti ed ai membri delle loro famiglie che traggono beneficio dalla vostra assistenza, desidero semplicemente dire: "Il Papa è con voi"! Oggi egli è con voi in persona, ma ogni giorno egli accompagna spiritualmente ciascuno di voi nei suoi pensieri e nelle sue preghiere, chiedendo all'Onnipotente di vegliare su di voi con la sua premurosa attenzione.

    Padre Schnydrig descrisse questo luogo come "uno dei più piccoli ponti costruiti per la pace". Ora, essendo cresciuto da quattordici brande ad ottanta letti, e curandosi delle necessità di migliaia di bambini ogni anno, questo non è più un ponte piccolo! Esso accoglie insieme persone di origini, lingue e religioni diverse, nel nome del Regno di Dio, il Regno della Pace (cfr Rm 14,17). Di cuore vi incoraggio a perseverare nella vostra missione di manifestare amore per tutti gli ammalati, i poveri e i deboli.

    In questa Festa di Nostra Signora di Fatima, gradirei concludere invocando l'intercessione di Maria mentre imparto la Benedizione Apostolica ai bambini e a tutti voi. Preghiamo:

    Maria, Salute degli Infermi, Rifugio dei Peccatori, Madre del Redentore: noi ci uniamo alle molte generazioni che ti hanno chiamata "Benedetta". Ascolta i tuoi figli mentre invochiamo il tuo nome. Tu hai promesso ai tre bambini di Fatima: "Alla fine, il mio Cuore Immacolato trionferà". Che così avvenga! Che l’amore trionfi sull’odio, la solidarietà sulla divisione e la pace su ogni forma di violenza! Possa l’amore che hai portato a tuo Figlio insegnarci ad amare Dio con tutto il nostro cuore, con tutte le forze e con tutta l’anima. Che l’Onnipotente ci mostri la sua misericordia, ci fortifichi con il suo potere, e ci ricolmi di ogni bene (cfr Lc 1,46-56). Noi chiediamo al tuo Figlio Gesù di benedire questi bambini e tutti i bambini che soffrono in tutto il mondo. Possano ricevere la salute del corpo, la forza della mente e la pace dell’anima. Ma soprattutto, che sappiano che sono amati con un amore che non conosce confini né limiti: l'amore di Cristo che supera ogni comprensione (cfr Ef 3,19). Amen.

    [© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]




    Discorso del Papa in un campo profughi nei Territori Palestinesi


    BETLEMME, mercoledì, 13 maggio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI nel visitare l’"Aida Refugee Camp" di Betlemme, uno dei campi profughi nei Territori Palestinesi, dove convivono musulmani e cristiani.

    * * *

    Signor Presidente,

    Cari Amici,

    la mia visita al Campo Profughi di Aida questo pomeriggio mi offre la gradita opportunità di esprimere la mia solidarietà a tutti i Palestinesi senza casa, che bramano di poter tornare ai luoghi natii, o di vivere permanentemente in una patria propria. Grazie, Signor Presidente, per il suo cortese saluto. E grazie anche a Lei, Signora Abu Zayd, e agli altri speaker. A tutti gli ufficiali della United Nations Relief and Works Agency (Agenzia per il soccorso e il sostegno delle Nazioni Unite), che si prendono cura dei profughi, manifesto l’apprezzamento che provano innumerevoli uomini e donne di tutto il mondo per l’opera fatta qui ed in altri campi nella regione.

    Estendo un saluto particolare ai bambini e agli insegnanti della scuola. Attraverso il vostro impegno nell’educazione esprimete speranza nel futuro. A tutti i giovani qui presenti dico: rinnovate i vostri sforzi per prepararvi al tempo in cui sarete responsabili degli affari del popolo Palestinese negli anni a venire. I genitori hanno qui un ruolo molto importante. A tutte le famiglie presenti in questo campo dico: non mancate di sostenere i vostri figli nei loro studi e nel coltivare i loro doni, così che non vi sia scarsità di personale ben formato per occupare nel futuro posizioni di responsabilità nella comunità Palestinese. So che molte vostre famiglie sono divise – a causa di imprigionamento di membri della famiglia o di restrizioni alla libertà di movimento – e che molti tra voi hanno sperimentato perdite nel corso delle ostilità. Il mio cuore si unisce a quello di coloro che, per tale ragione, soffrono. Siate certi che tutti i profughi Palestinesi nel mondo, specie quelli che hanno perso casa e persone care durante il recente conflitto di Gaza, sono costantemente ricordati nelle mie preghiere.

    Desidero dare atto del buon lavoro svolto da molte agenzie della Chiesa nel prendersi cura dei profughi qui e in altre parti dei Territori Palestinesi. La Missione Pontificia per la Palestina, fondata circa sessant’anni orsono per coordinare l’assistenza umanitaria cattolica ai rifugiati, continua la propria opera molto necessaria fianco a fianco di altre simili organizzazioni. In questo campo la presenza delle Suore Missionarie Francescane del Cuore Immacolato di Maria richiama alla mente la figura carismatica di san Francesco, grande apostolo di pace e di riconciliazione. A questo proposito, voglio esprimere il mio particolare apprezzamento per l’enorme contributo dato dai diversi membri della Famiglia francescana nel prendersi cura della gente di queste terre, facendo di se stessi "strumenti di pace", secondo la nota espressione attribuita al Santo di Assisi.

    Strumenti di pace. Quanto le persone di questo campo, di questi Territori e dell’intera regione anelano alla pace! In questi giorni tale desiderio assume una particolare intensità mentre ricordate gli eventi del maggio del 1948 e gli anni di un conflitto tuttora irrisolto, che seguirono a quegli eventi. Voi ora vivete in condizioni precarie e difficili, con limitate opportunità di occupazione. È comprensibile che vi sentiate spesso frustrati. Le vostre legittime aspirazioni ad una patria permanente, ad uno Stato Palestinese indipendente, restano incompiute. E voi, al contrario, vi sentite intrappolati, come molti in questa regione e nel mondo, in una spirale di violenza, di attacchi e contrattacchi, di vendette e di distruzioni continue. Tutto il mondo desidera fortemente che sia spezzata questa spirale, anela a che la pace metta fine alle perenni ostilità. Incombente su di noi, mentre siamo qui riuniti questo pomeriggio, è la dura consapevolezza del punto morto a cui sembrano essere giunti i contatti tra Israeliani e Palestinesi – il muro.

    In un mondo in cui le frontiere vengono sempre più aperte – al commercio, ai viaggi, alla mobilità della gente, agli scambi culturali – è tragico vedere che vengono tuttora eretti dei muri. Quanto aspiriamo a vedere i frutti del ben più difficile compito di edificare la pace! Quanto ardentemente preghiamo perché finiscano le ostilità che hanno causato l’erezione di questo muro!

    Da entrambe le parti del muro è necessario grande coraggio per superare la paura e la sfiducia, se si vuole contrastare il bisogno di vendetta per perdite o ferimenti. Occorre magnanimità per ricercare la riconciliazione dopo anni di scontri armati. E tuttavia la storia ci insegna che la pace viene soltanto quando le parti in conflitto sono disposte ad andare oltre le recriminazioni e a lavorare insieme a fini comuni, prendendo sul serio gli interessi e le preoccupazioni degli altri e cercando decisamente di costruire un’atmosfera di fiducia. Deve esserci una determinazione ad intraprendere iniziative forti e creative per la riconciliazione: se ciascuno insiste su concessioni preliminari da parte dell’altro, il risultato sarà soltanto lo stallo delle trattative.

    L’aiuto umanitario, come quello che viene offerto in questo campo, ha un ruolo essenziale da svolgere, ma la soluzione a lungo termine ad un conflitto come questo non può essere che politica. Nessuno s’attende che i popoli Palestinese e Israeliano vi arrivino da soli. È vitale il sostegno della comunità internazionale. Rinnovo perciò il mio appello a tutte le parti coinvolte perché esercitino la propria influenza in favore di una soluzione giusta e duratura, nel rispetto delle legittime esigenze di tutte le parti e riconoscendo il loro diritto di vivere in pace e con dignità, secondo il diritto internazionale. Allo stesso tempo, tuttavia, gli sforzi diplomatici potranno avere successo soltanto se gli stessi Palestinesi e Israeliani saranno disposti a rompere con il ciclo delle aggressioni. Mi vengono alla mente le splendide parole attribuite a san Francesco: "Dove c’è odio, che io porti amore; dove c’è l’offesa il perdono… dove c’è tenebra, luce, dove c’è tristezza, gioia".

    A ciascuno di voi rinnovo l’invito ad un profondo impegno nel coltivare la pace e la non violenza, seguendo l’esempio di san Francesco e di altri grandi costruttori di pace. La pace deve aver inizio nel proprio ambiente, nella propria famiglia, nel proprio cuore. Continuo a pregare perché tutte le parti in conflitto in questa terra abbiano il coraggio e l’immaginazione di perseguire l’esigente ma indispensabile via della riconciliazione. Possa la pace fiorire ancora una volta in queste terre! Dio benedica il suo popolo con la pace!

    [© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]





    Commovente incontro con i piccoli malati del Caritas Baby Hospital


    Il Papa nel pomeriggio si è recato al Caritas Baby Hospital di Betlemme: un ospedale pediatrico fondato nel 1978 e sostenuto dai vescovi svizzeri e tedeschi. Assicura circa 30 mila prestazioni ambulatoriali e 4 mila degenze all’anno anche grazie all’impegno delle Suore Francescane Elisabettiane di Padova. L’incontro con i piccoli dell’ospedale è stato toccante. Era presente anche il presidente Abbas. Il Papa ha visitato i piccoli malati e si è soffermato con un bambino nato prematuro, di due chili e mezzo di nome Elias. Dopo il discorso ha regalato all'ospedale un respiratore per bambini prematuri. Benedetto XVI ha parlato di questa struttura come di “un'oasi quieta per i più vulnerabili” che “ha brillato come un faro di speranza circa la possibilità che l’amore ha di prevalere sull’odio e la pace sulla violenza”. Ai giovani pazienti ha detto: "Il Papa è con voi!”.





    Il Papa al Campo profughi di Aida: tragica la costruzione del muro. Per la pace occorre andare oltre le recriminazioni e rompere il ciclo delle violenze


    Esprimo “la mia solidarietà a tutti i Palestinesi senza casa, che bramano di poter tornare ai luoghi natii, o di vivere permanentemente in una patria propria”. Con queste parole il Papa ha salutato i profughi del Campo di Aida dove vivono circa 7 mila persone. Secondo l’Onu i profughi palestinesi sono circa 4 milioni e 600 mila. Nei territori palestinesi gli sfollati sono un milione e 300 mila. L’incontro si è svolto proprio a ridosso del muro di separazione eretto da Israele. Nel Campo - Benedetto XVI ha incontrato - come è stato a Gerusalemme per la famiglia del soldato Shalit prigioniero di Hamas - due bambine, una cristiana e l’altra musulmana, figlie di genitori detenuti in Israele. Il Pontefice ha sottolineato la sua solidarietà per la sofferenza della popolazione palestinese. “È comprensibile – ha detto - che vi sentiate spesso frustrati. Le vostre legittime aspirazioni ad una patria permanente, ad uno Stato Palestinese indipendente, restano incompiute. E voi, al contrario, vi sentite intrappolati, come molti in questa regione e nel mondo, in una spirale di violenza, di attacchi e contrattacchi, di vendette e di distruzioni continue”. Ha quindi rilevato “dura consapevolezza del punto morto a cui sembrano essere giunti i contatti tra Israeliani e Palestinesi – il muro. In un mondo in cui le frontiere vengono sempre più aperte – al commercio, ai viaggi, alla mobilità della gente, agli scambi culturali – è tragico vedere che vengono tuttora eretti dei muri. Quanto aspiriamo a vedere i frutti del ben più difficile compito di edificare la pace! Quanto ardentemente preghiamo perché finiscano le ostilità che hanno causato l’erezione di questo muro!”. Quindi ha aggiunto: “Da entrambe le parti del muro è necessario grande coraggio per superare la paura e la sfiducia, se si vuole contrastare il bisogno di vendetta per perdite o ferimenti. Occorre magnanimità per ricercare la riconciliazione dopo anni di scontri armati. E tuttavia la storia ci insegna che la pace viene soltanto quando le parti in conflitto sono disposte ad andare oltre le recriminazioni e a lavorare insieme a fini comuni, prendendo sul serio gli interessi e le preoccupazioni degli altri e cercando decisamente di costruire un’atmosfera di fiducia. Deve esserci una determinazione ad intraprendere iniziative forti e creative per la riconciliazione: se ciascuno insiste su concessioni preliminari da parte dell’altro, il risultato sarà soltanto lo stallo delle trattative”. Ha ribadito la necessità di un intervento della comunità internazionale perché “nessuno s’attende che i popoli Palestinese e Israeliano” arrivino da soli ad una soluzione del conflitto.





    Vivere in un campo profughi


    Della situazione del Campo profughi di Aida ci parla padre William Shomali rettore del seminario di Beit Jala, al microfono di Roberto Piermarini:
    R. – Il Campo profughi di Aida è uno dei tre campi che si trovano a Betlemme; era un terreno che apparteneva alla popolazione cristiana di Beit Jala. Hanno costruito prima di tutto qualche tenda, all’inizio, nel ’48; dopo hanno costruito delle case che adesso sono come tutte le altre case di Betlemme, quelle più povere, con strade malmesse: le fognature sono spesso inesistenti. La popolazione non arriva a più di sei, sette mila persone, per la maggior parte musulmana eccetto qualche famiglia cristiana che aveva dei terreni là e vi ha costruito.
    D. – Come vivono queste poche famiglie cristiane all’interno di questo campo profughi, a maggioranza musulmana?
    R. – Dipende. C’è qualcuno che vive meglio: non sono mendicanti, direi che sono persone normali.
    D. – Sono in armonia con la comunità musulmana?
    R. – Direi di sì perché ogni volta che noi cristiani siamo minoritari, non c’è problema. Il problema arriva quando siamo maggioritari, come a Betlemme o in altre città dove il numero è consistente: ma quando siamo un due per cento, non siamo oggetto di minaccia per nessuno.
    D. – Quali problematiche ci sono all’interno di questo campo di Aida?
    R. – Questa gente vuol ritornare alla sua casa di origine: hanno lasciato la propria terra, la casa, i familiari. Ogni anno la situazione diventa più difficile perché i primi profughi, quelli del ’48, sono quasi tutti morti. Ci sono i figli, ma dopo tre generazioni, la possibilità di ritornare, diventa meno probabile. Dunque, una certa disperazione di ritornare, esiste, sapendo che gli israeliani non vogliono il ritorno dei profughi. Hanno messo questa condizione per qualsiasi soluzione al problema. Forse permetteranno il ritorno dei profughi all’interno dei Territori palestinesi, ma mai all’interno di Israele. (Montaggio a cura di Maria Brigini)






    Il Caritas Baby Hospital


    Dell'opera del Caritas Baby Hospital di Betlemme ci suor Erika Nobs, superiora di questa locale comunità delle Suore Elisabettine Francescane di Padova. L'intervista è di Roberto Piermarini:
    R. – Assistiamo i bambini palestinesi che vengono da Betlemme e dalla circoscrizione di Hebron, dalla parte sud del West Bank.
    D. – Quindi, sono tutti bambini musulmani, la maggior parte?
    R. – La maggior parte sono bambini musulmani, la stragrande maggioranza: il 90 per cento e anche più.
    D. – Che rapporto avete con le famiglie musulmane che portano a voi questi bambini?
    R. – Di solito un buon rapporto: loro sono contenti e grati per il servizio che diamo. Siamo l’unico ospedale ed hanno veramente bisogno di noi. Ed anche per questo sono grati.
    D. – Cosa curate in particolare?
    R. – Curiamo tutte le malattie interne e anche tante malattie genetiche, malattie metaboliche, malattie del cuore, dovute al matrimonio tra consanguinei.
    D. – Quali sono le difficoltà maggiori che incontrate nel vostro lavoro, nell’ospedale?
    R. – Le difficoltà sono quelle del trasferimento a Gerusalemme, quando un bambino ha bisogno di un intervento chirurgico. E’ una grande difficoltà, perché senza permessi non possono partire. Si devono, poi, coordinare le ambulanze. Una nostra ambulanza deve andare al check-point e dall’altra parte deve venire l’ambulanza da Israele, e questo crea difficoltà, perché i bambini a volte sono molto ammalati, ma devono, in ogni caso, cambiare l’ambulanza.
    D. – I bambini che voi accogliete nel vostro ospedale, la maggior parte non pagano, non hanno la possibilità di pagare. Ma come va avanti l’ospedale economicamente, avete dei donatori?
    R. – Noi abbiamo tanti donatori e siamo grati a tutti gli amici che ci aiutano a portare avanti l’opera: amici dall’Italia, amici dalla Germania, dalla Svizzera, dall’Europa e anche altrove. Possiamo veramente fare una buona opera.
    D. – Suor Erika, perché questa visita del Papa al Caritas Baby Hospital? Come vede lei questa visita?
    R. – Devo dire che siamo tanto contenti di questa visita, di questa sorpresa che ci fa il Santo Padre. Ma io penso che oltre a visitare i luoghi santi, cioè il luogo dove Gesù è nato, lui voglia vedere anche i bambini Gesù viventi, che abbiamo nel nostro ospedale. (Montaggio a cura di Maria Brigini)



    [Radio Vaticana]
    [Modificato da +PetaloNero+ 13/05/2009 18:29]

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    00 14/05/2009 01:52
    Discorso di congedo di Benedetto XVI dai Territori Palestinesi

    BETLEMME, mercoledì, 13 maggio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì sera da Benedetto XVI nel cortile del Palazzo Presidenziale di Betlemme, dove ha avuto luogo la cerimonia di congedo dai Territori Palestinesi.

    * * *

    Signor Presidente,

    Cari Amici,

    vi ringrazio per la grande gentilezza che mi avete dimostrato in questo giorno che ho trascorso in vostra compagnia, qui nei Territori Palestinesi. Sono grato al Presidente, il Sig. Mahmoud Abbas, per la sua ospitalità e le sue gentili parole. E’ stata una profonda emozione per me ascoltare anche le testimonianze dei residenti che ci hanno parlato delle condizioni di vita qui nella Zona Ovest ed in Gaza. Assicuro tutti voi che vi porto nel mio cuore e bramo di vedere pace e riconciliazione in queste terre tormentate.

    E’ stato davvero uno dei giorni più memorabili, fin da quando sono arrivato a Betlemme questa mattina, ed ho avuto la gioia di celebrare la Messa con una grande moltitudine di fedeli nel luogo dove nacque Gesù Cristo, luce delle nazioni e speranza del mondo. Ho visto la cura prestata ai bambini di oggi nel Caritas Baby Hospital. Con angoscia, ho visto la situazione dei rifugiati che, come la Santa Famiglia, hanno dovuto abbandonare le loro case. Ed ho visto il muro che si introduce nei vostri territori, separando i vicini e dividendo le famiglie, circondare il vicino campo e nascondere molta parte di Betlemme.

    Anche se i muri possono essere facilmente costruiti, noi tutti sappiamo che non durano per sempre. Essi possono essere abbattuti. Innanzitutto però è necessario rimuovere i muri che noi costruiamo attorno ai nostri cuori, le barriere che innalziamo contro il nostro prossimo. Ecco perché, nelle mie conclusive parole, voglio fare un rinnovato appello all’apertura e alla generosità di spirito, perché sia posta fine all'intolleranza ed all’esclusione. Non importa quanto intrattabile e profondamente radicato possa apparire un conflitto, ci sono sempre dei motivi per sperare che esso possa essere risolto, che gli sforzi pazienti e perseveranti di quelli che operano per la pace e la riconciliazione, alla fine portino frutto. Il mio vivo augurio per voi, popolo della Palestina, è che ciò accada presto, e che voi finalmente possiate godere la pace, la libertà e la stabilità che vi sono mancate per così tanto tempo.

    Vi assicuro che coglierò ogni opportunità per esortare coloro che sono coinvolti nei negoziati di pace a lavorare per una soluzione giusta che rispetti le legittime aspirazioni di entrambi, Israeliani e Palestinesi. Come importante passo in questa direzione, la Santa Sede desidera stabilire presto, in accordo con l'Autorità Palestinese, la Commissione Bilaterale di Lavoro Permanente che è stata delineata nell'Accordo di base, firmato in Vaticano il 15 febbraio 2000 (cfr Accordo di base tra la Santa Sede e l’Organizzazione di Liberazione della Palestina, art. 9). Signor Presidente, cari Amici, ancora una volta vi ringrazio e affido tutti voi alla protezione dell'Onnipotente. Che Dio rivolga il suo sguardo d’amore su ognuno di voi, sulle vostre famiglie e su tutti coloro che vi sono cari. Che egli benedica il popolo Palestinese con la pace.

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    Il Papa incoraggia gli sforzi del “Caritas Baby Hospital” di Betlemme


    ROMA, mercoledì, 13 maggio 2009 (ZENIT.org).- Questo mercoledì Benedetto XVI ha visitato il “Caritas Baby Hospital” di Betlemme, che da più di cinquant’anni si prende cura dei bambini della regione di Betlemme e di tutta la Palestina.

    Il “Caritas Baby Hospital”, nato originariamente da due semplici stanze grazie all'impegno infaticabile di padre Ernst Schnydrig, crebbe molto nel tempo fino a quando nel 1978 venne inaugurato come ospedale vero proprio.

    Con ottanta letti assicura oggi circa 30 mila prestazioni ambulatoriali e 4 mila degenze all’anno anche grazie al sostegno indispensabile delle sei religiose dell’Istituto “Suore Terziarie Francescane elisabettine” di Padova.

    Il “Caritas Baby Hospital”, attualmente l’unico ospedale pediatrico esistente in Cisgiordania, non gode di nessuna sovvenzione né da parte del governo palestinese e neppure da quello israeliano, né riceve aiuti da nessun ente pubblico o umanitario internazionale.

    Il suo fondatore ha dato vita infatti a una associazione che si chiama “Kinderhilfe Bethlehem” (“Aiuto Bambini Betlemme”), con sede a Lucerna, che gestisce economicamente l’ospedale, attraverso gli aiuti che riceve dalla gente e grazie al sostegno dei Vescovi svizzeri e tedeschi.

    “Padre Ernst Schnydrig – ha detto il Papa nel suo saluto – fondò questa struttura nella convinzione che i bambini innocenti meritano un posto sicuro da tutto ciò che può far loro del male in tempi e luoghi di conflitto”.

    “Grazie alla dedizione del Children’s Relief Bethlehem – ha aggiunto –, questa istituzione è rimasta un'oasi quieta per i più vulnerabili, e ha brillato come un faro di speranza circa la possibilità che l’amore ha di prevalere sull’odio e la pace sulla violenza”.

    “Ai giovani pazienti ed ai membri delle loro famiglie che traggono beneficio dalla vostra assistenza – ha poi continuato –, desidero semplicemente dire: 'Il Papa è con voi'!”.

    “Oggi egli è con voi in persona – ha sottolineato –, ma ogni giorno egli accompagna spiritualmente ciascuno di voi nei suoi pensieri e nelle sue preghiere, chiedendo all'Onnipotente di vegliare su di voi con la sua premurosa attenzione”.

    Dopo il suo discorso, il Papa ha quindi regalato all’ospedale un respiratore per bambini prematuri, per poi visitare i piccoli malati, soffermandosi in particolare davanti a un bambino nato prematuro, di due chili e mezzo, di nome Elias.

    Presente all'incontro anche il Presidente palestinese Mahmoud Abbas.

    Burkhard Redeski del “Kinderhilfe Bethlehem”ha detto a ZENIT che “Papa Benedetto ha fatto sì che i riflettori venissero puntati sui bambini e sulle mamme. Ha visitato coloro che sono nell'ombra, che si sentono dimenticati e non si lamentano” e ci ricorda che “mai più, in un luogo così simbolico per noi cristiani come Betlemme, dovrà essere negata l'assistenza medica a un bambino”.

    “Prestiamo il nostro aiuto per le tipiche malattie infantili, perché molte famiglie non possono più permettersi un pediatra”, ha detto perché infatti “le malattie della povertà stanno aumentando e i bambini malnutriti sono più soggetti alle infezioni”.

    Nella regione di Betlemme ed Hebron vivono oltre 100.000 bambini al di sotto dei quattro anni e per la stragrande maggioranza non esiste un'assistenza sanitaria garantita, mentre il tasso di natalità nella zona di Betlemme raggiunge il 3,1% e a Gaza addirittura il 3,7%.

    “In futuro – ha detto il membro di 'Kinderhilfe Bethlehem' –, grazie alla nostra clinica ambulante, che è ancora in fase di costruzione, vogliamo offrire delle maggiori specializzazioni. In modo che tutti i bambini a Betlemme possano avere accesso a una assistenza medica qualificata”.

    Al momento ospita 75 ricoverati, assistiti da 200 tra medici, infermieri e personale amministrativo.

    [Intervista raccolta da Dominik Hartig]




    Benedetto XVI abbraccia la martoriata terra di Gaza
    Nella sua visita di un giorno a Betlemme

    di Mirko Testa

    ROMA, mercoledì, 13 maggio 2009 (ZENIT.org).- Nella sua sola e unica tappa di dieci ore nei Territori palestinesi, Benedetto XVI ha rivolto questo mercoledì il suo pensiero alla terra di Gaza, segnata dalle rovine del recente conflitto conclusosi il 18 gennaio scorso con un bilancio di oltre 1300 morti.

    Proprio a Betlemme, in Cisgiordania, luogo di nascita di Gesù e capitale dell’omonimo Governatorato, il Papa ha affrontato sin dall'inizio i temi caldi legati alla Palestina occupata e il groviglio di contenziosi che oppongono il popolo palestinese a quello israeliano.

    Lo ha fatto, in particolare, durante la Messa celebrata a Betlemme nella “Piazza della Mangiatoia”, l’area antistante la Chiesa della Natività, ricoperta dal mare di colore, volti e bandiere delle circa 10 mila persone presenti, che hanno gremito anche le vie laterali.

    “Il mio cuore si volge in maniera speciale ai pellegrini provenienti dalla martoriata Gaza a motivo della guerra”, ha detto il Santo Padre allo sparuto gruppo di palestinesi cattolici giunti dalla striscia di territorio controllata dal 2007 dagli estremisti islamici di Hamas.

    Dei 93 cattolici di Gaza che avevano ricevuto dalle autorità israeliane il permesso di raggiungere Betlemme, solo in 48 dopo mesi di attesa, incertezze e proteste sono riusciti ad ottenere in extremis l'autorizzazione per raggiungere la Piazza della Mangiatoia. Gli altri sono stati invece fermati al valico di Eretz e rispediti indietro.

    “Vi chiedo di portare alle vostre famiglie e comunità il mio caloroso abbraccio, le mie condoglianze per le perdite, le avversità e le sofferenze che avete dovuto sopportare”, ha detto il Pontefice parlando al milione e mezzo di persone che vivono nella Striscia di Gaza, dove la comunità cattolica locale non conta più di 300 fedeli.

    “Siate sicuri della mia solidarietà con voi nell’immensa opera di ricostruzione che ora vi sta davanti e delle mie preghiere che l’embargo sia presto tolto”, ha continuato il Santo Padre, riferendosi al blocco imposto a Gaza da Israele da quando Hamas ha preso il potere nella Striscia, eliminando gli oppositori di al-Fatah, legati al Presidente Mamoud Abbas.

    Prima durante la cerimonia di benvenuto nei Territori palestinesi, svoltasi nel piazzale antistante il Palazzo presidenziale di Betlemme, il Papa aveva detto di condividere il dolore di quanti hanno sofferto e continuano a soffrire “a causa delle agitazioni che hanno afflitto questa terra per decine di anni” e di tutte le “famiglie che sono rimaste senza casa”.


    Rivolgendosi poi al Presidente Mamoud Abbas aveva assicurato che “la Santa Sede appoggia il diritto del Suo popolo ad una sovrana patria Palestinese nella terra dei vostri antenati, sicura e in pace con i suoi vicini, entro confini internazionalmente riconosciuti”.

    Subito dopo ha denunciato i “gravi problemi riguardanti la sicurezza in Israele e nei Territori Palestinesi”, chiedendo che “vengano presto decisamente alleggeriti così da permettere una maggiore libertà di movimento, con speciale riguardo per i contatti tra familiari e per l’accesso ai luoghi santi”.

    Tutte problematiche che hanno aggravato la forte emigrazione dei cristiani della regione, che secondo le stime del governo palestinese, da 10 mila potrebbero dimezzarsi in sette anni.

    Inoltre, Benedetto XVI ha fatto appello alla Comunità internazionale affinché vangano avviati in tempi rapidi i lavori di ricostruzione.

    A questo proposito ha però anche invitato i cittadini palestinesi a lasciare da parte “qualsiasi rancore e contrasto” e a intraprendere un rinnovato cammino di riconciliazione con “spirito di cooperazione e mutuo rispetto”.

    Il Presidente palestinese, dal canto suo, aveva denunciato in maniera severa chi erige muri anziché gettare ponti e tenta di costringere musulmani e cristiani ad andarsene.

    “Questa è la terra dei muri che dividono le popolazioni”, aveva detto esprimendo poi propositi di dialogo: “Il popolo palestinese che vive affianco al popolo israeliano desidera vivere in pace nello Stato d'Israele così come premevano le Risoluzioni dell'ONU”.

    “E' arrivato il tempo della pace e della fine delle sofferenze”, aveva aggiunto infine.


    Una giovane speranza

    Durante la celebrazione eucaristica nella Pizza della Mangiatoia, alla presenza di quasi tutti gli Ordinari di Terra Santa, il Papa si è quindi rivolto direttamente ai giovani a coloro che costruiranno il futuro di questa regione: “non permettete che le perdite di vite e le distruzioni, delle quali siete stati testimoni suscitino amarezze o risentimento nei vostri cuori”.

    “Abbiate il coraggio di resistere ad ogni tentazione che possiate provare di ricorrere ad atti di violenza o di terrorismo – ha aggiunto – . Al contrario, fate in modo che quanto avete sperimentato rinnovi la vostra determinazione a costruire la pace”.

    Nella città di Betlemme, dove ancora oggi “le pietre continuano a gridare questa 'buona novella'”, questo “gioioso messaggio della rinascita, del rinnovamento, della luce e della libertà”, il Papa ha quindi riecheggiato le parole che hanno fatto un po' da filo rosso al pontificato di Giovanni Paolo II: "Non abbiate paura!".

    “Siate un ponte di dialogo e di collaborazione costruttiva nell’edificare una cultura di pace che superi l’attuale stallo della paura, dell’aggressione e della frustrazione”, li ha incoraggiati.

    “Edificate le vostre Chiese locali facendo di esse laboratori di dialogo, di tolleranza e di speranza, come pure di solidarietà e di carità pratica”, ha poi aggiunto.

    “La vostra terra – ha continuato il Santo Padre – non ha bisogno soltanto di nuove strutture economiche e politiche, ma in modo più importante – potremmo dire – di una nuova infrastruttura 'spirituale', capace di galvanizzare le energie di tutti gli uomini e donne di buona volontà nel servizio dell’educazione, dello sviluppo e della promozione del bene comune”.

    “Avete le risorse umane per edificare la cultura della pace e del rispetto reciproco che potranno garantire un futuro migliore per i vostri figli. Questa nobile impresa vi attende. Non abbiate paura!”, ha poi concluso.




    La Santa Sede istituirà una Commissione Bilaterale con i palestinesi
    Afferma Benedetto XVI congedandosi da Mahmoud Abbas



    BETLEMME, mercoledì, 13 maggio 2009 (ZENIT.org).- “La Santa Sede desidera stabilire presto, in accordo con l'Autorità Palestinese, la Commissione Bilaterale di Lavoro Permanente che è stata delineata nell'Accordo di base, firmato in Vaticano il 15 febbraio 2000”.

    Lo ha affermato Benedetto XVI questo mercoledì durante la cerimonia di congedo da Mahmoud Abbas, presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese, svoltasi nel pomeriggio nel Palazzo Presidenziale di Betlemme.

    La visita al Campo di Rifugiati Aida, poco a nord di Betlemme, che ospita 5.000 rifugiati palestinesi musulmani e cristiani ed è situato a ridosso del muro di separazione costruito dagli israeliani, ha reso Benedetto XVI ancor più consapevole della necessità di favorire una pace giusta e duratura in Terra Santa.

    “Vi assicuro che coglierò ogni opportunità per esortare coloro che sono coinvolti nei negoziati di pace a lavorare per una soluzione giusta che rispetti le legittime aspirazioni di entrambi, israeliani e palestinesi”, ha affermato.

    “Come importante passo in questa direzione”, il Papa ha annunciato l'intenzione della Santa Sede di stabilire la Commissione Bilaterale di Lavoro Permanente, riferendosi all'art. 9 dell'Accordo di base tra la Santa Sede e l’Organizzazione di Liberazione della Palestina del 2000.

    Il Pontefice ha confessato di aver provato “una profonda emozione” nel visitare i Territori palestinesi, ascoltando le testimonianze dei residenti che hanno parlato delle condizioni di vita nella West Bank e a Gaza.

    “Assicuro tutti voi che vi porto nel mio cuore e bramo di vedere pace e riconciliazione in queste terre tormentate”, ha affermato nel suo discorso di congedo dal Presidente.

    Questo mercoledì, ha ammesso Benedetto XVI, “è stato davvero uno dei giorni più memorabili, fin da quando sono arrivato a Betlemme questa mattina, ed ho avuto la gioia di celebrare la Messa con una grande moltitudine di fedeli nel luogo dove nacque Gesù Cristo, luce delle nazioni e speranza del mondo”.

    “Ho visto la cura prestata ai bambini di oggi nel Caritas Baby Hospital – ha aggiunto –. Con angoscia, ho visto la situazione dei rifugiati che, come la Santa Famiglia, hanno dovuto abbandonare le loro case. Ed ho visto il muro che si introduce nei vostri territori, separando i vicini e dividendo le famiglie, circondare il vicino campo e nascondere molta parte di Betlemme”.

    Il Papa ha sottolineato che “anche se i muri possono essere facilmente costruiti, noi tutti sappiamo che non durano per sempre. Essi possono essere abbattuti”.

    Perché ciò accada, tuttavia, “è necessario rimuovere i muri che noi costruiamo attorno ai nostri cuori, le barriere che innalziamo contro il nostro prossimo”.

    Per questo, ha lanciato “un rinnovato appello all’apertura e alla generosità di spirito, perché sia posta fine all'intolleranza ed all’esclusione”.

    “Non importa quanto intrattabile e profondamente radicato possa apparire un conflitto – ha continuato –, ci sono sempre dei motivi per sperare che esso possa essere risolto, che gli sforzi pazienti e perseveranti di quelli che operano per la pace e la riconciliazione, alla fine portino frutto”.

    Poco prima Benedetto XVI si era recato al Palazzo presidenziale per una visita di cortesia al Presidente Mahmoud Abbas, intrattenendosi con lui in colloquio privato.

    Quello di questo mercoledì è stato il terzo incontro tra il Papa e Mahmoud Abbas. I due precedenti risalgono al 3 dicembre 2005 e al 24 aprile 2007.




    Il Papa denuncia il “tragico” muro di separazione in Terra Santa
    Esorta israeliani e palestinesi a spezzare “il ciclo delle aggressioni”

    di Roberta Sciamplicotti


    BETLEMME, mercoledì, 13 maggio 2009 (ZENIT.org).- “In un mondo in cui le frontiere vengono sempre più aperte”, “è tragico vedere che vengono tuttora eretti dei muri”. E' quanto ha affermato Benedetto XVI questo mercoledì pomeriggio visitando l'Aida Refugee Camp, situato poco a nord di Betlemme, che ospita 5.000 rifugiati palestinesi, musulmani e cristiani.

    Anche se l'ambiente era assai diverso da quello degli incontri che ha avuto in questi giorni, visto che il Campo si trova a ridosso del muro di separazione eretto dagli israeliani, il Papa ha ricevuto come sempre una calorosa accoglienza. Sui muri spiccavano infatti scritte colorate in arabo e in inglese che davano il benvenuto al Pontefice, mentre da più parti sventolavano bandierine vaticane e palestinesi.

    L'incontro si è svolto nel campo di basket di una delle scuole dell'Aida Camp, nato nel 1948 e che ha visto un nuovo afflusso di rifugiati dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, passando da una tendopoli a una vera e propria cittadina, anche se mancano servizi basici come l'ospedale.

    In questa situazione drammatica, Benedetto XVI ha voluto compiere un gesto di solidarietà concreta donando ai rifugiati del Campo 50.000 euro, che verranno utilizzati per costruire tre nuove aule per la scuola maschile.

    Il Papa è stato accolto con uno spettacolo di una compagnia di danza e canto palestinese. Un gruppo di ragazze e ragazzi ha eseguito musiche e balli tradizionali, avvicinandosi poi per stringere la mano al Pontefice e alle autorità civili presenti accanto a lui sul palco

    Il Papa vicino ai profughi

    Nel suo discorso, pronunciato alla presenza di autorità civili, militari e religiose, il Papa ha voluto esprimere in primo luogo la propria “solidarietà a tutti i Palestinesi senza casa, che bramano di poter tornare ai luoghi natii, o di vivere permanentemente in una patria propria”.

    “Siate certi che tutti i profughi Palestinesi nel mondo, specie quelli che hanno perso casa e persone care durante il recente conflitto di Gaza, sono costantemente ricordati nelle mie preghiere”, ha dichiarato mentre soffiava una brezza leggera, rinfrancante dopo il forte caldo che ha caratterizzato gli incontri della mattinata.

    Nei giorni in cui si commemora il 61° anniversario della “nakba”, cioè la “tragedia” palestinese della privazione della propria terra, il Papa ha confessato di comprendere i sentimenti della popolazione.

    “Quanto le persone di questo campo, di questi Territori e dell’intera regione anelano alla pace!”, ha esclamato.

    “Voi ora vivete in condizioni precarie e difficili, con limitate opportunità di occupazione. È comprensibile che vi sentiate spesso frustrati. Le vostre legittime aspirazioni ad una patria permanente, ad uno Stato Palestinese indipendente, restano incompiute. E voi, al contrario, vi sentite intrappolati, come molti in questa regione e nel mondo, in una spirale di violenza, di attacchi e contrattacchi, di vendette e di distruzioni continue”.

    “Tutto il mondo desidera fortemente che sia spezzata questa spirale, anela a che la pace metta fine alle perenni ostilità”, ha affermato.

    La tragedia del muro di separazione

    Il Papa ha quindi ammesso “la dura consapevolezza del punto morto a cui sembrano essere giunti i contatti tra israeliani e palestinesi – il muro”.

    Da entrambe le parti, ha dichiarato, “è necessario grande coraggio per superare la paura e la sfiducia, se si vuole contrastare il bisogno di vendetta per perdite o ferimenti. Occorre magnanimità per ricercare la riconciliazione dopo anni di scontri armati”.

    “La soluzione a lungo termine ad un conflitto come questo non può essere che politica”, ha riconosciuto, sottolineando che “nessuno s’attende che i popoli palestinese e israeliano vi arrivino da soli”, per cui “è vitale il sostegno della comunità internazionale”.

    Gli sforzi diplomatici, ad ogni modo, “potranno avere successo soltanto se gli stessi palestinesi e israeliani saranno disposti a rompere con il ciclo delle aggressioni”.

    “Continuo a pregare perché tutte le parti in conflitto in questa terra abbiano il coraggio e l’immaginazione di perseguire l’esigente ma indispensabile via della riconciliazione”, ha concluso.

    La visita del Papa, fonte di speranza

    Nel suo saluto al Papa, il responsabile dell'Aida Camp ha ricordato come la Santa Sede abbia sempre sostenuto la causa palestinese, difendendo i diritti della sua popolazione, e ha auspicato che la visita di Benedetto XVI possa favorire una soluzione giusta e duratura al conflitto.

    La presenza del Pontefice, ha aggiunto, invita a “rafforzare lo spirito di resistenza” per chiedere la difesa dei propri diritti, di fronte a un muro che “blocca gli orizzonti”.

    Il Presidente dell'Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, ha ringraziato dal canto suo il Papa per il suo “gesto generoso” di visitare il Campo, denunciando lo “strangolamento” provocato dal muro di separazione e chiedendo che la Santa Sede si adoperi per favorire il rilancio dei negoziati per la pace, soprattutto l'applicazione della Road Map.

    Il Pontefice ha poi ricevuto due doni, frutto del lavoro degli artigiani locali: una scatola finemente intarsiata e contenente una stola con decori simbolici, come la stella a ricordare la stella di Betlemme, e una mappa dei Territori palestinesi.





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    Dice Weigel

    Pellegrino in terra impossibile

    “Ratzinger ha passato più di mezzo secolo a spiegare ai cristiani il debito verso il giudaismo”

    di Valentina Fizzotti

    Chi non capisce che “Joseph Ratzinger ha passato più di mezzo secolo a spiegare ai cristiani il debito nei confronti del giudaismo” non capisce né lui né il suo pontificato.
    Addirittura secondo George Weigel, teologo cattolico americano dell’Ethics and Public Policy Center e autore di best seller sugli ultimi due pontefici, sarebbe una vergogna se chiunque parlasse di Benedetto XVI, cattolici, ebrei o musulmani, “si basasse soltanto sulla caricatura fumettistica e non sul vero uomo”.
    Certo, dice Weigel, anche il Vaticano ha da lavorare sulla sua comunicazione, ma spesso e volentieri i fraintendimenti delle parole del Papa sono dovuti al fatto che “molti giornalisti non hanno il bagaglio intellettuale adatto”.
    Per questo ieri, quando il Papa ha messo piede in uno dei luoghi più sensibili del pellegrinaggio, il mausoleo che ricorda l’Olocausto, erano tutti pronti a scatenare una seconda Ratisbona.
    Il Papa per l’ennesima volta ha condannato “l’orrenda tragedia della Shoah” e ha ribadito la posizione della chiesa. Per il pellegrino Ratzinger, amico degli ebrei, però, il rapporto fra occidente e Terra Santa va oltre l’omaggio alla memoria della Shoah. E’ il rapporto fra culture e religioni differenti che si incontrano. E che devono, ha detto il Papa davanti al presidente israeliano Peres, contribuire a ricercare la pace. Con Dio e non nonostante Dio. Per il Papa dialogare non significa nemmeno appiattirsi su una “monocultura”, concordare forzatamente su tutto in nome di un’armonia falsa. Quello che esiste fra ebrei e cristiani, spiega Weigel, è un rapporto di amicizia. “Gli amici fra loro si dicono la verità: l’amicizia nella quale non si dice la verità non è un’amicizia vera. Allo stesso modo il dialogo vero parte dalla premessa che, mentre esiste un desiderio umano naturale di verità, alle volte chi sta dialogando con noi ci può fraintendere.
    Noi cristiani rispettiamo la ricerca della verità da parte degli ebrei, in se stessa e perché può illuminare anche la nostra stessa ricerca. Ma diciamo anche loro quando pensiamo che abbiano svoltato dalla parte sbagliata sulla strada verso la verità”.
    Fra ebrei e cristiani – spiega Weigel – in fondo c’è in comune anche la speranza messianica. Soltanto che per i cristiani si è già realizzata. “Un amico rabbino – racconta – una volta mi ha detto: ‘Quando il messia verrà, sarà la prima o la seconda volta? Voi cristiani dite che sarà la seconda. Io spero soltanto che, quando verrà, lo riconosceremo tutti’”.
    Quella con l’islam, invece, è un’altra storia. “I cristiani non possono accettare per esempio – dice Weigel – il convincimento musulmano secondo il quale ciò che loro credono essere la rivelazione di Dio a Maometto rimpiazza e completa la rivelazione del Dio biblico. Dal nostro punto di vista questo non è vero. Eppure quella differenza di giudizio così significativa non deve portare a violenza e guerra”. Un po’ come accade fra cristiani e mormoni in America: quella che i mormoni ritengono sia una rivelazione a Joseph Smith non ha portato a una guerra. Il problema, proprio come aveva detto Benedetto XVI anche domenica ad Amman, è la manipolazione delle differenze esistenti fra le fedi per fini politici.
    Per Benedetto XVI il dialogo è una questione di ragione. Rafforzare la relazione fra fede e ragione è uno dei principali temi pubblici del pontificato – dice Weigel – Prima di tutto, è importante per la nuova evangelizzazione, alla luce della sfida del nuovo ateismo. Poi è il terreno disponibile sul quale può realizzarsi un dialogo con l’islam”.
    Meglio dialogare sulla base della ragione, piuttosto che mettere in piedi un bel teatrino di convenevoli interreligiosi.
    Anche perché “un islam che guarda ad Avicenna e Averroé per trarre ispirazione sul suo incontro con il mondo non islamico, invece che ispirarsi a Sayyid Qutb e Ruhollah Khomeini, non rappresenterà una minaccia per il resto del mondo”.
    Anche il dialogo cattolico con l’ebraismo si basa sulla ragione, ma la sua struttura è diversa da quello che il Papa cerca faticosamente d’instaurare con l’islam. “Quello che chiamiamo occidente è un prodotto dell’interazione fruttuosa della religione biblica (l’ebraismo e il cristianesimo) con la cultura classica (la filosofia greca e il diritto romano). Per questo questo dialogo ha una consistenza diversa”. Al di là delle Sacre Scritture, per Weigel, un buon punto di partenza per la costruzione di un dialogo organico cattolico-giudaico su fede è già stato messo: “E’ il discorso pronunciato da Giovanni Paolo II sul Monte Sinai nel 2000, quando il Papa parlò delle verità morali dei dieci comandamenti scritti nel cuore dell’uomo (come per esempio la legge morale naturale) prima che sulle Tavole di pietra”.

    © Copyright Il Foglio, 12 maggio 2009


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    PAPA:CAREZZA BAMBINI BABY HOSPITAL,DOVE FU FUCILATA STATUA MADONNA

    (AGI) - Betlemme, 13 mag.

    Salvatore Izzo

    "Il Papa e' con voi. Oggi sono qui con voi in persona, ma ogni giorno accompagno spiritualmente ciascuno di voi nei miei pensieri e nelle mie preghiere, chiedendo all'Onnipotente di vegliare su di voi con la sua premurosa attenzione".
    Benedetto XVI si e' rivolto con queste parole ai piccoli ospiti del Baby Hospital, il centro sanitario per l'infanzia finanziato dalle Conferenze Episcopali tedesca e svizzera.
    "Padre Ernst Schnydrig - ha ricordato il Pontefice - fondo' questa struttura nella convinzione che i bambini innocenti meritano un posto sicuro da tutto cio' che puo' far loro del male in tempi e luoghi di conflitto". "Questa istituzione e' rimasta un'oasi quieta per i piu' vulnerabili, e ha brillato come un faro di speranza circa la possibilita' che l'amore ha di prevalere sull'odio e la pace sulla violenza", ha affermato il Pontefice.

    Nel 2002, quando ci fu l'assedio israeliano a Betlemme, le suore francescane elisabettine subirono una orrenda intimidazione da parte dei militari che dai blindati fecero fuoco contro il tetto della loro cappella colpendo con le pallottole la statua della Madonna che veglia sull'intero edificio.

    E il Papa le ha reso omaggio con una preghiera da lui stesso composta: "Maria, Salute degli Infermi, Rifugio dei Peccatori, Madre del Redentore: noi ci uniamo alle molte generazioni che ti hanno chiamata 'Benedetta'.
    Ascolta i tuoi figli mentre invochiamo il tuo nome. Tu hai promesso ai tre bambini di Fatima: 'Alla fine, il mio Cuore Immacolato trionfera''. "Che cosi' avvenga, che l'amore trionfi sull'odio, la solidarieta' sulla divisione e la pace su ogni forma di violenza", ha auspicato il Pontefice, chiedendo a Gesu' di "benedire questi bambini e tutti i bambini che soffrono in tutto il mondo. Possano ricevere la salute del corpo, la forza della mente e la pace dell'anima". Padre Schnydrig descrisse questo luogo come "uno dei piu' piccoli ponti costruiti per la pace". "Ora - ha rilevato il Pontefice - essendo cresciuto da quattordici brande ad ottanta letti, e curandosi delle necessita' di migliaia di bambini ogni anno, questo non e' piu' un ponte piccolo ma accoglie insieme persone di origini, lingue e religioni diverse, nel nome del Regno di Dio, il Regno della Pace". "Di cuore - ha poi concluso rivolto alle suore - vi incoraggio a perseverare nella vostra missione di manifestare amore per tutti gli ammalati, i poveri e i deboli". Due fratellini ospiti del Centro, Bashir e Bashar, hanno consegnato a Benedetto XVI un quadro con il logo dell'ospedale (due gemellini) ricamato a punto croce dalle donne del progetto ricami, promosso dalla associazione Children's Relief Bethlehem che gestisce la struttura insieme e che il Papa ha voluto ringraziare.

    © Copyright (AGI)


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    Intervista al presidente d'Israele Shimon Peres

    Al Medio Oriente non servono né armi né muri

    di Giuseppe Fiorentino

    Una visita radicata nella storia, ma proiettata verso il futuro. Una visita che ha toccato le questioni più scottanti del nostro tempo. Così il presidente d'Israele Shimon Peres definisce il pellegrinaggio di Benedetto XVI in Terra Santa, durante una conversazione telefonica con chi scrive e con il direttore de "L'Osservatore Romano", Giovanni Maria Vian, avvenuta nelle ore in cui il Papa si trovava a Betlemme, nei Territori Palestinesi. Il viaggio è ancora in corso, ma il presidente Peres tira già un primo bilancio delle giornate trascorse dal Pontefice in Israele e del messaggio che da esse scaturisce. La prima lezione, a suo avviso, riguarda la necessità di impedire che l'antisemitismo si diffonda di nuovo. Secondo Peres la minaccia più grave del nostro tempo è però il terrorismo, che diventa ancora più pericoloso quando cerca motivazioni religiose. "È come - afferma - se non ci fosse più un solo Dio, ma due: un Dio della pace e della fratellanza, l'altro della violenza e del terrore, che permette di uccidere e di usare la religione come copertura dei più terribili peccati". Nessuno meglio del Papa, con la sua autorità spirituale - ammette Peres - può esprimere il rifiuto di una religione che giustifichi la violenza. Ma l'eredità che la visita di Benedetto XVI lascerà sta soprattutto nel suo tentativo di diffondere uno spirito di comprensione reciproca in un'area di conflitto.

    Sin dall'inizio del suo pellegrinaggio in Terra Santa, il Papa ha sottolineato che sarebbe stato un viaggio compiuto nel rispetto del diritto di tutti. Pensa che questo messaggio possa essere compreso dai popoli del Medio Oriente nell'attuale situazione della regione?

    L'intero messaggio diffuso dal Papa è stato un messaggio positivo e potrebbe avere riflessi importanti. È necessario forse combinare i discorsi che ha pronunciato all'aeroporto e allo Yad Vashem per avere un'idea chiara del messaggio recato da Benedetto XVI.

    Durante la visita allo Yad Vashem il Papa ha chiaramente espresso una ferma condanna della Shoah. Secondo lei le parole di Benedetto XVI chiariranno definitivamente la sua posizione sulla Shoah e sull'antisemitismo?

    Certamente sì, ma il messaggio più forte è forse quello lanciato nel discorso all'arrivo.

    Più di una volta, il Papa ha parlato del ruolo delle tre religioni monoteistiche nella costruzione di una pace duratura. Come può essere svolto questo ruolo nel contesto del Medio Oriente?

    C'è da considerare la divisione del mondo musulmano tra sciiti e sunniti, con la maggioranza sunnita che non accetta l'egemonia iraniana. I sunniti, come gli ebrei e i cristiani, vogliono vedere i popoli del Medio Oriente in pace come comuni figli di Abramo, senza conflitti che non sarebbero più necessari. Ciò che comincia a emergere in Medio Oriente è una tendenza a non essere più soddisfatti da accordi bilaterali, ma a cercare accordi regionali per la pace e la coesistenza pacifica, comprendendo che la democrazia moderna non è il diritto a essere uguali, ma l'eguale diritto a essere differenti. Dove tutte le preghiere possano salire al cielo senza interferenze e senza censure.

    Come valuta la politica di apertura della nuova Amministrazione statunitense verso l'Iran?

    Lasciamoli provare. Ma dubito che avranno successo. Per il momento la posizione espressa dall'Iran nei confronti di Israele per il mio Paese non è accettabile.

    È ancora valida la visione dei due Stati indipendenti, limitrofi e in pace l'uno con l'altro?

    Sì, è ancora valida. Il precedente Governo di Israele l'aveva accettata e il primo ministro attuale ha affermato che si conformerà alle risoluzioni del Governo precedente. Questa è la posizione reale, indipendentemente da ogni altra interpretazione.

    Quale sarà il futuro di Israele e del Medio Oriente?

    Bisogna fermare l'uso delle armi e della violenza. Bisogna fermare i muri. Nessuno in definitiva vuole i muri, di cui tutti pagano costi altissimi. Bisogna poi permettere alla gente di entrare in una nuova era di scienza e tecnologia che non è in contraddizione con le Scritture. Si può vivere come credenti nell'era della scienza. Non c'è contrasto, come sottolinea il Papa stesso. Ma prima di tutto dobbiamo aprire le frontiere e i cuori per permettere ai nostri figli di vivere un futuro di pace.

    (©L'Osservatore Romano - 14 maggio 2009)


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    PELLEGRINO DI SPERANZA

    «Il Papa allo Yad Vashem mi ha toccato il cuore»

    Parla lo storico Tagliacozzo, scampato ai lager
    Ebreo romano, 88 anni, vive in un kibbutz vicino ad Haifa. Nel 1943 riuscì a sfuggire ai nazisti trovando rifugio prima in Laterano, quindi in un convento francescano. Da Michael Tagliacozzo un esplicito apprezzamento per le parole e i gesti di Ratzinger in Israele: «Ha una grande profondità. La mia storia testimonia l’impegno della Chiesa per gli ebrei»

    DAL NOSTRO INVIATO A GERUSALEMME

    LUIGI GENINAZZI

    Sfoglia i giornali, guarda i titoli, legge i commenti. Ed alla fine scuote la te sta con disappunto. Allo storico Mi chael Tagliacozzo, ebreo romano resi dente in Israele, proprio non è piaciuto quel che i giornali locali hanno scritto e riportato su Benedetto XVI a Yad Vashem. « Occasione perduta » , ( Yediot Ahronot),
    « discorso deludente » ( Maariv), « il Papa non chiede scusa » ( Jerusalem Post). « Ma che pretendono? » borbotta. Nonostante i suoi 88 anni Michael Tagliacozzo ha an cora un’incredibile energia, studia e dà lezioni. La sua vita è degna di un roman zo. Nel 1943, a 22 anni, sfugge all’arresto dei nazisti trovando ri fugio dapprima in La terano e poi in un con vento di francescani ( ne parla in un suo li­bro « La comunità di Roma sotto l’incubo della svastica » ). Scam pato al lager, dopo la guerra viene deporta to dagli inglesi a Cipro.
    Si definisce sionista pacifista, vive in Israe le ma non ne ha mai preso la cittadinanza.
    Ancora oggi risiede in un kibbutz presso la città di Haifa, a Nir Eziom. Ed ogni sera, prima d’addormen tarsi, legge sia il Vecchio che il Nuovo Te stamento.

    Professor Tagliacozzo, cosa ha provato vedendo il Papa al Memoriale dell’Olo causto a Yad Vashem?

    Quando Benedetto XVI ha ricordato co loro che hanno perso la vita ma non per deranno i loro nomi mi ha toccato il cuo re. Sa, io e mia moglie abbiamo perso quattordici parenti ad Auschwitz. Ma de vo dire la verità: sono molto deluso da come i giornali hanno trattato la notizia. Trovo le loro critiche infondate e super ficiali.

    Ad esempio?

    È scoppiata una gran polemica sul fatto che il Papa, parlando delle vittime del l’Olocausto, ha usato il termine ' uccisi' e non ' assassinati'. Forse qualcuno pre tendeva che Benedetto XVI ripetesse let teralmente una preghiera ebraica che si tiene a Yad Vashem e nella quale si dice che i nostri fratelli sono stati massacrati, trucidati, bruciati, annegati e via di se guito, in una descrizione dettagliata del l’orrore. Ma quel che conta è il senso del suo gesto.

    Che a quanto pare non tutti hanno ca pito. Sembra che qualunque cosa dica questo Papa sulla Shoah non sia mai ab­bastanza...

    Sì, è vero. Molti scambiano il suo garbo e la sua timidezza per reticenza e per freddezza. Ma i suoi discorsi ed i suoi scritti sono di una profondità non co mune. Se uno si prende la briga di legge re quel che Joseph Ratzinger scriveva già da cardinale noterà che il rispetto e l’a micizia per gli ebrei rappresentano uno dei punti cardini del suo pensiero.

    Lei, come storico e come ebreo, ha dife so in più occasioni il comportamento della Chiesa cattolica e di Pio XII durante gli anni del nazismo. Tutto questo le ha creato dei problemi?

    Beh, tanta gente qui in Israele non con divide la mia simpatia per la Chiesa cat tolica, anche se non osano criticarmi a pertamente. Devo dire però che quando l’anno scorso Benedetto XVI mi ha no minato Cavaliere dell’Ordine di San Gre gorio Magno tutti nel mio kibbutz si so no sentiti onorati. Poi, certo, le discus sioni sono infinite, a cominciare dalla fi gura di Pio XII. Ma io dico sempre: i pre ti ed i frati che a Roma nascondevano gli ebrei nelle parrocchie e nei conventi lo facevano perché c’era un ordine ben pre ciso che veniva dall’alto, dal Vaticano! Io lo posso testimoniare.

    Professor Tagliacozzo, che risultato si a spetta da questa visita di Benedetto XVI in Israele?

    Una rinnovata e più forte amicizia tra e brei e cristiani, tra Israele e Chiesa catto lica. E se qualcuno storce il naso e, per quanto faccia e dica il Papa, non è mai soddisfatto, io ribatto: Non prevalebunt!
    «Sono molto deluso da come la stampa israeliana ha trattato la visita al Memoriale.
    I loro rilievi sono infondati e superficiali»

    © Copyright Avvenire, 13 maggio 2009


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    Betlemme, il Papa abbraccia i bimbi

    Un quarto d'ora in giro per le stanze dell'ospedale pediatrico 'Caritas Baby Hospital' e anche l'emozione di tenere in braccio un bimbo nato prematuro, Elias, che oggi pesa due chili e mezzo: il papa, oggi in visita alla struttura, vi ha anche portato in dono un respiratore, proprio per la cura dei bimbi prematuri

    Nell'ospedale Benedetto XVI è stato accolto dall'arcivescovo Robert Zollisch e dal vescovo Kurt Koch, rappresentanti delle conferenze episcopali tedesca e svizzera, che sostengono l'ospedale pediatrico dove ogni anno vengono assicurate circa 30 mila prestazioni ambulatoriali e 4 mila degenze. Vi lavorano 20 medici, 6 suore francescane di Padova e 200 collaboratori, molti dei quali sono donne palestinesi. Il papa ha visitato anche la cappella. Benedetto XVI, nel suo discorso, ha affermato che "i bambini innocenti meritano un posto sicuro da tutto ciò che può far loro male in tempi e luoghi di conflitto".
    "Questa istituzione - ha detto - è un'oasi quieta per i più vulnerabili, e ha brillato come faro di speranza circa la possibilità che l'amore ha di prevalere sull'odio e la pace sulla violenza".
    Nel primo pomeriggio il pontefice è stato anche nella grotta della Natività, dove ha pregato in ginocchio davanti alla lastra di marmo che indica il punto in cui secondo la tradizione è nato Gesù.
    Si è recato, infine, nel luogo della mangiatoia, alla presenza anche di cristiani di altre confessioni.

    © Copyright Ansa


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    Dalle immagini ai pensieri

    Marco Deriu
    docente di etica della comunicazione
    Università Cattolica di Milano

    Il Papa che dal Monte Nebo guarda la Terra Promessa, che pianta un Ulivo, che prega davanti al Muro del pianto, che cammina nella Spianata delle moschee, che tiene il discorso al mausoleo di Yad Vashem, che ricorda i sei milioni di ebrei uccisi nell’Olocausto nazista, che alimenta la fiamma perpetua per gli uccisi nella Shoah, che ha sulle spalle la kefiah, che prega nella basilica del Santo Sepolcro...
    Queste e moltissime altre sono le immagini del pellegrinaggio di Benedetto XVI in Terra Santa che resteranno a lungo impresse nella nostra memoria e che più di molti resoconti richiamano il senso di questa visita: preghiera, contemplazione, intercessione, incontro. È affascinante l’idea di un dialogo favorito proprio dalla portata di azioni e gesti altamente simbolici.
    Anche Gesù Cristo parlava per immagini e nella società mediatica è ancor più vero che un’immagine lascia il segno ben al di là di mille parole.
    Non che i messaggi verbali siano stati di poco conto, anzi. Ma stavolta più di altre il Pontefice è riuscito ad accompagnare e sintetizzare il senso delle sue parole con gesti semplici ed essenziali ma di grande impatto. Fra i media, finora la parte del leone è stata ad appannaggio – naturalmente – della regina delle immagini: la televisione. Le principali edizioni dei telegiornali hanno seguito da vicino, con i loro occhi elettronici, i movimenti del Santo Padre. Come di consueto, hanno però ecceduto nella sintesi dei contenuti. D’altra parte, lo spazio di un notiziario televisivo è limitato e lo spettacolo televisivo ha bisogno di rilanciare continuamente nuovi argomenti dell’attualità quotidiana.
    Analisi, opinioni e commenti più distesi hanno invece occupato le pagine dei quotidiani nazionali, che hanno generalmente riportato l’evento in prima pagina, spesso in apertura. Rispetto a precedenti viaggi o ai discorsi del Papa pronunciati in altre occasioni, stavolta i toni delle analisi sono stati generalmente più benevoli e meno pronti a rilanciare criticamente qualunque possibile appello verbale. Anche i giornali hanno fatto largo uso di fotografie, privilegiando lo spazio visivo rispetto a quello della lettura e sfruttando il potere evocativo di fotografie, immagini e infografiche capaci di sintetizzare visivamente il contenuto di molte notizie.
    Tra i commentatori, chi ha riportato letture di segno negativo lo ha fatto citando la stampa israeliana e parte di quella araba. Le principali testate informative di Israele hanno espresso delusione per il discorso di Benedetto XVI a Yad Vashem, dopo aver ampiamente anticipato che nella intera visita di Benedetto XVI (“il Papa tedesco”) nella loro terra il momento saliente sarebbe stato il suo ingresso al Mausoleo della Shoah di Gerusalemme. È stato riferito anche come un “momento di imbarazzo”, il polemico discorso anti-israeliano tenuto da un religioso islamico al cospetto di un Papa “molto contrariato”, ma sono stati anche riportati due eventi commoventi: l’incontro del Pontefice con i genitori di un soldato israeliano da tre anni prigioniero di Hamas a Gaza (“Un momento di speranza”) e la sua stretta di mano con il ministro che da bambino fu cresciuto da una famiglia cristiana, nel Belgio occupato dai nazisti. La stampa araba ha insistito sull’esortazione di Benedetto XVI alla creazione di uno Stato indipendente palestinese, sulla condanna dell’antisemitismo, sull’appello per la riconciliazione fra palestinesi e israeliani.
    Le testate italiane a diffusione nazionale hanno agito di rimessa su questi temi, trovando spunti di riflessione proprio a partire dall’atteggiamento espresso dai giornali in loco. In generale, i quotidiani nostrani hanno mantenuto un atteggiamento rispettoso e “benevolo” verso il viaggio papale e, probabilmente, verso i luoghi stessi della Terra Santa in cui il Pontefice si è recato a muovere i propri passi. È come se – con poche eccezioni – stavolta un sussulto di essenzialità e ascolto avesse animato la scelta di ricorrere a toni meno sensazionalistici e più referenziali per raccontare le tappe salienti della visita.
    Se questo è il segnale di un’inversione di tendenza rispetto a recenti speculazioni mediatiche, sarà il tempo a dirlo. Per il momento, accontentiamoci di una copertura informativa tutto sommato adeguata da parte dei media generalisti e apprezziamo con un occhio di riguardo le cronache delle testate di ispirazione cattolica che stavolta più che mai hanno potuto “giocare in casa”.

    © Copyright Sir


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    Via le scarpe, un gesto che piace

    dal nostro inviato

    GERUSALEMME

    Papa Ratzinger a Gerusalemme si guadagna sul campo la simpatia dei palestinesi. E nella città delle tre religioni torna di nuovo in moschea.
    Per la terza volta nel corso suo pontificato. Stavolta, però, contrariamente a ciò che era successo in Giordania, dove l'imam della moschea intitolata al defunto re Hussein aveva chiuso un occhio permettendo tanto al principe Ghazi che a Benedetto XVI di entrare con le scarpe, nella spianata delle Moschee, le autorità islamiche, decisamente più rigorose, hanno apprezzato il rispetto manifestato dal pontefice di togliersi i mocassini di marocchino rosso per rimanere con degli immacolati calzini bianchi.
    Il segretario don Georg aveva portato previdentemente con sé delle pianelle da camera, ma non sono servite, il Papa è voluto entrare scalzo.
    Alla Cupola della Roccia, accolto con grandi sorrisi dal Gran Muftì, Muhammad Husayn, ha incoraggiato i musulmani. La massima autorità islamica a Gerusalemme, invece, lo ha invitato «a svolgere un ruolo efficace per mettere fine all'aggressione israeliana contro i palestinesi, la nostra gente, i nostri luoghi sacri anche a Gaza e in Cisgiordania».
    In questi giorni al mondo arabo non è affatto sfuggito l'appello pronunciato dal Papa al suo arrivo a Tel Aviv, davanti al presidente Peres e al premier Netanhyau per uno stato palestinese, così come la decisione di fare tappa, per ben tre giorni, in Giordania prima di raggiungere Israele, o di indossare la kefya. Ancora non si sa se le autorità israeliane daranno il permesso alla sparuta minoranza cristiana che vive a Gaza di raggiungere Betlemme stamattina, per la messa nella piazza della Mangiatoria.
    Probabilmente ne arriveranno solo 93, anche se ne erano stati chiesti 250. Papa Ratzinger alla messa che ha celebrato ieri pomeriggio nella valle di Josafath ha strappato raffiche di applausi per avere manifestato dolore per «quelle famiglie» palestinesi «che in conseguenza dei conflitti che hanno afflitto queste terre» sono state costrette «alle amare esperienze dello spostamento».
    «Dio non permetta che possano ancora conoscerle».
    Il Patriarca Latino di Gerusalemme, monsignor Twal, che accompagna in ogni tappa il pontefice, lo ha invitato a riflettere su un punto. «Padre Santo, noi assistiamo da una parte all'agonia del popolo palestinese che sogna di vivere in uno Stato libero e indipendente, ma non arriva.
    E assistiamo, dall'altra parte, all'agonia di un popolo israeliano che sogna una vita normale nella pace e nella sicurezza, ma nonostante la sua potenza mediatica e militare, non arriva».
    F. GIA.

    © Copyright Il Messaggero, 13 maggio 2009


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    Il Papa: «Gerusalemme città di pace per tutti»

    Ratzinger nella Spianata delle Moschee: dialogo con ebrei e Islam. Messa nella valle di Josafat

    FRANCA GIANSOLDATI

    dal nostro inviato

    GERUSALEMME

    Al Muro Occidentale i preparativi sono iniziati all'alba. L'area è stata sgombrata, ermeticamente sigillata da nervosissimi uomini dello Shin Bet armati fino ai denti. Per un paio d'ore, il cuore dell'ebraismo, è divenuto inaccessibile a tutti. Ebrei ortodossi compresi. Il livello di sicurezza è stato innalzato al punto di verificare la presenza di sostanze esplosive sulle mani dei pochissimi giornalisti ammessi nella zona soprastante, una specie di recinto dal quale Papa Ratzinger si poteva scorgere di lontano e solo di spalle.
    Per qualche minuto è restato immobile come una statua di sale davanti al Muro del Pianto prima di deporre tra le fessure delle grandi pietre una preghiera.
    «Dio di tutte le epoche, in occasione della mia visita a Gerusalemme, la citta' della pace, ascolta il grido degli afflitti, di chi ha paura, dei disperati e invia la pace su questa terra, sul Medio Oriente e su tutta la famiglia umana».
    Un desiderio diretto al Cielo come le centinaia di palloncini coi colori palestinesi che, una mezz'ora prima del suo arrivo, si sono visti volare via, liberati dai musulmani sulla spianata delle Moschee dove, Benedetto XVI, primo papa nella storia, ha visitato la Cupola della Roccia, l'edificio islamico più antico e forse anche più famoso per la sua cupola dorata ben visibile da qualsiasi luogo della Città Santa. Per i musulmani la moschea sorge sulla roccia dalla quale Maometto ha pregato prima di intraprendere il suo viaggio in cielo, per gli ebrei, invece, quella terra è sacra perché era la sede del Tempio di Re Salomone. Ai cristiani, invece, ricorda le numerose visite di Gesù al Tempio e le sue dispute coi sacerdoti. In nessun luogo come quest'angolo di mondo la politica si intreccia con la religione e il dialogo, elemento imprescindibile per costruire ponti e non muri, come ripeteva Papa Wojtyla, risulta difficile e carente. Benedetto XVI domanda quanto bisognerà ancora aspettare per vedere Gerusalemme, patria spirituale delle tre grandi religioni, prima di diventare una «città di pace per tutti i popoli e dove tutti possono venire in pellegrinaggio alla ricerca di Dio».
    Parola che risuonano nel pomeriggio nella valle di Josafat, la spianata che si trova di fronte alla Basilica del Getsemani e all'Orto degli Ulivi.
    Lì erano attese almeno diecimila persone ma, invece, a causa degli ostacoli legati alle misure sicurezza decise dagli israeliani, almeno un migliaio di neocatecumenali, secondo quanto filtra dall'entourage papale, non sono riusciti a raggiungere il luogo della messa.
    La cosa non è affatto piaciuta al Vaticano, tanto che il Sostituto alla Segreteria di Stato, monsignor Filoni, avrebbe protestato con le autorità israeliane. Laconica la risposta ottenuta, «verificheremo».
    Il Papa, intanto, cerca come può di restare fuori dalla mischia. Pesanti critiche gli sono piovute addosso dai giornali israeliani per non avere condannato il nazismo. L'Osservatore Romano puntualizza, «bisogna andare al di là delle contraddizioni e dei minimi episodi che attirano tanto l'attenzione dei media e sono dovuti alla miope volontà di diverse parti di trarre effimeri vantaggi politici dal viaggio papale».

    © Copyright Il Messaggero, 13 maggio 2009


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    00 14/05/2009 16:54
    PELLEGRINAGGIO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI IN TERRA SANTA (8-15 MAGGIO 2009) (XXV)


    SANTA MESSA PRESSO IL MONTE DEL PRECIPIZIO A NAZARETH



    Questa mattina, alle ore 8.15, il Santo Padre Benedetto XVI lascia la Delegazione Apostolica di Jerusalem e si trasferisce in auto all’eliporto di Mount Scopus da dove parte in elicottero per Nazareth. All’arrivo all’eliporto di Nazareth, alle 9.15, il Santo Padre è accolto dal Sindaco di Nazareth, Sig. Ramiz Jaraisy, dall’Ausiliare di Gerusalemme dei Latini per Israele, S.E. Mons. Giacinto-Boulos Marcuzzo, e da S.E. Mons. Paul Nabil El-Sayah, Arcivescovo di Haifa e di Terra Santa dei Maroniti.

    Il Papa si reca quindi in auto al Monte del Precipizio per la Santa Messa. La celebrazione, secondo il rito latino, conclude l’Anno per la Famiglia indetto dalla Chiesa Cattolica in Terra Santa.

    Nel corso della Celebrazione Eucaristica, che inizia alle ore 10 ed è introdotta dal saluto dell’Ordinario Greco-Melkita per la Galilea, S.E. Mons. Elias Chacour, Arcivescovo di Akka, dopo la proclamazione del Vangelo il Santo Padre Benedetto XVI pronuncia l’omelia che riportiamo di seguito:


    OMELIA DEL SANTO PADRE


    Cari fratelli e sorelle!

    "La pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo!" (Col 3,15). Con queste parole dell’apostolo Paolo, saluto tutti voi con affetto nel Signore. Mi rallegro di essere venuto a Nazareth, luogo benedetto dal mistero dell’Annunciazione, il posto che ha visto gli anni nascosti della crescita di Cristo in sapienza, età e grazia (cfr Lc 2,52). Ringrazio l’Arcivescovo Elia Chacour per le cortesi parole di benvenuto, ed abbraccio con il segno della pace i miei confratelli Vescovi, i sacerdoti, i religiosi e tutti i fedeli della Galilea, che, nella diversità dei riti e delle tradizioni, danno espressione all’universalità della Chiesa di Cristo. Desidero ringraziare in modo speciale quanti hanno reso possibile questa celebrazione, particolarmente coloro che sono stati coinvolti nella pianificazione e nella costruzione di questo nuovo teatro con il suo splendido panorama.

    Qui nella città di Gesù, Maria e Giuseppe, siamo riuniti per segnare la conclusione dell’Anno della Famiglia celebrato dalla Chiesa nella Terra Santa. Come segno promettente per il futuro, benedirò la prima pietra di un Centro internazionale per la Famiglia, che sarà costruito a Nazareth. Preghiamo affinché esso promuova una forte vita familiare in questa regione, offra sostegno ed assistenza alle famiglie ovunque, e le incoraggi nella loro insostituibile missione nella società.

    È inoltre mia speranza che questa tappa del mio pellegrinaggio attiri l’attenzione di tutta la Chiesa verso questa città di Nazareth. Abbiamo tutti bisogno, come disse qui il Papa Paolo VI, di tornare a Nazareth, per contemplare sempre di nuovo il silenzio e l’amore della Sacra Famiglia, modello di ogni vita familiare cristiana. Qui, sull’esempio di Maria, di Giuseppe e di Gesù, possiamo giungere ad apprezzare ancor di più la santità della famiglia, che, nel piano di Dio, si basa sulla fedeltà per la vita intera di un uomo e di una donna, consacrata dal patto coniugale ed aperta al dono di Dio di nuove vite. Quanto hanno bisogno gli uomini e le donne del nostro tempo di riappropriarsi di questa verità fondamentale, che è alla base della società, e quanto importante è la testimonianza di coppie sposate in ordine alla formazione di coscienze mature e alla costruzione della civiltà dell’amore!

    Nella prima lettura odierna, tratta dal Siracide, la parola di Dio presenta la famiglia come la prima scuola della sapienza, una scuola che educa i propri membri nella pratica di quelle virtù che portano alla felicità autentica e ad un durevole appagamento. Nel piano divino per la famiglia, l’amore del marito e della moglie porta frutto in nuove vite, e trova quotidiana espressione negli amorevoli sforzi dei genitori di assicurare un’integrale formazione umana e spirituale per i loro figli. Nella famiglia ogni persona, sia che si tratti del bambino più piccolo o del genitore più anziano, viene considerata per ciò che è in se stessa e non semplicemente come un mezzo per altri fini. Qui iniziamo a vedere qualcosa del ruolo essenziale della famiglia come primo mattone di costruzione di una società ben ordinata e accogliente. Possiamo inoltre giungere ad apprezzare, all’interno della società più ampia, il ruolo dello Stato chiamato a sostenere le famiglie nella loro missione educatrice, a proteggere l’istituto della famiglia e i suoi diritti nativi, come pure a far sì che tutte le famiglie possano vivere e fiorire in condizioni di dignità.

    Scrivendo ai Colossesi, l’apostolo Paolo parla istintivamente della famiglia quando cerca di illustrare le virtù che edificano "l’unico corpo", che è la Chiesa. Quali "scelti da Dio, santi e amati", siamo chiamati a vivere in armonia e in pace l’uno con l’altro, mostrando anzitutto magnanimità e perdono, con l’amore quale più alto vincolo di perfezione (cfr Col 3,12-14). Come nel patto coniugale, l’amore dell’uomo e della donna viene innalzato dalla grazia fino a divenire condivisione ed espressione dell’amore di Cristo e della Chiesa (cfr Ef 5,32), così anche la famiglia fondata sull’amore viene chiamata ad essere una "Chiesa domestica", luogo di fede, di preghiera e di preoccupazione amorevole per il bene vero e durevole di ciascuno dei propri membri.

    Mentre riflettiamo su tali realtà in questa che è la città dell’Annunciazione, il nostro pensiero si volge naturalmente a Maria, "piena di grazia", la Madre della Santa Famiglia e nostra Madre. Nazareth ci ricorda il dovere di riconoscere e rispettare dignità e missione concesse da Dio alle donne, come pure i loro particolari carismi e talenti. Sia come madri di famiglia, come una vitale presenza nella forza lavoro e nelle istituzioni della società, sia nella particolare chiamata a seguire il Signore mediante i consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza, le donne hanno un ruolo indispensabile nel creare quella "ecologia umana" (cfr Centesimus annus, 39) di cui il mondo, e anche questa terra, hanno così urgente bisogno: un ambiente in cui i bambini imparino ad amare e ad apprezzare gli altri, ad essere onesti e rispettosi verso tutti, a praticare le virtù della misericordia e del perdono.

    Qui pensiamo pure a san Giuseppe, l’uomo giusto che Dio pose a capo della sua casa. Dall’esempio forte e paterno di Giuseppe, Gesù imparò le virtù della pietà virile, della fedeltà alla parola data, dell’integrità e del duro lavoro. Nel falegname di Nazareth poté vedere come l’autorità posta al servizio dell’amore sia infinitamente più feconda del potere che cerca di dominare. Quanto bisogno ha il nostro mondo dell’esempio, della guida e della calma forza di uomini come Giuseppe!

    Infine, nel contemplare la Sacra Famiglia di Nazareth, rivolgiamo lo sguardo al bambino Gesù, che nella casa di Maria e di Giuseppe crebbe in sapienza e conoscenza, sino al giorno in cui iniziò il ministero pubblico. Qui vorrei lasciare un pensiero particolare ai giovani presenti. Il Concilio Vaticano II insegna che i bambini hanno un ruolo speciale nel far crescere i loro genitori nella santità (cfr Gaudium et spes, 48). Vi prego di riflettere su questo e di lasciare che l’esempio di Gesù vi guidi non soltanto nel mostrare rispetto ai vostri genitori, ma anche nell’aiutarli a scoprire più pienamente l’amore che dà alla nostra vita il senso più completo. Nella Sacra Famiglia di Nazareth fu Gesù ad insegnare a Maria e Giuseppe qualcosa della grandezza dell’amore di Dio, suo celeste Padre, la sorgente ultima di ogni amore, il Padre da cui ogni paternità in cielo e in terra prende nome (cfr Ef 3,14-15).

    Cari amici, nella colletta della Messa odierna abbiamo chiesto al Padre di "aiutarci a vivere come la Sacra Famiglia, unita nel rispetto e nell’amore". Rinnoviamo qui il nostro impegno ad essere lievito di rispetto e di amore nel mondo che ci attornia. Questo Monte del Precipizio ci ricorda, come lo ha fatto con generazioni di pellegrini, che il messaggio del Signore fu talvolta sorgente di contraddizione e di conflitto con i propri ascoltatori. Purtroppo, come il mondo sa, Nazareth ha sperimentato tensioni negli anni recenti che hanno danneggiato i rapporti fra le comunità cristiana e musulmana. Invito le persone di buona volontà di entrambe le comunità a riparare il danno che è stato fatto, e in fedeltà al comune credo in un unico Dio, Padre dell’umana famiglia, ad operare per edificare ponti e trovare modi per una pacifica coesistenza. Ognuno respinga il potere distruttivo dell’odio e del pregiudizio, che uccidono l’anima umana prima ancora che il corpo!

    Permettetemi di concludere con una parola di gratitudine e di lode per quanti si adoperano per portare l’amore di Dio ai bambini di questa città e per educare le generazioni future nelle vie della pace. Penso in modo speciale agli sforzi delle Chiese locali, particolarmente nelle loro scuole e nelle istituzioni caritative, per abbattere i muri e per essere fertile terreno d’incontro, di dialogo, di riconciliazione e di solidarietà. Incoraggio i sacerdoti, i religiosi, i catechisti e gli insegnanti che sono impegnati, insieme con i genitori e quanti si dedicano al bene dei nostri ragazzi, a perseverare nel dare testimonianza al Vangelo, ad aver fiducia nel trionfo del bene e della verità e a confidare che Dio farà crescere ogni iniziativa destinata a diffondere il suo Regno di santità, solidarietà, giustizia e pace. Al tempo stesso riconosco con gratitudine la solidarietà che tanti nostri fratelli e sorelle in tutto il mondo mostrano verso i fedeli della Terra Santa, sostenendo i lodevoli programmi ed attività del Catholic Near East Welfare Association.

    "Si faccia di me secondo la tua parola" (Lc 1,38). La Vergine dell’Annunciazione, che coraggiosamente aprì il cuore al misterioso piano di Dio, e divenne Madre di tutti i credenti, ci guidi e ci sostenga con la sua preghiera. Ottenga per noi e le nostre famiglie la grazia di aprire le orecchie a quella parola del Signore che ha il potere di edificarci (cfr At 20,32), di ispirarci decisioni coraggiose e di guidare i nostri passi sulla via della pace!


    Al termine della Celebrazione Eucaristica, il Papa benedice le prime pietre per il Centro Internazionale della Famiglia, il Parco Memoriale Giovanni Paolo II e la "University of Pope Benedict XVI".

    Quindi si trasferisce in auto al Convento dei Francescani di Nazareth dove pranza con gli Ordinari locali, con la Comunità dei Francescani e con i Membri del Seguito papale.




    Discorso di Benedetto XVI ai Capi religiosi della Galilea



    NAZARET, giovedì, 14 maggio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo giovedì da Benedetto XVI, nell’Auditorium del Santuario dell’Annunciazione di Nazaret, in occasione dell'incontro con i Capi religiosi della Galilea, tra i quali erano presenti cristiani, musulmani, ebrei, drusi.

    * * *

    Cari Amici,

    grato per le parole di benvenuto del Vescovo Giacinto-Boulos Marcuzzo e per la vostra calorosa accoglienza, saluto cordialmente i leaders delle diverse comunità presenti, comprendenti Cristiani, Musulmani, Giudei, Drusi ed altre persone religiose.

    Avverto come una particolare benedizione il poter visitare questa città venerata dai Cristiani come il luogo dove l’Angelo annunciò alla Vergine Maria che avrebbe concepito per opera dello Spirito Santo. Qui anche Giuseppe, suo promesso sposo, vide in sogno un Angelo e gli fu indicato di chiamare il bambino "Gesù". Dopo questi meravigliosi eventi che accompagnarono la sua nascita, il bambino venne portato in questa città da Giuseppe e Maria, dove egli "cresceva e si fortificava pieno di sapienza e la grazia di Dio era su di lui" (Lc 2, 40).

    La convinzione che il mondo è un dono di Dio e che Dio è entrato nelle svolte e nei tornanti della storia umana, è la prospettiva dalla quale i Cristiani vedono che la creazione ha una ragione ed uno scopo. Lungi dall'essere il risultato di un fato cieco, il mondo è stato voluto da Dio e rivela il suo splendore glorioso.

    Al cuore di ogni tradizione religiosa c’è la convinzione che la pace stessa è un dono di Dio, anche se non può essere raggiunta senza lo sforzo umano. Una pace durevole proviene dal riconoscimento che il mondo non è ultimamente nostra proprietà, ma piuttosto l'orizzonte entro il quale noi siamo invitati a partecipare all'amore di Dio e a cooperare nel guidare il mondo e la storia sotto la sua ispirazione. Non possiamo fare con il mondo tutto quello che ci piace; anzi, siamo chiamati a conformare le nostre scelte alle complesse e tuttavia percettibili leggi scritte dal Creatore nell'universo e a modellare le nostre azioni secondo la bontà divina che pervade il regno del creato.

    La Galilea, una terra conosciuta per la sua eterogeneità etnica e religiosa, è la patria di un popolo che ben conosce gli sforzi richiesti per vivere in armoniosa coesistenza. Le nostre diverse tradizioni religiose hanno in sé potenzialità notevoli in ordine alla promozione di una cultura della pace, specialmente attraverso l’insegnamento e la predicazione dei valori spirituali più profondi della nostra comune umanità. Plasmando i cuori dei giovani, noi plasmiamo il futuro della stessa umanità. I Cristiani volentieri si uniscono ad Ebrei, Musulmani, Drusi e persone di altre religioni nel desiderio di salvaguardare i bambini dal fanatismo e dalla violenza, mentre li preparano ad essere costruttori di un mondo migliore.

    Miei cari Amici, so che voi accogliete gioiosamente e con il saluto della pace i molti pellegrini che giungono in Galilea. Vi incoraggio a continuare ad esercitare il vicendevole rispetto, mentre vi adoperate ad alleviare le tensioni concernenti i luoghi di culto, garantendo così un ambiente sereno per la preghiera e la meditazione, qui e in tutta la Galilea. Rappresentando diverse tradizioni religiose, condividete il comune desiderio di contribuire al miglioramento della società e di testimoniare così i valori religiosi e spirituali che aiutano a corroborare la vita pubblica. Vi assicuro che la Chiesa Cattolica è impegnata a partecipare a questa nobile impresa. Cooperando con uomini e donne di buona volontà, essa cercherà di assicurare che la luce della verità, della pace e della bontà continui a risplendere dalla Galilea e a guidare le persone del mondo intero a cercare tutto ciò che promuove l'unità della famiglia umana. Dio vi benedica tutti!


    [© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]





    Il Papa a Nazareth: lo Stato sostenga l'insostituibile missione della famiglia nella società. In 45 mila alla Messa


    Nello splendido scenario del Monte del Precipizio a Nazareth, che si apre ad anfiteatro sulle colline della Galilea, il Papa ha presieduto stamani la Messa per la conclusione dell’Anno della Famiglia indetto dalla Chiesa cattolica in Terra Santa. Oltre 45 mila i fedeli presenti. Al termine del rito la benedizione delle Prime pietre del Centro internazionale della Famiglia, del Parco memoriale Giovanni Paolo II e della University of Pope Benedict XVI. Nella sua omelia ha ribadito che la famiglia ha una “missione insostituibile nella società” che va sostenuta dallo Stato. Qui a Nazareth – ha detto – “sull’esempio di Maria, di Giuseppe e di Gesù, possiamo giungere ad apprezzare ancor di più la santità della famiglia, che, nel piano di Dio, si basa sulla fedeltà per la vita intera di un uomo e di una donna, consacrata dal patto coniugale ed aperta al dono di Dio di nuove vite. Quanto hanno bisogno gli uomini e le donne del nostro tempo di riappropriarsi di questa verità fondamentale, che è alla base della società, e quanto importante è la testimonianza di coppie sposate in ordine alla formazione di coscienze mature e alla costruzione della civiltà dell’amore!”. Il Papa parlando di Maria ha ribadito “il dovere di riconoscere e rispettare dignità e missione” delle donne. Riferendosi a Giuseppe ha sottolineato “come l’autorità posta al servizio dell’amore sia infinitamente più feconda del potere che cerca di dominare”. Riguardo alla vita familiare di Gesù ha invece notato come “i bambini hanno un ruolo speciale nel far crescere i loro genitori nella santità”. In merito alle passate tensioni tra cristiani e musulmani a Nazareth ha detto queste parole: “Ognuno respinga il potere distruttivo dell’odio e del pregiudizio, che uccidono l’anima umana prima ancora che il corpo!”.





    Il Papa a Nazareth: lo Stato sostenga la missione insostituibile della famiglia. Appello a respingere il potere distruttivo dell'odio


    Nello splendido scenario del Monte del Precipizio a Nazareth, che si apre ad anfiteatro sulle colline della Galilea, il Papa ha presieduto stamani la Messa per la conclusione dell’Anno della Famiglia indetto dalla Chiesa cattolica in Terra Santa. Oltre 45 mila i fedeli presenti. Nella sua omelia Benedetto XVI ha ribadito che la famiglia ha una “missione insostituibile nella società” che va sostenuta dallo Stato. Poi, in merito alle passate tensioni tra cristiani e musulmani a Nazareth, ha invitato a respingere "il potere distruttivo dell’odio e del pregiudizio”. Linea al nostro inviato Roberto Piermarini:

    (Canti ed effetto folla)


    Con un entusiasmo travolgente e in un clima di festa e di allegria, 45 mila fedeli hanno accolto in Galilea Benedetto XVI per la Messa sulla Spianata del Monte del Precipizio a Nazareth, la più grande città araba d’Israele e con il maggior numero di cattolici di tutta la Terra Santa. Adagiata tra le colline della Galilea che la circondano e la proteggono, è qui che la Vergine Maria ha ricevuto l’annuncio dell’Angelo, è qui che ha vissuto Gesù nella famiglia di Nazareth. Una celebrazione – alla presenza di 40 vescovi e 250 concelebranti - che ha concluso l’Anno per la famiglia, indetto dalla Chiesa di Terra Santa. Nella sua omelia Benedetto XVI ha esaltato la santità della famiglia cristiana che nel piano di Dio, si basa sulla fedeltà per la vita intera di un uomo e di una donna, consacrata dal patto coniugale ed aperta al dono di Dio di nuove vite. “Il mondo ha bisogno di riappropriarsi di questa verità – ha detto il Papa – per la costruzione della civiltà dell’amore. La famiglia infatti è il primo mattone della costruzione di una società ben ordinata ed accogliente, per questo lo Stato è chiamato a sostenerla nella sua missione educatrice. Così la famiglia fondata sull’amore diventa una ‘Chiesa domestica’, luogo di fede, di preghiera e di preoccupazione amorevole per il bene vero e durevole di ciascuno dei propri membri”. E qui il Papa ha ricordato il ruolo fondamentale delle madri, dei padri e dei figli, innanzitutto guardando a Maria:


    “Nazareth reminds us of our need to acknowledge...
    Nazareth ci ricorda il dovere di riconoscere e rispettare dignità e missione concesse da Dio alle donne, come pure i loro particolari carismi e talenti: sia come madri di famiglia che come chiamate ad una vocazione religiosa. Le donne hanno un ruolo indispensabile nel creare un ambiente in cui i bambini imparino ad amare e ad apprezzare gli altri, ad essere onesti e rispettosi verso tutti, a praticare la virtù della misericordia e del perdono”.


    In Giuseppe, l’uomo giusto che Dio pose a capo della sua casa, Gesù imparò le virtù della pietà virile, della fedeltà alla parola data, dell’integrità e del duro lavoro e potè vedere in lui come l’autorità posta al servizio dell’amore, sia infinitamente più feconda del potere che cerca di dominare.


    “How much our world needs the example...
    Quanto ha bisogno il nostro mondo dell’esempio, della guida e della calma forza di uomini come Giuseppe!”.


    E sull’esempio di Gesù, il Papa ha invitato i giovani non soltanto a mostrare rispetto ai genitori ma anche ad aiutarli a scoprire più pienamente l’amore che dà alla nostra vita il senso completo.

    “In the Holy Family of Nazareth....
    Nella Sacra Famiglia di Nazareth fu Gesù ad insegnare a Maria e Giuseppe qualcosa della grandezza dell’amore di Dio, suo celeste Padre, la sorgente ultima di ogni amore”.


    Nella sua omelia Benedetto XVI ha ricordato anche le tensioni degli anni scorsi a Nazareth, tra cristiani a musulmani, a causa del progetto di costruire una moschea a ridosso della Basilica della Natività ed ha invitato le due comunità ad adoperarsi per edificare ponti e trovare modi per una pacifica coesistenza. “Ognuno – ha detto – respinga il potere distruttivo dell’odio e del pregiudizio, che uccidono l’anima umana prima ancora che il corpo!”. Al termine, il ringraziamento del Papa per gli sforzi della chiesa nelle istituzioni caritative e nelle scuole. “Scuole – ha detto nel suo indirizzo di saluto, il vescovo greco-melkita per la Galilea mons. Elias Chacour, che “sono la prima priorità per la Chiesa perchè sono lo strumento per diffondere il messaggio di Gesù e la riconciliazione. Lottiamo per la loro sopravvivenza – ha detto - facendo grandi sacrifici, ma andiamo avanti”.


    (Parole in arabo)


    Il presule ha parlato anche del doloroso fenomeno dell’esodo all’estero dei cristiani e del dramma degli sfollati di alcuni villaggi della Galilea espropriati da Israele, che chiedono di ritornare nelle proprie case ed ha denunciato le grandi difficoltà e pericoli che minacciano la presenza della Chiesa in Terra Santa. Al termine della Messa il Papa ha benedetto le prime pietre di tre istituzioni: il Centro Internazionale per la Famiglia che sorgerà a Nazareth; la prima Università araba cristiana di Terra Santa che sarà intitolata a Benedetto XVI e il “Parco Memoriale Giovanni Paolo II”, voluto e realizzato dal governo israeliano sul Monte delle Beatitudini, sullo stesso luogo dove nel 2000 il Pontefice celebrò l’Eucarestia.


    (Canto)





    L'incontro con i capi religiosi. Il Papa: salvaguardare i bambini da fanatismo e violenza


    Nel pomeriggio il Papa, dopo l’incontro col premier israeliano Netanyahu presso il Convento dei francescani di Nazareth, si è recato nel Santuario dell’Annunciazione per un saluto ai capi religiosi della Galilea, in rappresentanza di cristiani, musulmani, ebrei e drusi. “Al cuore di ogni tradizione religiosa – ha detto il Pontefice - c’è la convinzione che la pace stessa è un dono di Dio, anche se non può essere raggiunta senza lo sforzo umano. Una pace durevole proviene dal riconoscimento che il mondo non è ultimamente nostra proprietà, ma piuttosto l'orizzonte entro il quale noi siamo invitati a partecipare all'amore di Dio e a cooperare nel guidare il mondo e la storia sotto la sua ispirazione. Non possiamo fare con il mondo tutto quello che ci piace; anzi, siamo chiamati a conformare le nostre scelte alle complesse e tuttavia percettibili leggi scritte dal Creatore nell'universo e a modellare le nostre azioni secondo la bontà divina che pervade il regno del creato”. Quindi ha aggiunto: “I Cristiani volentieri si uniscono ad Ebrei, Musulmani, Drusi e persone di altre religioni nel desiderio di salvaguardare i bambini dal fanatismo e dalla violenza, mentre li preparano ad essere costruttori di un mondo migliore”.





    Commento da Nazareth: cristiani in sofferenza ma la visita del Papa aiuterà moltissimo


    Sulla Messa di questa mattina ascoltiamo il commento di don Rino Rossi, direttore della Domus Galilaeae, il Centro internazionale gestito dal Cammino neocatecumenale nei pressi del Lago di Tiberiade. Fabio Colagrande lo ha raggiunto telefonicamente a Nazareth subito dopo la fine della celebrazione:

    R. – E’ stato un evento molto importante per la Chiesa che è presente soprattutto qui, in Galilea, perché la maggior parte dei cristiani si trovano qui, in Galilea. Alla Messa erano presenti i cattolici dei vari riti e poi i fratelli ortodossi, anglicani… E’ stato veramente un momento ecclesiale molto, molto importante. Noi anche abbiamo voluto accompagnare il pellegrinaggio del Santo Padre, come abbiamo fatto nel 2000, con 8 mila giovani provenienti da tutta Europa. E’ stato davvero uno spettacolo, in questi giorni, perché abbiamo potuto – d’accordo con i vescovi, con i parroci – avere degli incontri in tutte le parrocchie. Ci hanno accolto benissimo i parroci, i viceparroci, i fedeli. Abbiamo fatto un incontro di preparazione per questa Eucaristia, abbiamo messo in comune la nostra fede, la nostra esperienza, i giovani hanno dato la loro testimonianza, hanno cantato, sono state delle cose bellissime! E la cosa anche più bella è che in alcune parrocchie ortodosse ci hanno accolto, si è fatto lo stesso incontro, anche nelle parrocchie anglicane … siamo andati negli ospedali, siamo andati anche nei collegi, con i giovani … E’ stato un momento bellissimo culminato con questa Eucaristia.

    D. – Don Rino, quali sono le difficoltà delle comunità cristiane in Galilea e quanto il Papa ha potuto incoraggiare proprio queste comunità?

    R. – Il fatto che i cristiani, come sapete, sono una minoranza ... io vedo che c’è una sofferenza, soprattutto nelle zone dell’Autonomia palestinese. Però, qui in Galilea io penso che ci sia un atteggiamento più tranquillo, c’è – secondo me – una migliore collaborazione, sia con i musulmani e anche con gli ebrei. L’ambiente è molto più sereno in tutta la Galilea del Nord. In questo senso penso che le cose stiano andando meglio. Senz’altro, la visita del Papa ha portato anche un’aria di pacificazione, aiuterà moltissimo: perché egli ha potuto incontrare le autorità ebraiche e anche le autorità musulmane; ha cercato di creare questi ponti di comunione che senz’altro nel tempo daranno frutto.





    Twal: è possibile abbattere i muri nei cuori. Pizzaballa: importante l'incontro del Papa con Netanyahu


    Sulla visita al Campo profughi di Aida, il nostro inviato Roberto Piermarini ha sentito il commento del patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal:

    R. – Mi è piaciuto prima di tutto il discorso del Santo Padre, perchè è andato al cuore dei bisogni, in modo speciale alla reintegrazione, alla riunificazione delle famiglie, dando speranza ai giovani che desiderano creare una famiglia, avere una casa e poter vivere insieme, sia a Gerusalemme, sia a Ramallah. Tutti devono sapere che la Chiesa è sempre stata accanto agli oppressi, ai poveri e a quelli che soffrono. E là francamente c’è gente che soffre. I discorsi sono stati ben preparati dalle persone e hanno toccato tutti gli argomenti, sia la separazione delle famiglie, sia la questione dei prigionieri: noi abbiamo 12 mila prigionieri in Israele. Abbiamo il più vecchio prigioniero nel mondo, che sta dentro da 32 anni ed il più giovane nel mondo, in carcere da due mesi, perché una donna ha partorito lì. E’ una ferita nel cuore della Terra Santa. Noi saremo più felici se tutti godranno della libertà di movimento.


    D. – La visita ad Haida si è svolta praticamente a ridosso del muro di separazione. Il Papa ha detto che bisogna abbattere i muri nei nostri cuori. E’ difficile in questa terra abbattere questi muri?


    R. – Non deve mai essere difficile. Niente è impossibile a Dio. Manca solamente la buona volontà umana. D’altronde, questo muro che vediamo non è che la realizzazione di questi altri muri nei cuori, muri di odio, di sfiducia, di paura. Tutto ciò è stato messo in pratica con un muro che è visibile, ma ci sono tanti altri muri invisibili. Dobbiamo cominciare con il cuore umano. Il Santo Padre lo ha detto molto, molto bene con questa frase.


    E sulla giornata di ieri a Betlemme ascoltiamo il custode di Terra Santa, il padre francescano Pierbattista Pizzaballa, al microfono di Roberto Piermarini:

    R. – E’ stata una bellissima giornata: la Messa è stata molto bella, molto partecipata, molto viva, che ha portato un’iniezione di fiducia, di entusiasmo ai cristiani di Betlemme. Gli incontri politici sono stati di alto livello e di contenuto, ma anche molto sereni. Quindi, non c’era, grazie a Dio, quella dose forte di rancore, che spesso si può avere. E così anche l’incontro ad Aida, vicino al muro, un luogo drammatico, dove la ferita dentro la geografia, la storia, la vita dei palestinesi è così evidente, è stato fatto dicendo le cose con molta chiarezza, sia da parte dei palestinesi, come anche del Santo Padre, però sempre con una dose di coraggio e di incoraggiamento e di serenità, senza erigere barriere psicologiche. Questo è stato un aspetto, penso, molto positivo, e credo che sia un esempio di come si possano dire le cose, senza chiudere la porta in faccia a nessuno.


    D. – Tra poco ci sarà l’incontro con il premier Netanyahu. C’è molta attesa qui in Terra Santa, soprattutto nella Chiesa di Terra Santa. Che cosa chiede questa Chiesa?


    R. – L’incontro con il primo ministro è importante, perché non sarà solo un incontro di cortesia, come è giusto che sia, ma anche operativo, nel senso che si dovranno mettere sul tavolo alcuni problemi. Adesso non si può anticipare troppo, ma penso che i problemi siano noti: c’è la trattativa, c’è la questione dei visti per i religiosi, ci sono anche molte famiglie che hanno bisogno di essere riunificate e così via. Sono problemi concreti, specifici che penso usciranno fuori. Non ci attendiamo risposte definitive, ma almeno un rafforzamento e una spinta nel trovare una soluzione.





    Domani il Papa al Santo Sepolcro: intervista con padre Manns


    Domani il Papa concluderà il suo pellegrinaggio in Terra Santa iniziato l’8 maggio ad Amman. La visita al Santo Sepolcro a Gerusalemme sarà il momento centrale della giornata che terminerà con la cerimonia di congedo a Tel Aviv alle 12.30, ora italiana. Del Santo Sepolcro ci parla padre Frederick Manns, storico della Custodia di Terra Santa. Roberto Piermarini gli ha chiesto se è davvero sicuro che Gesù sia stato sepolto in questo luogo:

    R. - Molti pellegrini fanno la Via Crucis che finisce al Santo Sepolcro e si può dire che, di tutte le stazioni della Via Crucis, l’unica assolutamente sicura, al cento per cento, è il Calvario, il “luogo della sepoltura”. Dico bene, il luogo della sepoltura, perché la tomba fu distrutta e questo divenne il motivo della prima crociata. Il luogo rimane ed è assolutamente sicuro. Ormai gli scavi hanno permesso di vedere una grande spaccatura in questa roccia. Quando Gesù morì, infatti, ci fu il grande terremoto. Anche se adesso si trova all’interno delle mura, all’epoca di Gesù era fuori delle mura ed era il grande cimitero. I cimiteri erano sempre fuori ma il terzo muro fu aggiunto soltanto dopo la morte di Cristo.


    D. – Padre Manns, qual è il significato teologico del Santo Sepolcro?


    R. – Noi sappiamo che gli ebrei avevano una tradizione bellissima legata al Tempio di Gerusalemme; dicevano che Adamo era stato creato con la polvere dell’altare del Tempio. Dio sapeva che Adamo sarebbe stato peccatore e che, portando sacrifici sull’altare, avrebbe avuto il perdono dei suoi peccati. Quando il Tempio è stato distrutto, nel 70 d.C., i primi cristiani – che in gran parte erano giudeo cristiani, ebrei messianici che credevano in Gesù, lo riconoscevano come Messia di Israele - hanno ripreso questa tradizione della creazione di Adamo e hanno scavato addirittura una piccola grotticella sotto il calvario per dire: “Ecco la tomba di Adamo”. Volevano soltanto illustrare l’idea teologica che Cristo è il nuovo Adamo, e che il sangue di Cristo doveva passare attraverso la spaccatura della roccia ed arrivare sul cranio di Adamo. Per questo, l’iconografia rappresenta anche il Calvario con il cranio di Adamo sotto. Cristo che ricrea tutta l’umanità ed il Vangelo di Giovanni lo dice in modo meraviglioso: “Sotto la croce di Cristo c’erano quattro pagani, quattro soldati che si sono divisi le vesti di Gesù e c’erano quattro donne ebree. Quindi, la salvezza portata a Cristo, vale per i pagani, i romani, e per gli ebrei, per gli uomini e per le donne. La salvezza è universale, Cristo nuovo Adamo, porta la creazione nuova a tutta l’umanità.


    D. – La Basilica è retta dai francescani di Terra Santa, ortodossi ed armeni; ma come mai, è una famiglia musulmana che ogni mattina ne apre il portone?


    R. – Il sultano voleva dare la chiave del Santo Sepolcro al console di Francia ma il console rispose: “Io non sono il sacrestano”. Allora il sultano si arrabbiò e la diede ad una famiglia musulmana e fino ad oggi bisogna pagare questa famiglia musulmana. Sono le meraviglie dell’Oriente! (Montaggio a cura di Maria Brigini)






    Il Papa in Terra Santa parla a tutti e a nome di tutti
    di padre Thomas D. Williams, LC


    GERUSALEMME, giovedì, 14 maggio 2009 (ZENIT.org).- Benedetto XVI ha lasciato Gerusalemme per recarsi a Betlemme questo mercoledì mattina, tra le continue cavillosità dei commentatori locali. Non ho potuto fare a meno di levare il mio cuore a Dio, grato per questo gentile Papa tedesco. Ho capito quanto sia unica la sua missione in questa terra lacerata che vede continui battibecchi su tutto, dalla terra alle minuzie dottrinali.

    Il fatto è che il Santo Padre non è venuto in Terra Santa per avere un ruolo politico, nemmeno per il suo “partito” personale. Non è venuto semplicemente come rappresentante della Chiesa cattolica, ma a nome di ogni persona coinvolta, a nome dell'umanità stessa.

    Benedetto XVI parla a nome degli ebrei, lodando la loro eredità religiosa e difendendo il loro diritto alla sicurezza e all'autogoverno. Parla a nome dei palestinesi e del loro diritto alla sovranità e alla libertà. Parla a nome dei musulmani richiamandoli al meglio della loro tradizione, con le profonde convinzioni religiose e il culto sentito nei confronti dell'unico Dio. Parla per i cristiani, nel loro difficile status di minoranza esigua e sofferente. In poche parole, parla a tutti e a nome di tutti.

    E' questo l'aspetto singolare della voce e del messaggio del Papa. Paradossalmente, tra tutte le manipolazioni del messaggio di Benedetto XVI e tra tutte le lamentele per il fatto di non sostenere sufficientemente alcun gruppo, vediamo la grandezza e l'unicità della sua presenza qui. Nessun altro leader del mondo può parlare con la stessa autorità morale o con la sua autentica imparzialità. Il suo rifiuto di giocare un ruolo politico è la ragione per la quale il suo messaggio è spesso respinto, e anche il motivo per cui questo è così disperatamente importante.

    Tra coloro che hanno sollevato il maggior clamore per la presunta assenza di rimorso da parte di Benedetto XVI nei confronti della Shoah c'è il rabbino Ysrael Meir Lau, presidente del Memoriale dello Yad Vashem, che ha criticato il discorso del Papa perché “privo di ogni compassione, di ogni rimorso, di ogni dolore per la terribile tragedia dei sei milioni di vittime”. Se vi capita di guardare le trasmissioni, Lau è la persona che stava alla destra del Papa con un atteggiamento tale da far pensare che avesse appena mangiato qualcosa che il suo stomaco trovava particolarmente indigesto.

    Il rabbino Lau non è nuovo alle critiche contro il papato. E' stato anche un instancabile denigratore di Papa Pio XII, anche quando questo significava distorcere la verità. Durante le commemorazioni del 1998 a Berlino per il 60° anniversario della Notte dei Cristalli – il 9 novembre 1938, evento che ha aperto l'era delle persecuzioni contro gli ebrei in Germania –, Lau, allora rabbino capo di Israele, è stato invitato a parlare.

    Durante il suo discorso appassionato, ha formulato la domanda incriminante: “Pio XII, dov'eri? Perché sei rimasto in silenzio riguardo alla Notte dei Cristalli?”. Il giorno successivo, due giornali italiani riportavano quella domanda come titolo, con questo catenaccio: “Il vergognoso silenzio di Pio XII”. L'unico problema è che Pio XII non è stato eletto fino al marzo 1939, quattro mesi dopo la Notte dei Cristalli, ma non ho ancora visto il rabbino Lau affrettarsi ad esprimere rimorso per la sua diffamazione di Papa Pio XII.

    Mentre mi recavo in Israele, ho avuto l'occasione di rileggere l'autobiografia di Benedetto XVI, "Memorie 1927-1977". Sono rimasto ancora una volta colpito da come la sua infanzia sia stata brutalmente interrotta dall'ascesa al potere di Hitler, e da come tanti tedeschi di buona volontà siano stati ingiustamente accusati di nazismo. Se bisogna credere alle critiche contro il Papa, chiunque sia vissuto in Germania negli anni Trenta e Quaranta è necessariamente colpevole di connivenza.

    Fortunatamente, alcune autorevoli voci ebraiche stanno iniziando ad essere ascoltate a Gerusalemme quando chiedono ai critici di lasciare in pace il Papa. Ad esempio, Noah Frug, leader del Consorzio delle Organizzazioni dei Sopravvissuti all'Olocausto in Israele, ha affermato che le critiche contro il Papa sono esagerate. “E' venuto qui per avvicinare la Chiesa e l'ebraismo, e dovremmo considerare la sua visita positiva e importante”, ha dichiarato.

    Questo mercoledì l'attenzione si è spostata su Betlemme, la Città di Davide e il luogo di nascita di Gesù, ma anche parte dei Territori palestinesi. Arrivando a Betlemme, Benedetto XVI ha espresso subito la propria sentita solidarietà con i palestinesi sofferenti, e ha ribadito la posizione della Santa Sede circa il loro diritto alla sovranità. “Signor Presidente, la Santa Sede appoggia il diritto del Suo popolo ad una sovrana patria Palestinese nella terra dei vostri antenati, sicura e in pace con i suoi vicini, entro confini internazionalmente riconosciuti”, ha detto.

    In teoria questo non dovrebbe provocare alcun disaccordo, visto che la posizione ufficiale dello Stato di Israele coincide con quella della Santa Sede. Anche Israele sostiene il diritto dei palestinesi a una patria sovrana, se questa soluzione potesse essere realizzata senza detrimento per la sicurezza israeliana. Ovviamente il punto è proprio questo.

    Qui in Terra Santa ho parlato con molte persone di vari background, e l'unica cosa che sembrano avere in comune è la sofferenza. Ognuno mi voleva parlare delle difficoltà e delle ingiustizie che subisce, a livello personale o storico. Ognuno aveva una storia di dolore da raccontare. Nessuno sembra ricordare di aver mai commesso ingiustizie, ma tutti ricordano di averle subite. E non posso fare a meno di chiedermi, in una terra di tanto dolore, una terra la cui gente si fregia del fatto di “ricordare”, se a volte il perdono non sia una virtù ancor più necessaria.

    A Betlemme Benedetto XVI ha chiesto ai cristiani di essere “un ponte di dialogo e di collaborazione costruttiva nell’edificare una cultura di pace che superi l’attuale stallo della paura, dell’aggressione e della frustrazione”. E' ciò che egli stesso cerca di essere – con la sua presenza, le sue parole e la sua determinazione paziente a predicare costantemente la Buona Novella “in ogni occasione opportuna e non opportuna” (2 Tim 4:2).



    ----------

    *Padre Thomas D. Williams, Legionario di Cristo, è un teologo statunitense che vive a Roma. Attualmente sta seguedo per la CBS News la storica visita di Benedetto XVI in Terra Santa. Per l'occasione ha deciso di scivere una cronaca del viaggio anche per ZENIT.


    [Traduzione dall'inglese di Roberta Sciamplicotti]





    Il sindaco di Betlemme: la visita del Papa aiuterà la pace
    Spera almeno che freni l'esodo dei cristiani

    di Mercedes de la Torre


    BETLEMME, giovedì, 14 maggio 2009 (ZENIT.org).- Per il sindaco di Betlemme, la visita di questo mercoledì di Benedetto XVI nella sua città può dare un impulso alla pace e fermare l'esodo dei cristiani dalla Terra Santa.

    In alcune dichiarazioni a ZENIT dopo la Messa che il Papa ha presieduto nella Piazza della Mangiatoia, Victor Batarseh ha affermato: “Come fratelli e sorelle di Betlemme, speriamo che questa visita porti pace e amore a tutto il popolo”.

    Batarseh, sindaco dal 2005 della città in cui nacque Gesù e medico in pensione di religione cattolica, è stato eletto come candidato del blocco Fratellanza e Sviluppo di Betlemme.

    Circa la visita papale, spera che “incoraggi i cristiani palestinesi ad essere fedeli alla loro terra e li esorti a restare”.

    La “Radio Vaticana” ha spiegato questo mercoledì che “in passato i cristiani a Betlemme rappresentavano l’80% della popolazione, ora sono poco più del 15-20% ed emigrano per la precarietà del lavoro, per l’instabilità politica nella regione e per le minacce dell’integralismo islamico”.

    Il sindaco ha confessato a ZENIT di aver regalato come gesto di gratitudine al Papa un Vangelo di San Luca in arabo, scritto a mano con colori biologici.


    [Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]




    Benedetto XVI vede in Betlemme una stella di speranza
    Riflessione di padre Caesar Atuire sulle parole e sui gesti papali

    di Mercedes de la Torre


    BETLEMME giovedì, 14 maggio 2009 (ZENIT.org).- La visita di Benedetto XVI a Betlemme ha avuto l'obiettivo principale di dare speranza alla popolazione, spiega padre Caesar Atuire, amministratore delegato dell'Opera Romana Pellegrinaggi, istituzione dipendente dalla Santa Sede.

    Il sacerdote constata che la città in cui nacque Gesù “ha vissuto questa giornata come se fosse il giorno di Natale”, e infatti nella Messa che il Papa ha celebrato nella Piazza della Mangiatoia si sono ascoltati canti natalizi.

    “Vedendo la gente che è qui, ascoltando i suoi canti, ci rendiamo conto che oggi il Papa ha portato in questa terra un messaggio di pace, un messaggio di gioia, per incoraggiare questo popolo che vive con tante contraddizioni”, ha spiegato il presbitero, che promuove pellegrinaggi da tutto il mondo in questa terra.

    “Il Papa ha ricordato ciò che dice il Vangelo di San Luca, cioè che Gesù sarebbe stato un segno di contraddizione. Anche oggi la realtà di Betlemme è un segno di contraddizione, ma non può essere segno di contraddizione senza speranza. Ciò che il Papa ha detto, quindi, è che il messaggio di Gesù può essere una speranza per la pace e per il futuro di questo popolo”, ha osservato.

    Padre Atuire, che accompagna il Vescovo di Roma nel suo viaggio in Terra Santa, si è sentito particolarmente toccato dalle parole che il Pontefice ha rivolto a tutte le persone che hanno subito i bombardamenti su Gaza a gennaio.

    “Il Santo Padre ha offerto la sua solidarietà a tutte le persone che sono state vittime di quel conflitto, e per questo dopo la Messa si è intrattenuto a salutare una delegazione giunta da Gaza per partecipare a questa celebrazione eucaristica”, ha ricordato.

    Il sacerdote ha inserito in questo contesto anche la visita del Papa all'Aida Refugee Camp, mercoledì pomeriggio.

    “I campi di rifugiati sono un ricordo della sofferenza di questo popolo, che a causa del conflitto tra israeliani e palestinesi vive nei campi senza alcuna speranza e senza terra”, ha dichiarato.

    “Facendogli visita, il Papa sta dando un messaggio di speranza”, una speranza, osserva, che passa per il riconoscimento dei giusti diritti del popolo palestinese.

    Per questo motivo, venendo ricevuto dal Presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas, il Papa ha chiesto di lavorare per arrivare alla soluzione di due Stati e due Nazioni, Israele e Palestina.

    In questo modo, ha affermato padre Atuire, “il popolo della Palestina potrà raggiungere quella sovranità necessaria per mettere in pratica progetti di sviluppo, giustizia e pace per tutto il popolo di questo territorio”.

    [Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]



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    La teologia del professor Ratzinger fa di B-XVI il Papa più vicino agli ebrei

    di Giorgio Israel, IL FOGLIO, 13.5.09

    Esiste un tratto che accomuna Pontefici ed ebrei nelle vedute di certi ambienti: entrambi vengono preferiti quando sono defunti. In occasione della mancata visita di Benedetto XVI all'università La Sapienza il coro di questi ambienti fu: "Giovanni Paolo II non l'avrebbe mai fatto! Lui sì che era tollerante, aperto e difensore di Galileo". Dimenticavano l'astio che essi stessi avevano riservato al Papa intransigente anticomunista e ostile alla teologia "progressista".
    Né ha senso contrapporre le azioni dell'attuale Papa ai gesti straordinari del precedente, come la visita alla Sinagoga di Roma. Quei gesti hanno avuto un ruolo fondamentale, ma per vincere incomprensioni e intolleranza occorre anche affrontare di petto le questioni dottrinarie e teologiche che ne sono alla base. Non mi stancherò di ripetere che il documento del 2001 "Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana" (opera precipua del cardinale Ratzinger) è stato un contributo cruciale in tal senso perché ha riletto una serie di passaggi delicati dei Vangeli in modo da eliminarne ogni interpretazione in senso antiebraico. Per Ratzinger il rapporto tra cristianesimo ed ebraismo è costitutivo del cristianesimo stesso: "Il congedo dei cristiani dall'Antico Testamento avrebbe la conseguenza di dissolvere lo stesso cristianesimo".
    Di natura diversa è il rapporto con l'islam con cui non esiste una relazione speciale e s'impone invece la dimensione del dialogo. Ciò era evidente nel discorso di Ratisbona che indicava la sintesi tra spiritualismo ebraico-cristiano e razionalismo ellenico come radice della civiltà europea. Certamente Benedetto XVI è un Papa che crede profondamente nei principi della tradizione e per cui il dialogo non è sincretismo: "Non riluttante e non ambiguo", l'ha definito ieri.
    Ciò non poteva non condurre a difficoltà e conflitti.
    Peraltro ha pochi titoli a muovere rimproveri chi, in altri contesti religiosi, persegue un ripristino dell'ortodossia anche più rigoroso.
    Dopo l'incidente con l'islam dovuto al discorso di Ratisbona e quello con ambienti ebraici per il ripristino della messa tridentina e della preghiera del Venerdì santo per la salvezza degli ebrei, Benedetto XVI ne ha fronteggiato uno assai grave con le manifestazioni di negazionismo del vescovo lefebvriano Williamson.
    E' stato un periodo difficile che il Papa da solo ha risolto con dichiarazioni nette contro il negazionismo e con una memorabile lettera in cui ha aperto il suo animo in modo talmente chiaro da spianare la strada a questo viaggio di cui ci vorrà tempo per comprendere le implicazioni e gli effetti. La prima impressione superficiale è che esso si svolga in un clima ecumenico, di esaltazione di ciò che unisce le tre religioni al fine di realizzare la convivenza pacifica tra i popoli. A Gerusalemme - ha detto Benedetto XVI - ebrei, cristiani e musulmani sono chiamati "ad assumersi il dovere e a godere del privilegio di dare insieme testimonianza della pacifica coesistenza a lungo desiderata dagli adoratori dell'unico Dio". Ai musulmani ha offerto una porta aperta al dialogo che è stata apprezzata dai moderati, come il rettore della moschea di Parigi Boubaker. Agli ebrei ha offerto dichiarazioni inequivocabili contro il negazionismo e ha ribadito la relazione speciale che intercorre tra le due fedi indicando la necessità di spazzare via una volta per tutte i detriti dell'antigiudaismo cristiano. Dietro ai toni universalistici si vede in filigrana la dottrina di Ratzinger. Appare sempre chiara l'idea della speciale natura dei rapporti tra cristianesimo ed ebraismo. La ricchezza di citazioni dall'Antico Testamento, il riferimento al Dio di Abramo. Isacco e Giacobbe nella preghiera al Muro del pianto, la lettura di due salmi assieme a un rabbino, offrono !'immagine di tale particolarità. Non è mancata la riproposizione dell'idea ratzingeriana che la fede non può essere disgiunta dalla ragione e, in tal senso, ha un ruolo da giocare nella sfera pubblica. Con grande finezza intellettuale, è stato il presidente israeliano Peres a mettersi sulla lunghezza d'onda del Papa. Non a caso gli ha rivolto in latino una frase densa di significati: "Ave Benedicti, princeps fidelium". E ha riproposto il tema del ruolo della religione nella sfera pubblica, affermando: "Tutti noi ebrei, cristiani e musulmani, popoli di fede riconosciamo che la sfida di oggi non è la separazione della religione dallo stato ma la separazione senza compromessi della religione dalla violenza". L’affermazione che la religione non deve - più farsi agente di violenza è un tema centrale di questo viaggio. Il Papa ha proscritto tutti gli integralismi e ha condannato in modo trasparente gli attentati suicidi. Aprirà tutto ciò la strada all'esito che "si smuovano i cuori" per camminare "umilmente nel sentiero di giustizia e di compassione" e verso la pace tra israeliani e palestinesi? Purtroppo c'è da dubitarne. Ne sono prova certe accanite manifestazioni di intolleranza come quella del rappresentante musulmano che si è lanciato in una violenta arringa contro Israele nel corso della visita all'Auditorium del Jerusalem Center o le espressioni tutt'altro che accomodanti del Mufti di Gerusalemme. Desideri e realtà appaiono ancora muoversi su sentieri molto lontani.

    © Copyright Il Foglio, 13 maggio 2009


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    Il successore di Pietro invoca su Betlemme la luce francescana

    Da Betlemme

    Giacomo Galeazzi*

    Benedetto XVI lascia la sua indelebile traccia di pace nella storia del Medio Oriente.
    Il momento più atteso arriva quando, durante l'omelia, il Pontefice si rivolge "in maniera speciale ai pellegrini provenienti dalla martoriata Gaza a motivo della guerra" (appena 48 i permessi concessi dal governo Netanyahu) e chiede a Israele di "togliere presto l'embargo" seguito alla vittoria elettorale di Hamas. Benedetto XVI punta sul ruolo pacificatore dei cristiani: “Edificate le chiese facendone laboratori di dialogo, solidarietà, carità pratica". I Territori necessitano di "strutture economiche e politiche, ma anche di una nuova infrastruttura spirituale per la promozione del bene comune. Non abbiate paura". La kefiah, il copricapo quadrettato simbolo delle ambizioni nazionali palestinesi, è il dono simbolicamente più forte degli arabi-cristiani dei Territori (Cisgiordania e Striscia) dalle cui file erano emerse tracce di malumore alla vigilia del viaggio per due ragioni: il programma, ritenuto sbilanciato in favore d'Israele, e il "sangue recente" delle 1300 vittime di "Piombo fuso".
    La cittadina della Natività è stata ripulita e decorata con bandiere nazionali e poster di benvenuto, dove l'immagine del Papa è accompagnata da messaggi di saluto in arabo. Nelle librerie lungo la via dedicata a Paolo VI ampio spazio è riservato a un rapporto fresco di stampa ( a cura del centro di ricerche Diyar) che fa il punto sul peso dei cristiani in territorio palestinese: con 261 organizzazioni umanitarie (il 45% del totale), 76 scuole e un'università (aperte a oltre 33.000 studenti), oltre un centinaio fra istituzioni mediche e di assistenza; e un calo demografico dovuto non già alle pressioni della maggioranza musulmana ma a problemi economici e instabilità politica. E’ saltato, per il "no" israeliano, il progetto di realizzare un palco a ridosso del Muro che corre vicino al campo profughi, il corteo papale è passato tuttavia a tiro di telecamere della controversa barriera. Il presidente dell'Anp, Abu Mazen è apparso sereno a dispetto delle fibrillazioni politiche interne. E del fatto che ieri fosse atteso dal conferimento di un nuovo incarico di governo al premier dimissionario, Salam Fayyad, con un atto destinato a rappresentare il sigillo al fallimento dei colloqui di riconciliazione interpalestinese mediati dall'Egitto tra Fatah (il partito moderato'di Abu Mazen) e Hamas, il movimento integralista al potere a Gaza. Sul fronte della sicurezza della visita papale, l'apparato dell'Anp (coordinato neppure tanto di nascosto con quello d'Israele) ha blindato Betlemme come mai prima d'ora. Minacce specifiche non se ne segnalavano, ma gruppetti di attivisti islamici radicali si erano fatti vivi martedì con volantini ostili al Papa. Una decina sono stati fermati proprio dalla polizia israeliana in varco di Gerusalemme est."Soffro per Gaza, basta con l'embargo e la tragedia del muro di divisione. No alla tentazione del terrorismo, sì ad uno stato palestinese sovrano". Anche se ora "sembra un obiettivo lontano", il Papa difende "il diritto del popolo palestinese ad una patria sovrana nella terra dei propri antenati". Dalla piazza della Mangiatoia, davanti a 10mila fedeli arrivati da Gerusalemme (definita da Abu Mazen "capitale eterna della Palestina"), da Gaza e da tutto il Medio Oriente malgrado gli ossessivi controlli per passare il Muro, Benedetto XVI chiede per i palestinesi uno Stato "sicuro, in pace con i suoi vicini, entro confini internazionalmente riconosciuti", perché "non c'è pace senza giustizia, né giustizia senza perdono”. Nel piazzale del palazzo presidenziale, il Papa indica "la via della riconciliazione contro le azioni sterili e lo stallo della paura", reclama che i "gravi problemi di sicurezza in Israele e nei Territori vengano presto alleggeriti così da permettere una maggiore libertà di movimento, per i contatti tra familiari e per l'accesso ai luoghi santi". I palestinesi, "come ogni altro popolo hanno un naturale diritto a sposarsi, formarsi una famiglia, avere accesso al lavoro, all'educazione, all'assistenza sanitaria". Poi, sul senso della sua presenza (ritenuta controproducente dalla comunità cristiana a soli tre mesi dall'operazione "Piombo fuso" a Gaza), chiarisce: "Il mio pellegrinaggio nelle terre della Bibbia non sarebbe stato completo senza una visita a Betlemme, città di Davide e luogo di nascita di Gesù". Impossibile venire in Terra Santa, spiega, senza abbracciare "quanti soffrono a causa di agitazioni decennali". Poi nel pomeriggio, la tappa al campo profughi di Aida per solidarizzare con "le famiglie rimaste senza casa" e ammonire che "una coesistenza giusta e pacifica fra i popoli del Medio Oriente è possibile solo con uno spirito di cooperazione e mutuo rispetto, in cui i diritti e la dignità di tutti siano riconosciuti e rispettati". I bambini del campo ballano per lui con in mano le chiavi, simbolo del desiderio di tornare nelle loro case e recitano poesie sul "dramma di chi ha perso tutto".
    Il capo negoziatore palestinese, Saeb Erekat ringrazia Benedetto XVI dell'"appello per la fine dell'occupazione dell'ingiustizia". Il Papa sprona la comunità internazionale a "usare la sua influenza" per una soluzione del conflitto israelo-palestinese, auspica che "proceda rapidamente il lavoro di ricostruzione di case, scuole od ospedali danneggiati o distrutti durante il recente conflitto in Gaza".
    E raccomanda ai palestinesi di "resistere alle tentazioni di violenza e terrorismo". All'ospedale pediatrico "Caritas", l'unico nei Territori, si commuove prendendo in braccio un neonato prematuro e ad Aida raccoglie il grido di dolore dei "rifugiati che, come la famiglia di Gesù, hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni". Poi, come temuto dalle autorità israeliane, critica "il muro che si introduce nei Territori, separando i vicini, dividendo le famiglie, nascondo molta parte di Betlemme". Con un monito: "Anche se i muri possono essere facilmente costruiti, non durano per sempre. Possono essere abbattuti. rimuovendo le barriere dei cuori". Stop, dunque, all'"intolleranza e all’esclusione", a favore di "una soluzione giusta che rispetti le legittime aspirazioni di israeliani e palestinesi". Benedetto XVI, mentre attraversa in papa-mobile la misera disperazione di Aida, stringe le mani ai "palestinesi senza casa, che bramano di poter tornare ai luoghi natii o di vivere in una patria propria". E ai giovani che lo acclamano indirizza parole accorate: "Ora vivete in condizioni precarie e difficili, con poche opportunità di occupazione. Vi sentite spesso frustrati e le vostre giuste aspirazioni ad una patria permanente, ad uno Stato Palestinese indipendente, restano incompiute. Vi sentite intrappolati in una spirale di violenza, di attacchi e contrattacchi, di vendette e di distruzioni continue". Perciò li esorta a "mettere fine alle perenni ostilità".
    Guardando il Muro che le autorità israeliane volevano escludere dalle inquadrature delle tv mondiali, scuote la testa e lo definisce l'emblema del "punto morto dei rapporti tra israeliani e palestinesi". Esprime profondo dolore: "In un mondo in cui le frontiere vengono sempre più aperte (al commercio, ai viaggi, alla mobilità della gente, agli scambi culturali) è tragico vedere che vengono tuttora eretti dei muri". Dopo "anni di vendette, perdite, ferimenti, scontri armati", serve "una soluzione politica sostenuta da ogni sforzo diplomatico". Quindi cita San Francesco: "Dove c’è odio io porti amore, dove l’offesa il perdono, dove la tenebra la luce”. E assicura: "Il Papa è con voi".

    Giornalista, vaticanista de ‘La Stampa’


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    14 maggio 2009

    «La stampa israeliana sbaglia: il Pontefice ha toccato i cuori»

    «Il viaggio sta andando molto bene, il Papa è venuto qui come pellegrino, non come un rappresentante politico e ha voluto abbracciare tutti i cristiani, i nostri fratelli ebrei, i nostri fratelli musulmani...».

    Il cardinale Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, per molti anni al servizio diplomatico della Santa Sede e poi Sostituto della Segreteria di Stato, è uno stretto collaboratore al seguito di Benedetto XVI. Il Giornale gli ha chiesto un bilancio della visita in Terrasanta.

    Perché il Papa ha invitato i cristiani a resistere, a non andarsene da qui, nonostante le difficoltà?

    «Perché la presenza cristiana è fondamentale per la Terrasanta. I luoghi storici della vita terrena di Gesù hanno bisogno di pietre vive, cioè di persone in carne ed ossa. Certamente oggi la situazione dei cristiani è difficile da vivere. Ma Benedetto XVI supplica le autorità di fare ogni sforzo per creare le condizioni che permettano loro di rimanere. La presenza cristiana contribuisce alla pace e alla convivenza».

    Le parole del Papa allo Yad Vashem sono state criticate dalla stampa israeliana che le ha considerate «tiepide» e insufficienti. È così?

    «Quello al memoriale della Shoah è stato un momento di grande commozione: ho visto piangere gli ebrei che erano seduti accanto a me, quando è stata letta le lettera ai due figli scritta da un padre che stava per essere trucidato nel lager. Benedetto XVI ha insistito molto sull’importanza della memoria: nel suo intervento ha detto che i nomi di ciascuna delle vittime dell’Olocausto rimarranno vivi. Ho trovato le sue parole tutt’altro che “tiepide”. Erano, al contrario, molto calde, partecipate, e al tempo stesso molto intime e pervase da un profondo rispetto e da una sincera compassione».

    C’è chi ha detto che il Papa ha perso un’occasione...

    «Non sono affatto d’accordo. Mi ha molto colpito che il Papa abbia iniziato e concluso il suo discorso con la parola “silenzio”. La preghiera silenziosa e la memoria sono l’atteggiamento umanamente più adeguato di fronte all’enormità di quanto è accaduto, di fronte allo straziante ricordo dei sopravvissuti. Non ci sono parole per esprimere il dolore. E bisogna ricordare per far sì che ciò che è avvenuto non possa mai più ripetersi».

    La sera dell’arrivo a Gerusalemme, durante l’incontro interreligioso al Notre Dame Center, lo sceicco al-Tamini ha attaccato duramente Israele. Che cosa ne pensa?

    «L’intervento dello sceicco non era previsto. Questo suo voler apparire, quelle parole dette con irruenza, hanno rischiato di rovinare l’incontro e hanno messo in imbarazzo il Papa e tutti noi, che non capivamo ciò che stava dicendo in arabo».

    Qual è il suo giudizio sui discorsi che il Papa ha fatto nella giornata trascorsa a Betlemme?

    «Benedetto XVI ha manifestato la sua vicinanza alle sofferenze del popolo palestinese. E ha ribadito l’auspicio che i popoli israeliano e palestinese abbiano entrambi una loro patria con confini riconosciuti e sicuri. Ha chiesto di porre fine alla spirale degli attentati e delle rappresaglie, ha invitato i giovani a non cedere alla tentazione del terrorismo».

    AnTor

    © Copyright Il Giornale, 14 maggio 2009


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    Il viaggio in Terrasanta Benedetto XVI a Betlemme ha affrontato i temi storici del conflitto che insanguina da decenni il Medio Oriente

    «I palestinesi hanno diritto al loro Stato»

    Il Papa ha ricordato le vittime di Gaza ma ha invitato i giovani a respingere la tentazione del terrorismo

    Giovanna Chirri

    BETLEMME

    Il muro, dice il papa, ha portato palestinesi e israeliani a un «punto morto», ma «i muri si abbattono». E ancora, le vittime del «conflitto di Gaza», la sofferenza dei profughi e il diritto al ritorno.
    La «tentazione del terrorismo» che soprattutto i giovani devono respingere. L'appoggio della Santa Sede al diritto del popolo palestinese ad avere una patria. L'impegno che la comunità internazionale deve mettere per sbloccare il negoziato.
    Alla vigilia dell'incontro che avrà a Nazareth con il premier israeliano Benjamin Nethanyahu il papa a Betlemme ha affrontato con chiarezza l'intera questione palestinese, dicendo parole precise su tutti i nodi del problema.
    A Betlemme ha trascorso, dirà congedandosi, «uno dei giorni più memorabili». Ha incontrato il presidente Abu Mazen, ha celebrato la messa, alla quale hanno partecipato anche 48 fedeli da Gaza, i soli ad aver ottenuto il permesso; ha visitato il campo di Aida dove vivono cinquemila tra cristiani e musulmani, e ha ascoltato in udienze private la voce di tre gruppi di cristiani, da Gerusalemme, Betlemme e Gaza.
    Ad Aida, tra gli striscioni che inneggiavano al ritorno dei profughi nelle loro case e terre, con alle spalle una delle garitte del muro che divide la Cisgiordania da Israele, anche l'incontro con i figli di alcuni palestinesi prigionieri, come a Gerusalemme aveva parlato con il padre e la madre del soldato israeliano Shalit.
    Passato attraverso il check-point alla porta di Rachele, Benedetto XVI è stato accolto da una folla festante di pellegrini, moltissimi anche europei, e nel discorso di benvenuto ha messo sul tavolo alcuni concetti che pochi secondi dopo già rimbalzavano sui siti israeliani.
    Prima del papa il presidente Abu Mazen ha denunciato la «occupazione israeliana» e il muro che crea «apartheid». Ad Aida il presidente ha rincarato la dose, definendo la striscia di Gaza «una prigione» e denunciando il «metodico processo» con cui Israele sta «cancellando l'esistenza degli arabi, musulmani e cristiani».
    Il papa è dunque entrato senza alcuna diplomazia nelle questioni aperte: «soffro» con chi ha perso i propri cari nel «recente conflitto di Gaza», sono con i profughi e con chi anela a tornare nella sua casa, giovani non cedete al «terrorismo», la Santa Sede appoggia il diritto dei palestinesi a uno Stato sovrano, nella sicurezza e nella giustizia, «entro confini internazionalmente riconosciuti».
    Quella che è da sempre la posizione della Santa Sede per la pace tra israeliani e palestinesi, riaffermata davanti alla residenza presidenziale, ha rivelato tutta la preoccupazione del papa sulle possibili derive di guerra se non si darà una svolta in tempi rapidi. Le parti, ha auspicato, superino le antiche ostilità, vadano «oltre le recriminazioni», altrimenti ci sarà lo «stallo delle trattative»: ci vuole «coraggio», ma anche «immaginazione» per costruire la pace.
    I palestinesi hanno accolto con calore il papa, Abu Mazen ha esaltato l'importanza storica della giornata, Hamas ha minimizzato definendo non nuovi i concetti espressi da Ratzinger, ma ha comunque riconosciuto l'importanza di questa visita.
    Il sito del Jerusalem Post ha rimarcato che Benedetto XVI «è stato fotografato sotto il muro», cosa che il governo israeliano ha tentato in tutti i modi di evitare, tra l'altro impedendo la costruzione di un palco a ridosso dei chilometri di cemento che si incuneano tra le case e nella vita dei palestinesi.
    I cristiani palestinesi, all'inizio perplessi sulla opportunità del viaggio papale a pochi mesi dal conflitto di Gaza per il timore che Israele lo sfruttasse a proprio vantaggio, hanno sentito con soddisfazione le parole dirette del papa, che ha ribadito la sua battaglia di giustizia su profughi, guerra, insediamenti e Stato palestinese.
    La palla passa ora ai leader, anche al falco Nethanyahu, ma non sono a volte i falchi a fare la pace?

    © Copyright Gazzetta del sud, 14 maggio 2009


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    Nel nome di Abele. Un’ebrea commenta il discorso del papa sulla Shoah

    “Indifferenza” e “banalità”: così il primo giornale liberal israeliano, “Haaretz“, ha liquidato fin dal titolo il discorso di Benedetto XVI allo Yad Vashem.
    Tom Segev, l’autore del commento, ha irriso i “cardinali del Vaticano” che avrebbero predisposto per il loro boss un testo così “povero di intelligenza” e così vuoto di quelle cose che il papa “aveva il dovere” di dire.
    In campo ebraico, però, non tutti i commenti sono stati così squalificanti. Anzi. Qui di seguito ne è riprodotto uno di segno opposto. Che analizza il discorso del papa per quello che egli ha detto realmente, invece che secondo un copione prestabilito da altri.
    Ne è autrice Anna Foa, docente di storia all’università di Roma “La Sapienza”, ed è stato pubblicato su “L’Osservatore Romano” del 13 maggio:

    *

    Benedetto XVI al Memoriale di Yad Vashem

    Il grido di Abele che sale dalla terra

    di Anna Foa

    Quella del papa al Memoriale di Yad Vashem è stata ben più che la visita di prammatica di un capo di Stato al luogo simbolo dello Stato israeliano. Essa ha posto infatti con forza il tema della Shoah e della sua memoria al centro del viaggio del papa, attribuendo a questo momento una priorità assoluta rispetto ad altri temi pur fondamentali, come quello della pace nel conflitto israelo-palestinese.
    Le parole pronunciate da Benedetto XVI sono state una condanna nettissima del negazionismo e dell’antisemitismo. Sul negazionismo – tema che avremmo potuto pensare marginale fino a che le parole del vescovo lefebvriano non sono venute a portarlo per un attimo al centro dei rapporti ebraico-cristiani – il pontefice si era già espresso con chiarezza da Roma, e con la stessa chiarezza si è espresso ieri.
    Ma tutto il suo discorso nel Memoriale di Yad Vashem è stato caratterizzato dalla necessità della memoria: dalla citazione iniziale del profeta Isaia: “Un monumento e un nome”, al toccante ricordo dei nomi degli scomparsi. Nomi di cui nemmeno i carnefici hanno potuto derubare le loro vittime, pur cercando con tutte le loro forze di farlo, come quando imponevano agli ebrei tedeschi di apporre ai loro nomi il nome Israel e Sara, destinato a palesarne la “razza”, o come quando Mussolini vietava, nel 1938, agli ebrei di avere un necrologio sui giornali.
    Insistendo così sul nome, il papa si è posto in stretta vicinanza alla modulazione ebraica di questo tema, secondo cui ciascuna delle vittime, in quanto persona, portava un nome che rappresentava – come per Abramo e Giacobbe – la “sua missione unica”, il suo “dono speciale”. Come non ricordare la lettura in sinagoga dei nomi delle vittime nel giorno della Shoah, nella volontà di ridare voce e identità agli scomparsi?
    Parole sulla memoria, quindi, ma anche parole su Dio e sugli imperscrutabili “disegni dell’Onnipotente”.
    Un discorso tutto religioso, che riprende le parole del libro delle Lamentazioni sulle misericordie di Dio che “non sono finite”, che ripropone, nel luogo in cui si ricorda il massimo degli orrori, la domanda eterna sul male, rispondendovi, in chiave tutta religiosa, con fiducia e speranza.
    Ma c’è anche altro, nelle parole pronunciate a Yad Vashem. C’è il proposito di legare l’evento specifico e storicamente irripetibile della Shoah a tutte le persecuzioni, trasformando il grido delle vittime della Shoah nel “grido di Abele che sale dalla terra verso l’Onnipotente”. Una lettura quindi in chiave universalistica della memoria della Shoah, che non deve offendere anche se forse ha potuto generare turbamento in quanti vi hanno letto insensibilità verso la sofferenza propria e specifica degli ebrei assassinati in quanto ebrei.
    Il conflitto tra una lettura “aperta” della Shoah e una lettura tutta interna all’ebraismo non è di oggi. E non è stata la Chiesa per prima, ma i filosofi, gli storici, i docenti – sia ebrei che non ebrei – a individuare la possibilità di gettare un ponte tra la Shoah e la comprensione di tutti i genocidi, i massacri, i razzismi: a vedere, quindi, nell’esercizio di questa memoria un momento di catarsi dell’essere umano che davanti a quel dolore può, e deve, cambiare.
    Che questo sia stato detto da Benedetto XVI lì, nel Memoriale, può avere alimentato le diffidenze di quanti, in Israele, hanno visto nelle parole del papa soprattutto le assenze: carenza di dolore, mancanza di autocritica del secolare “insegnamento del disprezzo”, o di quanti hanno confrontato le parole pacate di Benedetto XVI con la “teshuvà” emozionata di Giovanni Paolo II.
    Ma questo è solo il segno, da una parte, del fatto che le ferite ancora non sono – e come potrebbero esserlo? – rimarginate. E dall’altra dell’aspettativa gigantesca e incolmabile creata da questa visita del papa.

    © Copyright Settimo Cielo, il blog di Sandro Magíster


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    Israele e i pellegrini. Il ministro fa i conti

    di Giuseppe Caffulli

    «Israele ha il sole, le spiagge e le belle ragazze in bikini, ma tutte queste cose sono reperibili anche altrove, ad un prezzo minore. Noi abbiamo qualcosa che gli altri non hanno: la Terra Santa». Bastano poche parole al ministro del Turismo, Stas Misezhnikov, per definire la strategia del suo ministero, di cui ha presso possesso da poche settimane. «Noi abbiamo un prodotto che può tenere anche di fronte alla crisi», spiega nel corso della conferenza stampa tenuta ieri pomeriggio a Gerusalemme presso la sede del Comune, alla vigilia dell'arrivo di Benedetto XVI in Israele.
    Di origine russa (immigrato da Mosca nel 1982), come il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman membro del partito Israel Beiteinu («Israele casa nostra»), 40 anni, direttore marketing in un'azienda prima di assumere il dicastero per il Turismo, Misezhnikov ha le idee chiare su come intende «vendere» il prodotto Terra Santa nei circuiti del turismo religioso in tutto il mondo. «Dobbiamo cercare di promuovere la Terra Santa puntando sul turismo cristiano, specie cattolico ed evangelico, per arginare la recessione economica che sta toccando anche il nostro settore. Sono centinaia di milioni i cristiani in tutto il mondo che desiderano visitare la Terra Santa. Solo negli Stati Uniti sono 70 milioni gli evangelici che le indagini di marketing danno come fortemente interessati ad un viaggio in Terra Santa». Secondo le stime del ministero, il 70 per cento dei quasi due milioni di cristiani che nel 2008 si sono recati in Terra Santa erano di confessione evangelica. Sempre nel 2008 sono stati circa 3 milioni i turisti-pellegrini in Israele.
    «Ma la recessione economica sta toccando anche noi, con un calo del 25 per cento rispetto all'anno precedente», ha spiegato. Ecco perché il dicastero del Turismo ha aumentato gli sforzi, ottenendo un budget maggiore per promuovere il «prodotto Israele»: 460 milioni di shekel (oltre 83 milioni di euro).
    Da vero uomo di marketing, Misezhnikov fa due conti: ogni 100 mila turisti in più portano 4 mila posti di lavoro e 200 milioni di shekel di introiti all'economia nazionale. Per questa ragione Israele guarda con grande attenzione al viaggio del Papa di questi giorni. E non solo ai 10 mila pellegrini in più registrati al seguito del Santo Padre. «Abbiamo l'ambizione di portare nei prossimi 10 anni 10 milioni di pellegrini in più solo a Gerusalemme», afferma. La visita di Benedetto XVI, con il suo impressionante impatto sui media, non può che aiutare.

    © Copyright Terrasanta.net


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    E la protesta dello sceicco rende il Pontefice più simpatico a Gerusalemme

    di Redazione

    Il Talmud dice che possiamo conquistare il (nostro) mondo e possiamo perderlo in un solo istante. È un po’ quello che è successo ieri alla conferenza interconfessionale al centro Notre Dame di Gerusalemme, dove un esponente islamico, lo sceicco Taysir al Tamimi, impadronendosi del microfono, ha denunciato Israele del «macello di donne e bambini a Gaza» e chiesto al Papa «nel nome di Dio di condannare questi crimini». Non appena il contenuto del discorso fatto in arabo viene riferito a Benedetto XVI, questi lascia la conferenza.
    Il risultato di questo incidente, il primo che turba la delicata atmosfera di un pellegrinaggio pieno di mine religiose e politiche, va al di là degli sforzi vaticani di minimizzarlo. Forse gli accompagnatori del Papa non si rendono conto dell’impatto positivo che l’incidente “interconfessionale” provocato dallo sceicco palestinese sta avendo in Israele.
    Con l’intervento dello sceicco i palestinesi non hanno certo perduto il “mondo in un istante”. Ma esso ha dimostrato come essi “non perdono mai una occasione di perdere una occasione”.
    Il comportamento arrogante dello sceicco, più del contenuto del suo discorso anti israeliano è stato un regalo a Israele. Una delle tesi del governo Netanyahu è infatti che per arrivare alla pace occorre mettere fine alla pretesa dei palestinesi che tutto deve essere loro permesso in quanto vittime, indipendentemente dalle loro responsabilità verso se stessi e verso gli altri.
    In senso opposto, l’uscita di Benedetto XVI dalla conferenza a seguito delle parole dello sceicco, gli ha fatto conquistare “in un attimo” un mondo che negli occhi degli israeliani non si era sinora accattivato. Ha diminuito l’impatto negativo della benedizione da lui impartita alla conferenza “Durban II” pur conoscendone il suo tenore antisemita; ha fatto perdonare il rifiuto del rappresentante vaticano di abbandonare la conferenza ginevrina per protesta contro le diatribe anti israeliane del presidente dell’Iran.
    Benedetto XVI, di cui gli israeliani avevano percepito sino a ieri attraverso la crudele copertura televisiva soprattutto il comportamento impacciato, l’espressione spesso impaurita del volto, la prudenza per tema di commettere errori politici, è improvvisamente diventato simpatico per l’uomo della strada che del cristianesimo e della chiesa di Roma sa ben poco. Vede ora nel Papa soprattutto un vecchio servitore di Dio, umile, sincero, sopraffatto dal peso del suo ruolo. Nessun organo di stampa ha meglio descritto questo aspetto di Benedetto XVI di una caricatura svizzera diffusa nel mondo dal New York Times. In essa si vedono le mura merlate di Gerusalemme che accolgono il Papa con una grande scritta di benvenuto, un religioso ebreo e un religioso islamico sospettosi sullo sfondo e tre alti prelati che in ginocchio pregano: «Di grazia Signore impediscigli di fare pasticci».

    © Copyright Il Giornale, 13 maggio 2009


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    00 14/05/2009 20:48
    Il Papa per i Vespri nel Santuario dell’Annunciazione di Nazaret

    NAZARET, giovedì, 14 maggio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo giovedì da Benedetto XVI nel presiedere, nella Basilica Superiore del Santuario dell’Annunciazione di Nazaret, la celebrazione dei Vespri con i Vescovi, i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i movimenti ecclesiali e gli operatori pastorali della Galilea.

    * * *

    Fratelli Vescovi,

    Padre Custode,

    cari fratelli e sorelle in Cristo!

    E’ per me fonte di profonda commozione essere presente con voi oggi proprio nel luogo dove la Parola di Dio si è fatta carne ed è venuta ad abitare fra noi. Quanto è opportuno trovarci qui riuniti per cantare la Preghiera dei Vespri della Chiesa, dando lode e grazie a Dio per le meraviglie che egli ha fatto per noi! Ringrazio l’Arcivescovo Sayah per le parole di benvenuto, e, tramite lui, saluto tutti i membri della comunità Maronita qui in Terra Santa. Saluto i sacerdoti, i religiosi, i membri dei movimenti ecclesiali e gli operatori pastorali venuti da tutta la Galilea. Ancora una volta rendo lode alla cura dimostrata dai Frati della Custodia, nel corso di molti secoli, nel provvedere ai luoghi santi come questo. Saluto il Patriarca Latino emerito, Sua Beatitudine Michel Sabbah, che per più di venti anni ha guidato il suo gregge in queste terre. Saluto i fedeli del Patriarcato Latino ed il loro attuale Patriarca, Sua Beatitudine Fouad Twal, così come i membri della comunità Greco-Melchita, qui rappresentata dall’Arcivescovo Elias Chacour. Ed in questo luogo dove Gesù stesso crebbe fino alla maturità ed imparò la lingua ebraica, saluto i Cristiani di lingua ebraica, che sono per noi un richiamo alle radici ebraiche della nostra fede.

    Ciò che accadde qui a Nazareth, lontano dagli sguardi del mondo, è stato un atto singolare di Dio, un potente intervento nella storia attraverso il quale un bambino fu concepito per portare la salvezza al mondo intero. Il prodigio dell'Incarnazione continua a sfidarci ad aprire la nostra intelligenza alle illimitate possibilità del potere trasformante di Dio, del suo amore per noi, del suo desiderio di essere in comunione con noi. Qui l'eterno Figlio di Dio divenne uomo, e rese così possibile a noi, suoi fratelli e sorelle, di condividere la sua figliolanza divina. Quel movimento di abbassamento di un amore che si è svuotato di sé ha reso possibile il movimento inverso di esaltazione nel quale anche noi siamo elevati a condividere la vita stessa di Dio (cfr Fil 2,6-11).

    Lo Spirito che "discese su Maria" (cfr Lc 1,35) è lo stesso Spirito che si librò sulle acque all'alba della Creazione (cfr Gn 1,2). Questo ci ricorda che l'Incarnazione è stata un nuovo atto creativo. Quando nostro Signore Gesù Cristo fu concepito per opera dello Spirito Santo nel seno verginale di Maria, Dio si unì con la nostra umanità creata, entrando in una permanente nuova relazione con noi e inaugurando una nuova Creazione. Il racconto dell'Annunciazione illustra la straordinaria gentilezza di Dio (cfr Madre Julian di Norwich, Rivelazioni 77-79). Egli non impone se stesso, non predetermina semplicemente la parte che Maria avrà nel suo piano per la nostra salvezza, egli cerca innanzitutto il suo assenso. Nella Creazione iniziale ovviamente non era questione che Dio chiedesse il consenso delle sue creature, ma in questa nuova Creazione egli lo chiede. Maria sta al posto di tutta l’umanità. Lei parla per tutti noi quando risponde all'invito dell'angelo. San Bernardo descrive come l’intera corte celeste stesse aspettando con ansiosa impazienza la sua parola di consenso grazie alla quale si compì l'unione nuziale tra Dio e l’umanità. L'attenzione di tutti i cori degli angeli s’era concentrata su questo momento, nel quale ebbe luogo un dialogo che avrebbe dato avvio ad un nuovo e definitivo capitolo della storia del mondo. Maria disse: "Avvenga di me secondo la tua parola". E la Parola di Dio divenne carne. Il riflettere su questo gioioso mistero ci dà speranza, la sicura speranza che Dio continuerà a condurre la nostra storia, ad agire con potere creativo per realizzare gli obiettivi che al calcolo umano sembrano impossibili. Questo ci sfida ad aprirci all’azione trasformatrice dello Spirito Creatore che ci fa nuovi, ci rende una cosa sola con Lui e ci riempie con la sua vita. Ci invita, con squisita gentilezza, a consentire che egli abiti in noi, ad accogliere la Parola di Dio nei nostri cuori, rendendoci capaci di rispondere a Lui con amore ed andare con amore l’uno verso l'altro. Nello Stato di Israele e nei Territori Palestinesi i Cristiani formano una minoranza della popolazione. Forse a volte vi sembra che la vostra voce conti poco. Molti dei vostri amici cristiani sono emigrati, nella speranza di trovare altrove maggiore sicurezza e migliori prospettive. La vostra situazione richiama alla mente quella della giovane vergine Maria, che condusse una vita nascosta a Nazareth, con ben poco per il suo quotidiano quanto a ricchezza e ad influenza mondana. Per citare le parole di Maria nel suo grande inno di lode, il Magnificat, Dio ha guardato alla sua serva nella sua umiltà, ha ricolmato di beni l’affamato. Prendiamo forza dal cantico di Maria, che tra poco canteremo in unione con la Chiesa intera in tutto il mondo! Abbiate il coraggio di essere fedeli a Cristo e di rimanere qui nella terra che Egli ha santificato con la sua stessa presenza! Come Maria, voi avete un ruolo da giocare nel piano divino della salvezza, portando Cristo nel mondo, rendendo a Lui testimonianza e diffondendo il suo messaggio di pace e di unità. Per questo, è essenziale che siate uniti fra voi, così che la Chiesa nella Terra Santa possa essere chiaramente riconosciuta come "un segno ed uno strumento di comunione con Dio e di unità di tutto il genere umano" (Lumen gentium, 1). La vostra unità nella fede, nella speranza e nell’amore è un frutto dello Spirito Santo che dimora in voi e vi rende capaci di essere strumenti efficaci della pace di Dio, aiutandovi a costruire una genuina riconciliazione tra i diversi popoli che riconoscono Abramo come loro padre nella fede. Perché, come Maria ha gioiosamente proclamato nel suo Magnificat, Dio è sempre memore "della sua misericordia, come aveva detto ai nostri padri, per Abramo e la sua discendenza per sempre" (Lc 1,54-55).

    Cari Amici in Cristo, siate certi che io continuamente vi ricordo nella mia preghiera, e vi chiedo di fare lo stesso per me. Volgiamoci ora verso il nostro Padre celeste, che in questo luogo ha guardato all’umiltà della sua serva, e cantiamo le sue lodi in unione con la Beata Vergine Maria, con tutti i cori degli angeli e dei santi e con tutta la Chiesa in ogni parte del mondo.

    [© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]






    Il Pontefice prega per la pace con i leader religiosi della Galilea
    Nell’Auditorium del Santuario dell’Annunciazione di Nazareth

    di Roberta Sciamplicotti


    NAZARETH, giovedì, 14 maggio 2009 (ZENIT.org).- Benedetto XVI e i leader religiosi della Galilea si sono presi per mano questo giovedì pomeriggio chiedendo a Dio il dono più prezioso per la Terra Santa: la pace.

    L'incontro è stato uno dei più toccanti del viaggio papale e ha avuto luogo nell’Auditorium del Santuario dell’Annunciazione di Nazareth. Il Pontefice ha confessato di avvertire “una particolare benedizione” per il fatto di poter visitare la città, dove l’Angelo annunciò alla Vergine Maria che avrebbe concepito per opera dello Spirito Santo.

    Il Papa ha preso posto su un palco insieme ai rappresentanti cristiani, ebrei, musulmani e drusi, ricevendo il saluto del Vicario del Patriarca di Gerusalemme dei latini per Israele, monsignor Giacinto-Boulos Marcuzzo, che ha ricordato che “il dialogo rende cooperatores veritatis” e che la diversità non è un limite ma una “sinfonia”.

    La guida spirituale dei drusi ha osservato che la visita del Pontefice è “fonte di santità” e “di benedizione” e ha espresso la propria preoccupazione per chi sfrutta la religione per scopi politici, sottolineando che “la religione deve essere per Dio e la terra per tutti”.

    Dal canto suo, il rappresentante musulmano ha affermato che da Nazareth deve partire un messaggio di convivenza per tutta l'umanità, e che chi accusa l'islam guarda a “comportamenti sbagliati”, perché il vero islam è basato sulla pace. Il rabbino che rappresentava l'ebraismo ha quindi ricordato l'importanza del dialogo interreligioso per il raggiungimento della pace.

    La pace, dono di Dio

    Nel suo discorso, Benedetto XVI ha ricordato che al cuore di ogni tradizione religiosa c’è la convinzione che la pace “è un dono di Dio, anche se non può essere raggiunta senza lo sforzo umano”.

    “Una pace durevole proviene dal riconoscimento che il mondo non è ultimamente nostra proprietà, ma piuttosto l'orizzonte entro il quale noi siamo invitati a partecipare all'amore di Dio e a cooperare nel guidare il mondo e la storia sotto la sua ispirazione”, ha osservato.

    “Le nostre diverse tradizioni religiose hanno in sé potenzialità notevoli in ordine alla promozione di una cultura della pace, specialmente attraverso l’insegnamento e la predicazione dei valori spirituali più profondi della nostra comune umanità”.

    “Plasmando i cuori dei giovani, noi plasmiamo il futuro della stessa umanità”, ha aggiunto il Pontefice, rimarcando l'importanza di “salvaguardare i bambini dal fanatismo e dalla violenza” preparandoli “ad essere costruttori di un mondo migliore”.

    In una Galilea “conosciuta per la sua eterogeneità etnica e religiosa” e “patria di un popolo che ben conosce gli sforzi richiesti per vivere in armoniosa coesistenza”, il Papa ha incoraggiato i leader religiosi “a continuare ad esercitare il vicendevole rispetto, mentre vi adoperate ad alleviare le tensioni concernenti i luoghi di culto, garantendo così un ambiente sereno per la preghiera e la meditazione”.

    “Rappresentando diverse tradizioni religiose, condividete il comune desiderio di contribuire al miglioramento della società e di testimoniare così i valori religiosi e spirituali che aiutano a corroborare la vita pubblica”, ha riconosciuto, assicurando l'impegno della Chiesa Cattolica a “partecipare a questa nobile impresa”.

    “Cooperando con uomini e donne di buona volontà”, ha dichiarato, la Chiesa “cercherà di assicurare che la luce della verità, della pace e della bontà continui a risplendere dalla Galilea e a guidare le persone del mondo intero a cercare tutto ciò che promuove l'unità della famiglia umana”.

    Preghiera per la pace

    Al termine del suo discorso, Benedetto XVI ha ricevuto in dono una scultura in legno scolpito che raffigurava anche una colomba, simbolo della pace.

    Un rappresentante ebraico ha poi preso posto sul palco invitando le centinaia di persone presenti alla cerimonia a chiudere gli occhi e a unirsi a lui nel chiedere cantando a Dio il dono della pace.

    “The Lord grant us peace”, “Il Signore ci dia pace”, è stata l'invocazione che è risuonata più volte, alternata alle parole “pace” in arabo e in israeliano, “salam” e “shalom”, alla frase in latino “Dona nobis pacem” e alla traduzione in tedesco “Gib uns deine Friede”.

    La cerimonia ha visto il suo momento più toccante quando il Papa e gli altri leader religiosi presenti sul palco si sono alzati e si sono presi per mano, unendosi al canto. Il Pontefice, visibilmente felice, aveva alla sua sinistra il rappresentante druso e alla destra un rabbino.

    Al termine dell'evento, Benedetto XVI si è spostato all'interno della Basilica per la celebrazione dei Vespri. Al suo ingresso, è stato accolto da fragorosi applausi da parte dei presenti.

    Nazareth è la più grande città araba all’interno dello Stato di Israele, con circa 70.000 abitanti, 40.000 dei quali arabi. L'auditorium del Santuario dell'Annunciazione fa parte del complesso della Basilica e ospita dibattiti, convegni e congressi.

    Nel corso della sua visita, il Papa ha visionato anche i resti della “Casa di Maria”, attualmente in restauro.





    Il Papa nella Grotta di Nazareth, dove iniziò l'avventura cristiana
    “Qui l'eterno Figlio di Dio divenne uomo”, spiega



    NAZARETH, giovedì, 14 maggio 2009 (ZENIT.org).- Il silenzio di Benedetto XVI davanti alla grotta in cui la giovane Maria di Nazareth seppe che sarebbe diventata la madre del Salvatore è diventato questo giovedì pomeriggio uno dei momenti forti del pellegrinaggio in Terra Santa, che si concluderà venerdì.

    “Qui l'eterno Figlio di Dio divenne uomo”, ha detto il Pontefice, che sta scrivendo il secondo volume del suo libro “Gesù di Nazaret” e che ha dato a questo viaggio innanzitutto una dimensione di preghiera.

    Per lui sono stati momenti importanti, perché come ha affermato in seguito “il riflettere su questo gioioso mistero ci dà speranza, la sicura speranza che Dio continuerà a condurre la nostra storia, ad agire con potere creativo per realizzare gli obiettivi che al calcolo umano sembrano impossibili”.

    Padre José Carballo ofm, ministro generale dell'Ordine dei Frati Minori, i religiosi che custodiscono i Luoghi Santi, ha spiegato al Papa nel suo saluto di benvenuto che “gli scavi archeologici qui compiuti ci mostrano chiaramente come lungo i secoli quanti ci hanno preceduto si sono continuamente adoperati per abbellire uno dei luoghi più cari alla cristianità”.

    Nonostante i numerosi adattamenti subiti lungo i secoli, si riconosce che la Grotta dell'Annunciazione, che si trova nella Basilica inferiore di Nazareth, è stata in origine parte di un complesso abitativo meglio osservabile all’esterno della Basilica.

    Un’altra piccola grotta, con pitture e graffiti lasciati dagli antichi pellegrini sulle pareti, l’affianca a ovest. Pavimenti in mosaico, dove si vede più volte rappresentata la croce in diverse forme, ornavano gli edifici cultuali (chiesa-sinagoga, III-IV sec.) che hanno preceduto la Basilica bizantina.

    I francescani entrarono in possesso della Grotta e delle rovine della chiesa crociata - distrutta nel XIII secolo per ordine del sultano Baybars ad-Dhahir - nel 1620, quando l’emiro druso della montagna libanese Fakr ed-Din le donò a padre Tommaso Obicini da Novara, Custode di Terra Santa, scrivendo una bella pagina delle relazioni amichevoli tra i non cristiani e la Custodia francescana dei Luoghi Santi.

    Dopo questo momento chiave del suo pellegrinaggio spirituale, il Papa è salito alla Basilica Superiore del Santuario dell’Annunciazione di Nazareth, il tempio più grande dell'Oriente cristiano, consacrato il 25 marzo 1969, per presiedere la celebrazione dei Vespri con i Vescovi, i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i movimenti ecclesiali e gli operatori pastorali della Galilea

    “Ciò che accadde qui a Nazareth, lontano dagli sguardi del mondo, è stato un atto singolare di Dio, un potente intervento nella storia attraverso il quale un bambino fu concepito per portare la salvezza al mondo intero”, ha detto il Papa nel discorso che ha pronunciato nell'atto di preghiera.

    “Il prodigio dell'Incarnazione continua a sfidarci ad aprire la nostra intelligenza alle illimitate possibilità del potere trasformante di Dio, del suo amore per noi, del suo desiderio di essere in comunione con noi”.

    “Lo Spirito che 'discese su Maria' è lo stesso Spirito che si librò sulle acque all'alba della Creazione”, ha affermato. “Questo ci sfida ad aprirci all’azione trasformatrice dello Spirito Creatore che ci fa nuovi, ci rende una cosa sola con Lui e ci riempie con la sua vita”.

    Alla luce del mistero centrale del cristianesimo, il Papa ha tratto alcune conclusioni per la vita dell'esigua minoranza cristiana che vive nello Stato di Israele e nei Territori Palestinesi.

    “Forse a volte vi sembra che la vostra voce conti poco. Molti dei vostri amici cristiani sono emigrati, nella speranza di trovare altrove maggiore sicurezza e migliori prospettive. La vostra situazione richiama alla mente quella della giovane vergine Maria, che condusse una vita nascosta a Nazareth, con ben poco per il suo quotidiano quanto a ricchezza e ad influenza mondana”, ha sottolineato.

    Il Pontefice ha quindi citato un passaggio del Magnificat, in cui la Vergine dice che Dio ha guardato all'umiltà della sua serva, per dare “forza” ai cattolici.

    “Abbiate il coraggio di essere fedeli a Cristo e di rimanere qui nella terra che Egli ha santificato con la sua stessa presenza!”, li ha esortati.

    “Come Maria, voi avete un ruolo da giocare nel piano divino della salvezza, portando Cristo nel mondo, rendendo a Lui testimonianza e diffondendo il suo messaggio di pace e di unità”.

    Per questo, ha concluso, “è essenziale che siate uniti fra voi, così che la Chiesa nella Terra Santa possa essere chiaramente riconosciuta come un segno ed uno strumento di comunione con Dio e di unità di tutto il genere umano”.

    Al termine dei Vespri, l'ambiente di raccoglimento si è trasformato in un'atmosfera festosa quando i presenti hanno cantato in italiano, tra versi arabi, “Benedetto, Benvenuto a Nazareth”.

    Questo venerdì, ultimo giorno della visita del Papa in Terra Santa, verrà dedicato alla promozione del dialogo ecumenico, perché al mattino, nella sede del Patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme, il Pontefice incontrerà i rappresentanti delle altre Chiese e comunità cristiane. Dopo aver visitato il Santo Sepolcro, culmine del suo pellegrinaggio spirituale, e aver fatto visita al Patriarca armeno apostolico, si dirigerà all'aeroporto di Tel Aviv, da dove è previsto che parta per Roma alle 14.00 ora locale.





    Il Papa: la società valorizzi la missione della famiglia e delle donne
    Durante la Messa presso il Monte del Precipizio a Nazareth

    di Mirko Testa


    NAZARETH, giovedì, 14 maggio 2009 (ZENIT.org).- Da Nazareth, dove Maria ascoltò l'annuncio dell'Arcangelo Gabriele e dove Gesù mosse i suoi primi passi, Benedetto XVI ha levato la sua voce per ricordare il ruolo insostituibile della famiglia nella società e il dovere di riconoscere e rispettare la dignità e la missione delle donne.

    Circondato dallo splendido scenario del Monte del Precipizio a Nazareth e alla presenza di oltre 40 mila fedeli, il Papa ha presieduto questo giovedì mattina la Messa per la conclusione dell’Anno della Famiglia indetto dalla Chiesa cattolica in Terra Santa.

    La nuovissima struttura all'aperto che ha accolto il Santo Padre è stata realizzata nel luogo, dove secondo la tradizione cristiana ricalcata sul racconto dell'evangelista Luca, la folla tentò di far precipitare Gesù dalla rupe.

    Tra gli alti prelati che hanno concelebrato insieme al Papa la messa di rito latino - con preghiere e canti in greco, arabo e inglese - era presente anche il Cardinale Ennio Antonelli, Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia.

    All'inizio della celebrazione l'Arcivescovo Elias Chacour, l'Ordinario greco-melkita per la Galilea e Vicepresidente dell'Assemblea degli Ordinari cattolici di Terra Santa, ha dato al Papa il benvenuto a Nazareth ripetendo in più lingue l'annuncio della risurrezione: “Cristo è risorto, è veramente risorto!”.

    Da Nazareth, il “fiore della Galilea”, “questo saluto pasquale delle nostre antiche Chiese lo rivolgiamo oggi a lei, Santità! Il Cristo risorto dai morti è figlio di questa Nazaret che saluta oggi il Papa con gioia e amore filiale”, ha detto l'Arcivescovo.

    L'Ordinario dei greco-melkiti ha quindi ricordato “le grandi difficoltà e i pericoli” che minacciano la presenza cristiana in Terra Santa, aggiungendo che “l'esodo dei cristiani sta provocando una profonda angoscia e ci fa guardare al futuro con sguardo cupo”.

    “Abbiamo bisogno di vostre preghiere, abbiamo bisogno del vostro sostegno morale e spirituale – ha continuato –. I rifugiati di Ber'em e Berkhem che sono presenti qui con noi alla Santa Messa guardano a lei, Santo Padre, con la speranza di ottenere un sostegno reale affinché possano ritornare ai loro villaggi, alle loro case, come fanno gli altri figli di questa terra”.

    Nel suo discorso il Papa ha parlato della necessità di riappropriarsi della “santità della famiglia” vera scuola di formazione umana per i giovani e cellula fondamentale per la “costruzione della civiltà dell’amore”.

    Per questo, ha detto, gli Stati sono chiamati “a sostenere le famiglie nella loro missione educatrice, a proteggere l’istituto della famiglia e i suoi diritti nativi, come pure a far sì che tutte le famiglie possano vivere e fiorire in condizioni di dignità”.

    “Nazareth – ha però precisato – ci ricorda il dovere di riconoscere e rispettare dignità e missione concesse da Dio alle donne, come pure i loro particolari carismi e talenti”.

    “Sia come madri di famiglia, come una vitale presenza nella forza lavoro e nelle istituzioni della società, sia nella particolare chiamata a seguire il Signore mediante i consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza, le donne hanno un ruolo indispensabile nel creare quella 'ecologia umana' di cui il mondo, e anche questa terra, hanno così urgente bisogno”, ha continuato il Papa.

    “Qui pensiamo pure a san Giuseppe – ha continuato –, l’uomo giusto che Dio pose a capo della sua casa. Dall’esempio forte e paterno di Giuseppe, Gesù imparò le virtù della pietà virile, della fedeltà alla parola data, dell’integrità e del duro lavoro”.

    Allo stesso modo però, ha proseguito il Pontefice guardando alla vita di Gesù, “i bambini hanno un ruolo speciale nel far crescere i loro genitori nella santità”.

    In merito alle passate tensioni tra cristiani e musulmani a Nazareth, soprattutto quando nel settembre del 2001 vennero avviati i lavori di costruzione di una moschea nei pressi della Basilica dell'Annunciazione, il Papa ha detto: “Ognuno respinga il potere distruttivo dell’odio e del pregiudizio, che uccidono l’anima umana prima ancora che il corpo!”.

    Nazaret, la più grande città araba dello Stato d'Israele e la capitale politico-amministrativa della Galilea, conta oggi 70mila abitanti, il 17% dei quali formato da cristiani.

    Al termine del rito il Papa ha benedetto le prime pietre del Parco memoriale Giovanni Paolo II, della University of Pope Benedict XVI e del Centro internazionale della Famiglia, la prima istituzione accademica araba cristiana in Terra Santa, nata grazie anche al milione di euro raccolto dai fedeli delle diocesi bavaresi di Monaco, Ratisbona e Passau durante la visita del Pontefice nel settembre 2006.

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