PELLEGRINAGGIO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI IN TERRA SANTA (8-15 MAGGIO 2009) (XX)
CERIMONIA DI BENVENUTO NEI TERRITORI PALESTINESI, A BETHLEHEM
Questa mattina, alle ore 8.45, il Santo Padre Benedetto XVI lascia la Delegazione Apostolica di Jerusalem e si trasferisce in auto al Palazzo Presidenziale dell’Autorità Palestinese a Bethlehem. Il Papa passa il confine tra Israele e i Territori Autonomi Palestinesi alla Porta della Tomba di Rachele.
Alle ore 9, nel piazzale antistante il Palazzo Presidenziale di Bethlehem, ha luogo la Cerimonia di benvenuto nei Territori Palestinesi. Il Santo Padre è accolto dal Presidente dell’Autorità Palestinese, Sig. Mahmoud Abbas alias Abu Mazen, dalle Autorità politiche, civili e religiose.
Dopo la presentazione delle rispettive Delegazioni e il saluto del Presidente dell’Autorità Palestinese, il Papa pronuncia il discorso che pubblichiamo di seguito:
DISCORSO DEL SANTO PADRE
Signor Presidente,
Cari amici,
saluto tutti voi dal profondo del cuore, e vivamente ringrazio il Presidente, il Sig. Mahmoud Abbas, per le sue parole di benvenuto. Il mio pellegrinaggio nelle terre della Bibbia non sarebbe stato completo senza una visita a Betlemme, la Città di Davide e il luogo di nascita di Gesù Cristo. Né avrei potuto venire in Terra Santa senza accettare il gentile invito del Presidente Abbas a visitare questi Territori per salutare il popolo Palestinese. So quanto avete sofferto e continuate a soffrire a causa delle agitazioni che hanno afflitto questa terra per decine di anni. Il mio cuore si volge a tutte le famiglie che sono rimaste senza casa. Questo pomeriggio farò una visita all’Aida Refugee Camp per esprimere la mia solidarietà con il popolo che ha perduto così tanto. A quelli fra voi che piangono la perdita di familiari e di loro cari nelle ostilità, particolarmente nel recente conflitto di Gaza, offro l’assicurazione della più profonda compartecipazione e del frequente ricordo nella preghiera. In effetti, io prendo con me tutti voi nelle mie preghiere quotidiane, ed imploro ardentemente l'Eccelso per la pace, una pace giusta e durevole, nei Territori Palestinesi e in tutta la regione.
Signor Presidente, la Santa Sede appoggia il diritto del Suo popolo ad una sovrana patria Palestinese nella terra dei vostri antenati, sicura e in pace con i suoi vicini, entro confini internazionalmente riconosciuti. Anche se al presente questo obiettivo sembra lontano dall’essere realizzato, io incoraggio Lei e tutto il Suo popolo a tenere viva la fiamma della speranza, speranza che si possa trovare una via di incontro tra le legittime aspirazioni tanto degli Israeliani quanto dei Palestinesi alla pace e alla stabilità. Per usare le parole del precedente Papa Giovanni Paolo II, non vi può essere "pace senza giustizia, né giustizia senza perdono" ( Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2002). Supplico tutte le parti coinvolte in questo conflitto di vecchia data ad accantonare qualsiasi rancore e contrasto che ancora si frapponga sulla via della riconciliazione, per arrivare a tutti ugualmente con generosità e compassione, senza discriminazione. Una coesistenza giusta e pacifica fra i popoli del Medio Oriente può essere realizzata solamente con uno spirito di cooperazione e mutuo rispetto, in cui i diritti e la dignità di tutti siano riconosciuti e rispettati. Chiedo a tutti voi, chiedo ai vostri capi, di riprendere con rinnovato impegno ad operare per questi obiettivi. In particolare, chiedo alla Comunità internazionale di usare della sua influenza in favore di una soluzione. Credo e confido che tramite un onesto e perseverante dialogo, con pieno rispetto delle aspettative di giustizia, si possa raggiungere in queste terre una pace durevole.
E’ mia ardente speranza che i gravi problemi riguardanti la sicurezza in Israele e nei Territori Palestinesi vengano presto decisamente alleggeriti così da permettere una maggiore libertà di movimento, con speciale riguardo per i contatti tra familiari e per l’accesso ai luoghi santi. I Palestinesi, così come ogni altra persona, hanno un naturale diritto a sposarsi, a formarsi una famiglia e avere accesso al lavoro, all’educazione e all’assistenza sanitaria. Prego anche perché, con l’assistenza della Comunità internazionale, il lavoro di ricostruzione possa procedere rapidamente dovunque case, scuole od ospedali siano stati danneggiati o distrutti, specialmente durante il recente conflitto in Gaza. Questo è essenziale affinché il popolo di questa terra possa vivere in condizioni che favoriscano pace durevole e benessere. Una stabile infrastruttura offrirà ai vostri giovani opportunità migliori per acquisire valide specializzazioni e per ottenere impieghi remunerativi, abilitandoli a svolgere la loro parte nella promozione della vita delle vostre comunità. Rivolgo questo appello ai tanti giovani presenti oggi nei Territori Palestinesi: non permettete che le perdite di vite e le distruzioni, delle quali siete stati testimoni suscitino amarezze o risentimento nei vostri cuori. Abbiate il coraggio di resistere ad ogni tentazione che possiate provare di ricorrere ad atti di violenza o di terrorismo. Al contrario, fate in modo che quanto avete sperimentato rinnovi la vostra determinazione a costruire la pace. Fate in modo che ciò vi riempia di un profondo desiderio di offrire un durevole contributo per il futuro della Palestina, così che essa possa avere il suo giusto posto nello scenario del mondo. Che ciò ispiri in voi sentimenti di compassione per tutti coloro che soffrono, impegno per la riconciliazione ed una ferma fiducia nella possibilità di un più luminoso futuro.
Signor Presidente, cari amici riuniti qui a Betlemme, invoco su tutto il popolo Palestinese le benedizioni e la protezione del nostro Padre celeste, ed elevo la fervida preghiera che il canto degli angeli risuonato in questo luogo si compia: "pace sulla terra agli uomini di buona volontà". Grazie. E Dio sia con voi.
Al termine della Cerimonia di benvenuto, il Santo Padre si reca in auto alla "Manger Square" di Bethlehem.
PELLEGRINAGGIO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI IN TERRA SANTA (8-15 MAGGIO 2009) (XXI)
SANTA MESSA NELLA "MANGER SQUARE" DI BETHLEHEM
Conclusa la cerimonia di benvenuto, il Santo Padre Benedetto XVI raggiunge in auto la "Manger Square" - la Piazza della Mangiatoia - di Bethlehem, antistante alla Basilica della Natività, ove, alle ore 10, ha luogo la Celebrazione Eucaristica.
Nel corso della Santa Messa, introdotta dall’indirizzo di saluto del Patriarca di Gerusalemme dei Latini, Sua Beatitudine Fouad Twal, dopo la proclamazione del Vangelo il Papa pronuncia l’omelia che riportiamo di seguito:
OMELIA DEL SANTO PADRE
Cari fratelli e sorelle in Cristo,
ringrazio Dio Onnipotente per avermi concesso la grazia di venire a Betlemme, non solo per venerare il posto dove Cristo è nato, ma anche per essere al vostro fianco, fratelli e sorelle nella fede, in questi Territori Palestinesi. Sono grato al Patriarca Fouad Twal per i sentimenti che ha espresso a nome vostro, e saluto con affetto i confratelli Vescovi e tutti i sacerdoti, religiosi e fedeli laici che faticano ogni giorno per confermare questa Chiesa locale nella fede, nella speranza, nell’amore. Il mio cuore si volge in maniera speciale ai pellegrini provenienti dalla martoriata Gaza a motivo della guerra: vi chiedo di portare alle vostre famiglie e comunità il mio caloroso abbraccio, le mie condoglianze per le perdite, le avversità e le sofferenze che avete dovuto sopportare. Siate sicuri della mia solidarietà con voi nell’immensa opera di ricostruzione che ora vi sta davanti e delle mie preghiere che l’embargo sia presto tolto.
"Non temete: ecco vi annuncio una grande gioia… oggi nella città di Davide è nato per voi un Salvatore" (Lc 2,10-11). Il messaggio della venuta di Cristo, recato dal cielo mediante la voce degli angeli, continua ad echeggiare in questa città, come echeggia nelle famiglie, nelle case e nelle comunità del mondo intero. È una "grande gioia", hanno detto gli angeli, "che sarà di tutto il popolo" (Lc 2,10). Questo messaggio di gioia proclama che il Messia, Figlio di Dio e figlio di Davide, è nato "per voi": per te e per me, e per tutti gli uomini e donne di ogni tempo e luogo. Nel piano di Dio, Betlemme, "così piccola per essere fra i villaggi di Giudea" (Mic 5,1) è divenuta un luogo di gloria immortale: il posto dove, nella pienezza dei tempi, Dio ha scelto di divenire uomo, per concludere il lungo regno del peccato e della morte e per portare vita nuova ed abbondante ad un mondo che era divenuto vecchio, affaticato, oppresso dalla disperazione.
Per gli uomini e le donne di ogni luogo, Betlemme è associata al gioioso messaggio della rinascita, del rinnovamento, della luce e della libertà. E tuttavia qui, in mezzo a noi, quanto lontana sembra questa magnifica promessa dall’essere compiuta! Quanto distante appare quel Regno di ampio dominio e di pace, sicurezza, giustizia ed integrità, che il profeta Isaia aveva annunciato, secondo quanto abbiamo ascoltato nella prima lettura (cfr Is 9,7) e che proclamiamo come fondato in maniera definitiva con la venuta di Gesù Cristo, Messia e Re!
Dal giorno della sua nascita, Gesù è stato "segno di contraddizione" (Lc 2,34) e continua ad essere tale anche oggi. Il Signore degli eserciti, "le cui origini è dall’antichità, dai giorni più remoti" (Mic 5,2), volle inaugurare il suo Regno nascendo in questa piccola città, entrando nel nostro mondo nel silenzio e nell’umiltà in una grotta, e giacendo, come bimbo bisognoso di tutto, in una mangiatoia. Qui a Betlemme, nel mezzo di ogni genere di contraddizione, le pietre continuano a gridare questa "buona novella", il messaggio di redenzione che questa città, al di sopra di tutte le altre, è chiamata a proclamare a tutto il mondo. Qui infatti, in un modo che sorpassa tutte le speranze e aspettative umane, Dio si è mostrato fedele alle sue promesse. Nella nascita del suo Figlio, Egli ha rivelato la venuta di un Regno d’amore: un amore divino che si china per portare guarigione e per innalzarci; un amore che si rivela nell’umiliazione e nella debolezza della croce, eppure trionfa nella gloriosa risurrezione a nuova vita. Cristo ha portato un Regno che non è di questo mondo, eppure è un Regno capace di cambiare questo mondo, poiché ha il potere di cambiare i cuori, di illuminare le menti e di rafforzare le volontà. Nell’assumere la nostra carne, con tutte le sue debolezze, e nel trasfigurarla con la potenza del suo Spirito, Gesù ci ha chiamato ad essere testimoni della sua vittoria sul peccato e sulla morte. E questo è ciò che il messaggio di Betlemme ci chiama ad essere: testimoni del trionfo dell’amore di Dio sull’odio, sull’egoismo, sulla paura e sul rancore che paralizzano i rapporti umani e creano divisione fra fratelli che dovrebbero vivere insieme in unità, distruzioni dove gli uomini dovrebbero edificare, disperazione dove la speranza dovrebbe fiorire!
"Nella speranza siamo stati salvati" dice l’apostolo Paolo (Rm 8,24). E tuttavia afferma con grande realismo che la creazione continua a gemere nel travaglio, anche se noi, che abbiamo ricevuto le primizie dello Spirito, attendiamo pazientemente il compimento della redenzione (cfr Rm 8,22-24). Nella seconda lettura odierna, Paolo trae dall’Incarnazione una lezione che può essere applicata in modo particolare alle sofferenze che voi, i prescelti da Dio in Betlemme, state sperimentando: "È apparsa la grazia di Dio – egli dice – che ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà", nell’attesa della venuta della nostra beata speranza, il Salvatore Cristo Gesù (Tt 2,11-13).
Non sono forse queste le virtù richieste a uomini e donne che vivono nella speranza? In primo luogo, la costante conversione a Cristo che si riflette non solo sulle nostre azioni, ma anche sul nostro modo di ragionare: il coraggio di abbandonare linee di pensiero, di azione e di reazione infruttuose e sterili. La cultura di un modo di pensare pacifico basato sulla giustizia, sul rispetto dei diritti e dei doveri di tutti, e l’impegno a collaborare per il bene comune. E poi la perseveranza, perseveranza nel bene e nel rifiuto del male. Qui a Betlemme si chiede ai discepoli di Cristo una speciale perseveranza: perseveranza nel testimoniare fedelmente la gloria di Dio qui rivelata nella nascita del Figlio suo, la buona novella della sua pace che discese dal cielo per dimorare sulla terra.
"Non abbiate paura!". Questo è il messaggio che il Successore di San Pietro desidera consegnarvi oggi, facendo eco al messaggio degli angeli e alla consegna che l’amato Papa Giovanni Paolo II vi ha lasciato nell’anno del Grande Giubileo della nascita di Cristo. Contate sulle preghiere e sulla solidarietà dei vostri fratelli e sorelle della Chiesa universale, e adoperatevi con iniziative concrete per consolidare la vostra presenza e per offrire nuove possibilità a quanti sono tentati di partire. Siate un ponte di dialogo e di collaborazione costruttiva nell’edificare una cultura di pace che superi l’attuale stallo della paura, dell’aggressione e della frustrazione. Edificate le vostre Chiese locali facendo di esse laboratori di dialogo, di tolleranza e di speranza, come pure di solidarietà e di carità pratica.
Al di sopra di tutto, siate testimoni della potenza della vita, della nuova vita donataci dal Cristo risorto, di quella vita che può illuminare e trasformare anche le più oscure e disperate situazioni umane. La vostra terra non ha bisogno soltanto di nuove strutture economiche e politiche, ma in modo più importante – potremmo dire – di una nuova infrastruttura "spirituale", capace di galvanizzare le energie di tutti gli uomini e donne di buona volontà nel servizio dell’educazione, dello sviluppo e della promozione del bene comune. Avete le risorse umane per edificare la cultura della pace e del rispetto reciproco che potranno garantire un futuro migliore per i vostri figli. Questa nobile impresa vi attende. Non abbiate paura!
L’antica basilica della Natività, provata dai venti della storia e dal peso dei secoli, si erge di fronte a noi quale testimone della fede che permane e trionfa sul mondo (cfr 1 Gv 5,4). Nessun visitatore di Betlemme potrebbe fare a meno di notare che nel corso dei secoli la grande porta che introduce nella casa di Dio è divenuta sempre più piccola. Preghiamo oggi affinché, con la grazia di Dio e il nostro impegno, la porta che introduce nel mistero della dimora di Dio tra gli uomini, il tempio della nostra comunione nel suo amore, e l’anticipo di un mondo di perenne pace e gioia, si apra sempre più ampiamente per accogliere ogni cuore umano e rinnovarlo e trasformarlo. In questo modo, Betlemme continuerà a farsi eco del messaggio affidato ai pastori, a noi, all’umanità: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama"! Amen.
Al termine della Santa Messa, il Papa si reca a piedi al Convento di Casa Nova a Bethlehem - la Casa francescana per i pellegrini - dove pranza con gli Ordinari di Terra Santa, con la Comunità dei Francescani e con i Membri del Seguito papale.
Il Papa a Betlemme: il luogo della nascità di Gesù invita a testimoniare il trionfo dell'amore sull'odio. Solidarietà ai pellegrini di Gaza: sia tolto l'embargo
Attraverso il check point che separa lo Stato israeliano dai Territori palestinesi, il Papa è giunto stamani in auto a Betlemme poco prima delle 8.00. Dopo la cerimonia di benvenuto con il presidente Abbas si è trasferito nella Piazza della Mangiatoia per celebrare la Santa Messa. Il Papa ha avuto parole di speranza pur in mezzo alle grandi sofferenze di queste popolazioni: il luogo della nascità di Gesù – ha detto - invita a testimoniare il trionfo dell'amore sull'odio. Ha quindi espresso la sua solidarietà ai pellegrini giunti da Gaza chiedendo che sia tolto l'embargo. Alla celebrazione ha partecipato anche il presidente Abbas e decine di musulmani. Molte le bandiere palestinesi tra la folla. Per le strade di Betlemme non c’era la gente del 2000 per Giovanni Paolo II ma il blocco imposto da Israele non favorisce gli spostamenti. Linea al nostro inviato Roberto Piermarini:
(canto)
Una giornata nel cuore del popolo palestinese per rinnovare l’appello di pace e di speranza nella cittadina che oltre 2000 anni fa ha visto la nascita di Gesù. Dalla Piazza della Mangiatoia di Betlemme, di fronte alla Basilica della Natività, sullo sfondo delle aride colline del Neghev e davanti a 10 mila fedeli, Benedetto XVI ha lanciato una forte invocazione a “non avere paura”, richiamando l’appello che nove anni fa lanciò Giovanni Paolo II nell’anno del Grande Giubileo del Duemila.
“Per gli uomini e le donne di ogni luogo – ha detto il Papa – Betlemme è associata al gioioso messaggio della rinascita, del rinnovamento, della luce e della libertà. E tuttavia qui, in mezzo a noi, quanto lontana sembra questa magnifica promessa dall’essere compiuta! Quanto distante appare quel Regno di ampio dominio e di pace, sicurezza, giustizia ed integrità. Dal giorno della sua nascita – ha osservato il Papa – Gesù è stato ‘segno di contraddizione’ e qui a Betlemme, nel mezzo di ogni genere di contraddizione, le pietre continuano a gridare questa “buona novella”, il messaggio di redenzione che questa città, al di sopra di tutte le altre, è chiamata a proclamare a tutto il mondo”. Questo è il messaggio di Betlemme: una chiamata ad essere testimoni del trionfo dell’amore di Dio sull’odio, sull’egoismo, sulla paura e sul rancore che paralizzano i rapporti umani e creano divisione tra fratelli che dovrebbero vivere insieme in unità, distruzioni dove gli uomini dovrebbero edificare, disperazione dove la speranza dovrebbe fiorire.
“Do not be afraid!...”
Non abbiate paura! - ha ripetuto il Papa - Adoperatevi con iniziative concrete per consolidare la vostra presenza e per offrire nuove possibilità a quanti sono tentati di partire, soprattutto ai giovani che sono il futuro di questo popolo”.
I cristiani a Betlemme rappresentavano l’80% della popolazione, ora sono poco più del 15-20% ed emigrano per la precarietà del lavoro, per l’instabilità politica nella regione e per le minacce dell’integralismo islamico. Benedetto XVI ha invitato i cristiani ad “essere ponte di dialogo e di collaborazione costruttiva nell’edificare una cultura di pace che superi l’attuale stallo della paura, dell’aggressione e della frustrazione. Edificate le vostre Chiese locali – ha esortato – facendo di esse laboratori di dialogo, di tolleranza e di speranza, come pure di solidarietà e di carità. ‘Non abbiate paura’, la vostra terra non ha bisogno soltanto di nuove strutture economiche e politiche ma di una nuova infrastruttura spirituale da mettere al servizio dell’educazione dello sviluppo e della promozione del bene comune.
All’omelia il Papa non ha voluto dimenticare la presenza dei pellegrini provenienti dalla martoriata Gaza, a causa della guerra:
“I ask you to bring back to your families...
Vi chiedo di portare alle vostre famiglie e comunità il mio caloroso abbraccio, le mie condoglianze per le perdite, le avversità e le sofferenze che avete dovuto sopportare. Siate sicuri della mia solidarietà con voi nell’immensa opera di ricostruzione che ora vi sta davanti e delle mie preghiere che l’embargo sia presto tolto”.
A Betlemme, ne sono arrivati da Gaza una cinquantina sui 250 cristiani che ne avevano fatto richiesta alle autorità israeliane; con loro il parroco padre Musallam.
(preghiera dei fedeli in arabo)
Anche alla preghiera dei fedeli si è pregato in arabo per i bambini palestinesi di Gaza rimasti uccisi nel conflitto, orfani e che vivono nella miseria e nella paura. E del dopoguerra a Gaza ha parlato nel suo indirizzo di saluto al Papa, anche il Patriarca latino di Gerusalemme mons. Twal il quale ha ricordato l’ingiustizia, l’occupazione e la mancanza di speranza – soprattutto per i giovani - causa di emigrazione di molti cristiani dalla Terra Santa:
“No one can pretend to own this land...
Nessuno può pretendere di possedere questa terra al posto degli altri ed escludendo gli altri. – ha detto – Dio stesso ha scelto questa terra e vuole che tutti i suoi figli vi vivano insieme”.
Ma – ha ribadito mons. Twal – finché l’instabilità politica perdura, finchè si estende il muro che separa Betlemme da Gerusalemme e dal resto del mondo, noi non potremo trovare la pace per la nostra terra”.
(canto)
Il Papa al presidente Abbas: la Santa Sede appoggia i diritti dei palestinesi. Ai giovani: resistere alla tentazione del terrorismo
Benedetto XVI partecipa la speranza che il popolo palestinese possa avere una “patria sovrana”, implorando una “pace giusta e durevole” in tutta la regione mediorientale: sono questi i temi affrontati dal Papa durante l'incontro col presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas nella cerimonia di benvenuto a Betlemme che si è svolta nel piazzale antistante il Palazzo presidenziale. Il servizio di Roberta Gisotti.
“So quanto avete sofferto e continuate a soffrire” per le agitazioni “che hanno afflitto questa terra per decine di anni”, ha esordito Benedetto XVI rivolto al presidente Abbas e a tutti gli amici palestinesi, incontrati a Betlemme, nella città natale di Gesù, raccogliendo l’invito a visitare i Territori autonomi. Benedetto XVI ha espresso solidarietà al popolo palestinese “che ha perduto così tanto”, partecipando alla sofferenza di quanti “piangono la perdita di familiari e di loro cari nelle ostilità”, ed offrendo il conforto delle sue preghiere quotidiane per loro. “Imploro ardentemente” – ha invocato il Papa - “una pace giusta e durevole, nei Territori palestinesi e in tutta la regione”.
“Mr President, the Holy See supports the right of your people...”
Benedetto XVI ha rassicurato il presidente Abbas che la Santa Sede appoggia “il diritto del popolo palestinese ad una “sovrana patria” nella terra degli antenati, “sicura e in pace” con i vicini, “entro confini internazionalmente riconosciuti”. E se questo obiettivo oggi sembra ancora “lontano dall’essere realizzato”, il Papa ha incoraggiato “a tenere viva la fiamma della speranza”,“che si possa trovare una via di incontro tra le legittime aspirazioni tanto degli Israeliani quanto dei Palestinesi alla pace e alla stabilità”.
Da qui la supplica a “tutte le parti coinvolte in questo conflitto di vecchia data ad accantonare qualsiasi rancore e contrasto” perché “i diritti e la dignità di tutti siano riconosciuti e rispettati”.
“I ask all of you, I ask your leaders, to make a renewed commitment...”
Ha chiesto il Santo Padre “di riprendere con rinnovato impegno ad operare per questi obiettivi”, con il sostegno della comunità internazionale, confidando che “un onesto e perseverante dialogo, con pieno rispetto delle aspettative di giustizia”, possa portare “in queste terre una pace durevole”. E condizione essenziale è risolvere “i gravi problemi” della sicurezza in Israele e nei Territori palestinesi “cosi da permettere maggiore libertà di movimento”, specie per i contatti familiari e l’accesso ai luoghi santi. “I Palestinesi così come ogni altro popolo – ha ricordato il Papa - hanno un naturale diritto a sposarsi, a formarsi una famiglia e avere accesso al lavoro, all’educazione e all’assistenza sanitaria”. E così anche ha sollecitato Benedetto XVI, la ricostruzione di case, scuole, ospedali danneggiati o distrutti, specie nel recente conflitto di Gaza. Infine un appello ai giovani:
“Do not allow the loss of life and the destruction that you have witnessed...
Non permettete che le perdite di vite e le distruzioni, delle quali siete stati testimoni suscitino amarezze o risentimento nei vostri cuori. Abbiate il coraggio di resistere ad ogni tentazione che possiate provare di ricorrere ad atti di violenza o di terrorismo. Al contrario, fate in modo che quanto avete sperimentato rinnovi la vostra determinazione a costruire la pace”.
Da parte sua il presidente palestinese ha ribadito “la necessità di due Stati sovrani Israele e Palestina che vivano accanto in un clima di pace e stabilità”. Siamo per la pace - ha detto - e continuiamo ad avere speranza in un domani senza più occupazione, profughi o prigionieri, fondato sulla coesistenza pacifica e la prosperità. Ma ha poi lamentato che in quella Terra si costruiscono ancora muri e non ponti, riferendosi in particolare al muro che circonda Gerusalemme est, acuendo quindi le sofferenze del popolo palestinese; ha parlato anche di aggressione israeliana a Gaza e del tentativo– a suo dire - per mezzo dell’occupazione di costringere cristiani e musulmani all’esilio.
Commento da Betlemme: le parole piene di amore del Papa ci danno coraggio e speranza!
Benedetto XVI è stato accolto a Betlemme, il luogo della nascita di Gesù, in un clima di grande commozione. Sulle parole pronunciate dal Santo Padre si sofferma, al microfono di Fabio Colagrande, il dottor Geries Sa’ed Khourry, direttore del Centro Al-Liqa’ di Betlemme per la promozione della tolleranza e dell’amicizia tra cristiani, musulmani ed ebrei:
R. – Le parole di Sua Santità hanno commosso tutti: hanno commosso non soltanto i giovani, ma tutti noi. Quando ha detto: “Bisogna resistere, non bisogna scappare, bisogna sperare, bisogna rimanere qua!”. E’ un messaggio molto importante per la Chiesa locale. Noi crediamo nel dialogo, crediamo nell’incontro sia religioso sia culturale; noi crediamo nella costruzione di ponti e non muri tra popoli e tra religioni. Perciò, i giovani sono molto importanti per il futuro della presenza viva della Chiesa locale.
D. – Lei crede davvero che, nonostante le grandi difficoltà che stanno vivendo i Territori palestinesi, questo seme di speranza e di pace possa maturare?
R. – Come popolo palestinese, abbiamo sofferto per più di 60 anni, e tuttora stiamo soffrendo. Ma quando sentiamo queste parole, che danno coraggio, quando sentiamo parole che sono piene di amore, piene di fede, per noi sono veramente parole che ci danno speranza per un futuro migliore. Noi palestinesi cristiani dobbiamo continuare a far sentire la nostra voce profetica che chiede la giusta pace in Terra Santa sia per il popolo palestinese sia per i nostri fratelli israeliani, noi vogliamo solo una cosa: uno Stato palestinese per il nostro popolo che ha sofferto, affianco allo Stato israeliano: che vivano in pace l’uno vicino all’altro!
Padre Shomali e suor Nobs sulla visita del Papa al Campo profughi di Aida e al Caritas Baby Hospital
Nel pomeriggio il Pontefice visiterà la Grotta della Natività e, a seguire, il Caritas Baby Hospital di Betlemme e il Campo profughi di Aida, dove incontrerà - come è stato a Gerusalemme per la famiglia del soldato Shalit prigioniero di Hamas - due coppie, una cristiana e l’altra musulmana, che hanno i propri figli detenuti in Israele. Inoltre il Papa donerà 50 mila euro al Campo, che li utilizzerà per la costruzione di tre aule scolastiche che saranno intitolate a suo nome. Secondo l’Onu i profughi palestinesi sono circa 4 milioni e 600 mila. Nei territori palestinesi gli sfollati sono un milione e 300 mila. Il campo profughi di Aida accoglie circa 7 mila persone. Sulla situazione in questo campo ci parla padre William Shomali rettore del seminario di Beit Jala, al microfono di Roberto Piermarini:
R. – Il Campo profughi di Aida è uno dei tre campi che si trovano a Betlemme; era un terreno che apparteneva alla popolazione cristiana di Beit Jala. Hanno costruito prima di tutto qualche tenda, all’inizio, nel ’48; dopo hanno costruito delle case che adesso sono come tutte le altre case di Betlemme, quelle più povere, con strade malmesse: le fognature sono spesso inesistenti. La popolazione non arriva a più di sei, sette mila persone, per la maggior parte musulmana eccetto qualche famiglia cristiana che aveva dei terreni là e vi ha costruito.
D. – Come vivono queste poche famiglie cristiane all’interno di questo campo profughi, a maggioranza musulmana?
R. – Dipende. C’è qualcuno che vive meglio: non sono mendicanti, direi che sono persone normali.
D. – Sono in armonia con la comunità musulmana?
R. – Direi di sì perché ogni volta che noi cristiani siamo minoritari, non c’è problema. Il problema arriva quando siamo maggioritari, come a Betlemme o in altre città dove il numero è consistente: ma quando siamo un due per cento, non siamo oggetto di minaccia per nessuno.
D. – Quali problematiche ci sono all’interno di questo campo di Aida?
R. – Questa gente vuol ritornare alla sua casa di origine: hanno lasciato la propria terra, la casa, i familiari. Ogni anno la situazione diventa più difficile perché i primi profughi, quelli del ’48, sono quasi tutti morti. Ci sono i figli, ma dopo tre generazioni, la possibilità di ritornare, diventa meno probabile. Dunque, una certa disperazione di ritornare, esiste, sapendo che gli israeliani non vogliono il ritorno dei profughi. Hanno messo questa condizione per qualsiasi soluzione al problema. Forse permetteranno il ritorno dei profughi all’interno dei Territori palestinesi, ma mai all’interno di Israele. (Montaggio a cura di Maria Brigini)
Prima di arrivare al Campo profughi di Aida, il Papa si reca al Caritas Baby Hospital di Betlemme: un ospedale pediatrico fondato nel 1978 e sostenuto dai vescovi svizzeri e tedeschi. Assicura circa 30 mila prestazioni ambulatoriali e 4 mila degenze all’anno anche grazie all’impegno delle Suore Francescane Elisabettiane di Padova. Roberto Piermarini ne ha parlato con suor Erika Nobs, direttrice delle infermiere dell’ospedale:
R. – Assistiamo i bambini palestinesi che vengono da Betlemme e dalla circoscrizione di Hebron, dalla parte sud del West Bank.
D. – Quindi, sono tutti bambini musulmani, la maggior parte?
R. – La maggior parte sono bambini musulmani, la stragrande maggioranza: il 90 per cento e anche più.
D. – Che rapporto avete con le famiglie musulmane che portano a voi questi bambini?
R. – Di solito un buon rapporto: loro sono contenti e grati per il servizio che diamo. Siamo l’unico ospedale ed hanno veramente bisogno di noi. Ed anche per questo sono grati.
D. – Cosa curate in particolare?
R. – Curiamo tutte le malattie interne e anche tante malattie genetiche, malattie metaboliche, malattie del cuore, dovute al matrimonio tra consanguinei.
D. – Quali sono le difficoltà maggiori che incontrate nel vostro lavoro, nell’ospedale?
R. – Le difficoltà sono quelle del trasferimento a Gerusalemme, quando un bambino ha bisogno di un intervento chirurgico. E’ una grande difficoltà, perché senza permessi non possono partire. Si devono, poi, coordinare le ambulanze. Una nostra ambulanza deve andare al check-point e dall’altra parte deve venire l’ambulanza da Israele, e questo crea difficoltà, perché i bambini a volte sono molto ammalati, ma devono, in ogni caso, cambiare l’ambulanza.
D. – I bambini che voi accogliete nel vostro ospedale, la maggior parte non pagano, non hanno la possibilità di pagare. Ma come va avanti l’ospedale economicamente, avete dei donatori?
R. – Noi abbiamo tanti donatori e siamo grati a tutti gli amici che ci aiutano a portare avanti l’opera: amici dall’Italia, amici dalla Germania, dalla Svizzera, dall’Europa e anche altrove. Possiamo veramente fare una buona opera.
D. – Suor Erika, perché questa visita del Papa al Caritas Baby Hospital? Come vede lei questa visita?
R. – Devo dire che siamo tanto contenti di questa visita, di questa sorpresa che ci fa il Santo Padre. Ma io penso che oltre a visitare i luoghi santi, cioè il luogo dove Gesù è nato, lui voglia vedere anche i bambini Gesù viventi, che abbiamo nel nostro ospedale. (Montaggio a cura di Maria Brigini)
Domani la visita a Nazareth: intervista con mons. Marcuzzo
Domani Benedetto XVI visiterà Nazareth, nella penultima giornata del suo pellegrinaggio in Terra Santa. Nella mattinata presiederà la Messa presso il Monte del Precipizio. Nel pomeriggio incontrerà i capi religiosi della Galilea nella Basilica dell’Annunciazione e visiterà la Grotta del “sì” di Maria all’Arcangelo Gabriele. La celebrazione dei Vespri nel Santuario concluderà la giornata. Sul significato di questa visita del Papa a Nazareth, Roberto Piermarini ha sentito mons. Giacinto-Boulos Marcuzzo, vicario patriarcale latino per Israele:
R. – Il tema principale è la famiglia, per due motivi. Prima di tutto, naturalmente, perché Nazareth è il luogo della Sacra Famiglia di Nazareth, e anche perché la Chiesa locale di Terra Santa – Giordania, Israele, Palestina – conclude quest’anno l’Anno della Famiglia: è da tre anni che noi stiamo concentrando tutti i nostri sforzi intorno alla Famiglia e siamo contentissimi che il Papa possa anche benedire la prima pietra di un progetto molto caro a Giovanni Paolo II: il famoso Centro internazionale per la spiritualità della famiglia, che si costruirà a Nazareth.
D. – In ogni viaggio del Papa si parla di attentati, di minacce – immancabilmente. Perché in questo viaggio si fa riferimento però anche a minacce fatte a Nazareth?
R. – Perché Nazareth, negli anni tra il 1997 e il 2002, ha vissuto momenti poco belli nella coesistenza interreligiosa. Grazie a Dio, questi momenti ora sono superati: adesso le relazioni sono buone – tradizionalmente erano ottime! Infatti, quell’episodio della famosa moschea da costruirsi nel centro di Nazareth era qualcosa veramente di non naturale, venuto quasi da fuori e soprattutto molto politicizzato. Allora, queste tensioni sono un po’ collegate a quei ricordi che adesso sono sorpassati, e adesso la comunità di Nazareth – i cristiani, naturalmente, ma anche i musulmani – accolgono con amore, con calore, il Papa.
D. – Lei, eccellenza, personalmente, che cosa si aspetta da questa visita del Papa a Nazareth?
R. – Abbiamo in Terra Santa ancora oggi una comunità di cristiani composta dai discendenti della prima comunità cristiana fondata da Gesù Cristo stesso. Che il Papa venga e possa incontrare questa comunità è molto, molto significativo! Per noi il Papa è Pietro, la roccia sulla quale vogliamo fondare la nostra presenza, il nostro radicamento qui, le nostre relazioni con gli altri. E’ la pietra sicura …
Padre Lombardi: giornata splendida a Betlemme!
Sulla visita del Papa a Betlemme ascoltiamo il commento del direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, al microfono di Sergio Centofanti:
R. – E’ una giornata splendida, c’è un’accoglienza molto calorosa … La Messa è una vera, grande festa con una partecipazione estremamente cordiale dei cristiani che non solo sono quelli di Betlemme ma sono anche venuti dalla West Bank e un gruppo è venuto anche da Gaza … quindi, è un momento veramente di gioia. E nonostante le difficoltà che qui le comunità cristiane vivono e che sono state ricordate con molta efficacia anche dal Santo Padre - oltre che dal patriarca latino Twal - però è un messaggio di speranza, quello che porta il Papa, di grande solidarietà della Chiesa universale con queste comunità cristiane, e anche di speranza, perché continuino ad impegnarsi qui, ad essere ponti di riconciliazione in Paesi di tensione, e ad essere testimoni, i custodi – diciamo – come comunità viva dei Luoghi più santi della nostra religione.
D. – Come sono state accolte dai palestinesi le espressioni di solidarietà del Papa?
R. – Bè, naturalmente sono state accolte con grandissima gioia: è quello che loro desiderano, è quello di cui sentono il bisogno; però, bisogna notare sempre che le espressioni di solidarietà del Papa sono unite ad un incoraggiamento, ad uno spirito di pace e di riconciliazione. Ci sono state le parole chiare del Papa soprattutto per i giovani, di non cedere alla tentazione del terrorismo e della violenza. Quindi, il Papa continua a dare un messaggio che è chiarissimamente orientato alla pace e al superamento delle divisioni. Lo ha fatto in Israele, lo ha fatto con i musulmani e lo fa anche qui con i palestinesi.
D. – E’ un pellegrinaggio di pace che cerca di mettere insieme le legittime aspirazioni dei palestinesi e degli israeliani …
R. – Certamente: questo il Papa lo ha ripetuto molto chiaramente, soprattutto nel discorso all’arrivo qui, al Palazzo presidenziale di Mahmoud Abbas, dicendo chiaramente il sostegno della Santa Sede per la linea di due Stati sovrani, indipendenti, con confini internazionalmente riconosciuti che vivano in pace. Tra l’altro, due Stati che vivono così vicini sono anche interrelati da tantissimi rapporti di carattere sociale, economico, umano … Ecco, la pace può essere fatta solo se queste entità statali crescono in un clima in cui poi anche tutti i tessuti umani siano di riconciliazione e di pace.
Gerusalemme: concerto per la riconciliazione
In occasione della visita del Santo Padre in Terra Santa, si terrà stasera a Gerusalemme un grande evento internazionale di musica e danza per favorire l'unità e la pace tra i popoli: il concerto per la Riconciliazione, patrocinato dal Comune di Roma, ed organizzato da Sat2000, l'emittente satellitare dei Vescovi italiani. Il concerto avrà come scenario l'anfiteatro romano di Bet She'an, che potrà ospitare oltre 7000 persone. Sul palco canteranno star e reciteranno e balleranno ragazzi di fede ebraica, cristiana e musulmana. Il servizio di Debora Donnini:
(musica)
“Se l’Eden si trova in Israele le sue porte sono a Bet She’an” dice la tradizione ebraica. E’ proprio questa cittadina della Galilea infatti ad ospitare il concerto per la Riconciliazione. Nello splendido palco dell’anfiteatro romano musicisti e cantanti, ballerini professionisti e ragazzi di fede musulmana, ebraica e cristiana daranno vita ad uno spettacolo per parlare della pace, anzi per mostrare come si costruisce la pace: dai cuori delle persone, come tante volte ha ricordato il Papa in questo viaggio. Tanti gli artisti attesi. Presente anche il coro del Magnificent Institute composto da 20 bambine ebree, cristiane e musulmane, così come l’orchestra di 150 persone. Francesco Porcelli, produttore esecutivo del concerto e responsabile delle produzioni di Sat 2000.
“E’ una risposta concreta che si vuol dare: questa sensibilizzazione che il Santo Padre cerca di fare sul processo di pace in Terra Santa. Quindi, si è partiti da questa considerazione e si è arrivati appunto alla conclusione che bisogna frapporre fra i due popoli uno spartito, l’arte, che comunque li accomuna”.
Uno dei pezzi forti dello spettacolo è senz’altro la performance del gruppo di teatro della Fondazione “Beereshit-In principio la Shalom” fondato da Angelica Livne Calò, che da anni insegna a bambini ebrei e arabi, cristiani e musulmani, a dialogare attraverso le arti, prima fra tutte il teatro. I ragazzi appaiono sul palco con maschere e tuniche bianche, ma questo momento sarà spezzato da un litigio e dallo strappo delle tuniche sotto le quali si accorgeranno di essere vestiti chi di viola, chi di arancione, i due colori più lontani fra loro nella scala cromatica. Scoppia dunque la guerra. Quando però due ragazzi usciti dal gruppo si tolgono la maschera, scoprono di avere un volto, infrangendo una convenzione anche teatrale. Allora prende il via una bellissima danza, due di loro però non riescono a togliersi la maschera.
Ad aiutarli una voce fuori campo che legge un brano di Anna Frank: perché, si chiedeva la giovane ragazza ebrea, si spendono tanti soldi per le armi e non per i poveri. Dopo queste parole e l’offerta del pane da parte di un bimbo, anche gli ultimi due ragazzi riescono a togliersi la maschera. E il pane viene distribuito a tutto il pubblico. Vedere il volto dell’altro, la sua umanità, è il primo passo, come ci spiega la stessa Angelica Livne Calò:
“Nel momento in cui ti togli la maschera vedi il volto, vedi che c’è un sorriso, vedi che ci sono delle gote come le tue, vedi che puoi parlare con questa persona e questa persona è diversa dalla tua identità, ma è un essere umano come te. Per cui tu hai meno paura. Le guerre nascono dalle paure. Noi siamo nati per amare, per vivere, siamo nati per creare, per procreare, per cui si spera che togliendoci una maschera, sia poi quello che ci aiuta ad avvicinarci”.
Gran finale le note di “we are the world”, cantato in ebraico, arabo e inglese perché come ricorda il filo conduttore della serata, lì dove non arrivano le parole, posso arrivare l’arte. Ad Angelica abbiamo chiesto ancora cosa suscita in lei questa visita del Papa:
“Suscita molta speranza e tutto ciò che può creare amicizia, il calare di certe maschere, l’avvicinamento di persone è la cosa più inestimabile e più importante che abbiamo in questo momento. Io spero che questa visita porti una buona svolta nella storia, che ci aiuti, in un momento come questo così difficile, a creare nuovi orizzonti, diversi per lo meno per le nuove generazioni. Poi questo spettacolo, secondo me, è una cosa molto importante perché è attraverso l’arte, la musica, tutti i gesti universali che si possono unire le persone. Riusciamo per lo meno a dare un buon esempio di speranza per il futuro, che è quello che di cui tutti abbiamo bisogno in questo momento. Abbiamo bisogno di piccoli miracoli”.
Il saluto del patriarca Twal: finché il muro separerà Betlemme dal mondo, non ci potrà essere pace
All'inizio della Messa nella Piazza della Mangiatoia di Betlemme il patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal ha rivolto il suo indirizzo di saluto al Papa. Ecco il testo integrale di questo saluto.
Santissimo Padre,
In nome dei miei fratelli i vescovi cattolici di Terra Santa; in nome di tutte le Chiese locali di Gesù Cristo presenti su questa terra; in nome di tutti gli abitanti e visitatori di questa terra santificata dalla nascita, dalla vita, dalla morte e dalla resurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo, Le do il benvenuto oggi a Betlemme.
Noi L’accogliamo come successore di san Pietro, al quale il Cristo ha dato la missione di “confermare i suoi fratelli”: Lei è tra noi come nostre padre e nostro fratello. La sua presenza qui oggi significa che noi siamo sempre presenti nel cuore e nello spirito della Chiesa universale, che la Chiesa cattolica tutta intera è con noi e per noi. Le Sue preghiere e le preghiere della Chiesa ci sostengono e ci danno un coraggio rinnovato per servire Nostro Signore in questa terra.
Solamente ad alcuni metri di qui, Nostro Signore Gesù Cristo è nato; il Verbo di Dio s’è reso visibile. Dio ha visitato il suo popolo per essere l’Emmanuele, per “essere con noi”; ed egli continua a venire, per essere con noi tutti i giorni. In questa terra, il messaggio degli angeli di Dio è stato sentito dai più poveri e dai più piccoli: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace al suo popolo”. Tale è stato il messaggio celeste ricevuto dai nostri antenati, i pastori di Betlemme. Tale è il messaggio che continua ad essere proclamato tutti i giorni. Se tale è il messaggio della nostra terra e di Betlemme per il mondo, la nostra vocazione-missione in questa terra martirizzata è quella di glorificare Dio e di espandere la Sua pace sulla terra. Questo messaggio rappresenta un compito e una missione quotidiana. Esso si traduce nell’impegno della Chiesa a servire la pace e la riconciliazione, a sostenere i poveri, a fortificare i deboli, a comunicare la speranza a coloro che disperano. Per questa missione, noi abbiamo bisogno del Suo sostegno e delle Sue preghiere.
Santissimo Padre, questa terra dove Gesù ha scelto di vivere per salvare il mondo, ha bisogno di pace, di giustizia e di riconciliazione. Le nostre ferite hanno bisogno di essere guarite, i prigionieri d’essere rilasciati, i nostri cuori d’essere purificati dall’odio, e il nostro popolo di vivere in pace e in sicurezza. Il nostro popolo soffre e continua a soffrire l’ingiustizia, la guerra (la guerra di Gaza è ancora una ferita aperta per centinaia di migliaia di persone), l’occupazione e la mancanza di speranza in un avvenire migliore. Quando noi abbiamo accolto il Suo predecessore, il papa Giovanni Paolo II, noi avevamo la speranza di pervenire alla pace, ma questa pace non è mai venuta. Molti hanno allora abbandonato ogni speranza e hanno lasciato la Terra Santa per andare in cerca di un avvenire migliore in altri paesi. Ecco perché il numero dei Palestinesi, soprattutto cristiani, è diminuito e continua a diminuire. Finché noi non troveremo la pace e la tranquillità, ho paura che questo continui. Finché l’instabilità politica perdura, finché si estende il muro che separa Betlemme da Gerusalemme e dal resto del mondo, noi non potremo trovare la pace per la nostra terra.
Santissimo Padre, i cittadini di Betlemme e dei Territori palestinesi sono venuti ad accoglierLa e a pregare con Lei: cattolici e cristiani di tutte le Chiese, mussulmani e rappresentanti dell’Autorità palestinese, noi siamo venuti tutti per rinnovare il nostro impegno a favore di una pace giusta, una pace che dia a ciascun individuo e ad ogni popolo di vivere degnamente in questa terra; una pace che permetta ai genitori di non avere paura per i loro figli e la loro sicurezza; una pace che dia ai giovani di condurre una vita normale e di costruire il loro avvenire; una pace che permetta a questa Terra Santa di adempiere la sua vocazione: glorificare Dio e vivere in pace.
Noi siamo coscienti della vocazione di questa terra di essere aperta a tutti i credenti, a lodare Dio, a essere una terra di armonia e di coesistenza pacifica, una terra dove tutti i credenti in uno stesso Dio possono sperimentare che essi “sono nati qui” (Sm 87). Nessuno può pretendere di possedere questa terra al posto degli altri ed escludendo gli altri. Dio stesso ha scelto questa terra, e vuole che tutti i suoi figli vi vivano insieme.
Santissimo Padre, noi siamo venuti qui per pregare con Lei e per ascoltarLa. Noi tutti vediamo in Lei un messaggero di pace, un capo spirituale che difende i poveri e gli oppressi, un padre e un fratello che porta un messaggio d’amore e di solidarietà.
Per finire, noi vogliamo ridirLe il nostro impegno a vivere e ad espandere la Buona Novella di Gesù Cristo: alla Sua presenza, la Chiesa cattolica rinnova la sua fede in Nostro Signore Gesù Cristo, il suo amore per Dio e per il prossimo, e la sua speranza nei disegni misericordiosi di Dio per noi tutti.
Che Dio e il nostro Salvatore siano con Lei, che La sostengano e La guidino nella Sua missione e nella Sua opera costante in favore della pace e della riconciliazione.
Benedetto XVI cammina su un filo religioso
Cercando di portare avanti il suo messaggio nonostante le critiche
di padre Thomas D. Williams, LC
GERUSALEMME, mercoledì, 13 maggio 2009 (ZENIT.org).- Questa mattina ci siamo svegliati a Gerusalemme con i titoli dei giornali che sottolineavano la presunta inadeguatezza del rimorso di Papa Benedetto XVI nella sua visita al Memoriale dell'Olocausto Yad Vashem questo lunedì e nel suo incontro con sei sopravvissuti all'Olocausto. Le critiche avevano più a che vedere con le omissioni – ciò che i critici pensavano avrebbe dovuto essere detto – che con ciò che il Papa ha effettivamente fatto e detto.
Nonostante il suo ricordo esplicito della Shoah nel primo discorso pronunciato in Israele e la sua inequivocabile condanna dell'antisemitismo (“Ogni sforzo deve essere fatto per combattere l'antisemitismo dovunque si trovi”), molti commentatori hanno affermato che non è stato abbastanza. Alcuni hanno detto che le parole “nazista” e “assassinio” non erano comparse nel suo discorso allo Yad Vashem, altri hanno dichiarato che il Papa avrebbe dovuto scusarsi per la presunta complicità cattolica nell'Olocausto. Altri ancora hanno criticato il Pontefice per essere stato arruolato nell'esercito tedesco (anche se poi ha disertato) e per aver mostrato una scarsa emozione nel suo discorso allo Yad Vashem.
Di fronte a questa ondata di critiche si sa a malapena da dove iniziare (ho solo grattato la superficie). Sembra che alcuni degli ascoltatori del Santo Padre non sarebbero mai stati soddisfatti per ciò che poteva dire o fare, a meno che non fosse caduto in ginocchio pregando la terra di inghiottirlo nella vergogna più totale. In cambio di quello che mi è sembrato un approccio sincero e umile di pace e riconciliazione, il Santo Padre è stato rimproverato come se fosse personalmente responsabile della sofferenza ebraica nel mondo.
Ho cercato invano di spiegare a molti israeliani che il Papa non è un uomo che esprime apertamente le sue emozioni, per cui qualunque dimostrazione di angoscia che si aspettavano da lui non corrisponderebbe alla sua natura. Li ho invitati a guardare maggiormente alla decisione personale del Pontefice di affrontare la questione in un modo così franco e di visitare il Memoriale dell'Olocausto come momento forte del suo primo giorno in Israele (il che non gli era stato certo richiesto), come dimostrazione della sua profonda vicinanza. Purtroppo queste argomentazioni non sono servite.
Nel frattempo, dall'altro estremo, le reazioni sono altrettanto appassionate. Questa mattina ho ricevuto una forte e-mail di un cristiano di Gaza che mi aveva visto al telegiornale e ha obiettato nei confronti dell'attenzione quasi esclusiva data agli ebrei nei resoconti di questa visita. Il suo lungo messaggio, intitolato “E noi?”, elencava una serie di lamentele contro il trattamento dei palestinesi da parte dello Stato di Israele. “Forse lei ha dimenticato”, ha scritto, “che Israele è stato costruito sul sangue e sulle case di migliaia di palestinesi cattolici e cristiani”. “Forse ha dimenticato che Israele sta costruendo un muro di apartheid, in qualche modo peggiore del muro di Berlino e di quello sudafricano”, ha aggiunto.
Per un momento mi sono sentito in piccola parte partecipe di ciò che il Santo Padre deve sperimentare mentre cerca di navigare per le secche estremamente difficili del teso sentimento religioso che permea questa regione. Come un uomo che cammina su un filo spirituale, basta che si pieghi leggermente a sinistra o a destra e viene immediatamente etichettato come insensibile o malvagio. Ancora peggio, anche quando cerca di raggiungere il perfetto equilibrio non è mai sufficiente. Sembra che molti osservatori non si interessino minimamente delle reali intenzioni del Papa per questo pellegrinaggio o del contenuto positivo del suo messaggio, e passano tutte le sue parole e le sue azioni al microscopio alla ricerca di qualcosa in cui trovare un errore.
Malgrado tutto questo, il Papa sembra notevolmente sicuro di sé e sereno, segno della profondità delle sue convinzioni spirituali e della sua grande fiducia che la grazia di Dio porti abbondanti frutti da questa visita. Le sue giornate sono letteralmente piene di attività, a volte una ogni ora, e nonostante questo ha un costante buonumore.
Un uomo che almeno in apparenza è sembrato più in sintonia con Papa Benedetto è stato il Presidente di Israele, Shimon Peres. In un importante passaggio del suo discorso di benvenuto al Santo Padre, è sembrato che abbia captato meglio di chiunque altro l'importanza della sua visita apostolica. “I leader spirituali possono spianare la strada ai leader politici”, ha detto. “Possono liberare i campi minati che ostacolano la via per la pace. I leader spirituali dovrebbero ridurre l'animosità, così che i leader politici non ricorrano a mezzi distruttivi”. A quanti hanno criticato il viaggio papale definendolo inefficace, le parole di Peres sono sembrate incisive e lungimiranti. “Non abbiamo bisogno di più veicoli blindati”, ha aggiunto Peres, “ma di una leadership spirituale ispirata”. E' ciò che Benedetto XVI sta rappresentando in questa terra martoriata.
Da un punto di vista più “leggero”, mi sono piaciute le mie frequenti corse in ascensore a Gerusalemme per via di una piccola placca ironica che vi ho trovato. Gli ascensori in Israele sono perlopiù costruiti da una compagnia che si chiama Schindler. E visto che qui viene usato l'inglese britannico, chi viaggia in ascensore viene portato su e giù dagli “Schindler Lifts”.
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*Padre Thomas D. Williams, Legionario di Cristo, è un teologo statunitense che vive a Roma. Attualmente sta seguedo per la CBS News la storica visita di Benedetto XVI in Terra Santa. Per l'occasione ha deciso di scivere una cronaca del viaggio anche per ZENIT.
[Traduzione dall'inglese di Roberta Sciamplicotti]
www.radiovaticana.org/it1/videonews_ita.asp?anno=2009&videoclip=839&sett...
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