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Da "Vatican Insider"

10/02/2014

Da Pontefice a “pellegrino”: gli ultimi giorni di Ratzinger Papa

Dall’11 febbraio 2013, rinuncia al pontificato, al 28 febbraio, volo in elicottero e chiusura del portone di Castel Gandolfo: i 18 giorni con cui si è congedato Benedetto XVI

Iacopo Scaramuzzi
Città del Vaticano

“Fratres carissimi, non solum propter tres canonizationes ad hoc Consistorium vos convocavi…”. Sembrava una giornata normale, l’11 febbraio 2013, finché Benedetto XVI non iniziò a leggere quelle parole in latino. Nel palazzo apostolico, evento di routine, si stava concludendo un concistoro ordinario pubblico per la canonizzazione dei martiri di Otranto. In Vaticano, anniversario dei Patti Lateranensi, era giorno di festa. Oltre il Tevere la campagna elettorale era in dirittura d’arrivo, le redazioni italiane a tutto pensavano furoché al Papa. In sala stampa, aperta con orario ridotto, erano presenti una manciata di giornalisti di diversi paesi. Conclusa la cerimonia, trasmessa dalle telecamere del circuito interno, Joseph Ratzinger prende in mano un foglio e annuncia la rinuncia al suo pontificato e l’inizio della sede apostolica vacante a partire dal 28 febbraio. “… Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino…”. Alle 11.46 Giovanna Chirri dell’Ansa, forte della sua conoscenza del latino, dà il primo flash di agenzia: “Papa lascia pontificato dal 28/2”. La notizia fa il giro del mondo assieme alle immagini dell’anziano Papa tedesco che parla in latino affiancato da un monsignore con gli occhi strabuzzati.

La stagione dei Vatileaks, la fuga dei documenti riservati della Santa Sede, si era conclusa da poco, ma della notizia della rinuncia di Benedetto XVI al ministero petrino non era filtrata alcuna anticipazione. Pochissimi erano stati preavvertiti dal Papa. L’annuncio è giunto “come un fulmine a ciel sereno”, ha commentato, leggendo un testo, il decano del collegio cardinalizio Angelo Sodano, uno dei pochi a essere stato preavvisato. A posteriori, certo, qualche indizio era stato disseminato nel corso del tempo. Non tanto il secondo comma del canone 332 del diritto canonico, che regolamenta l’eventualità che il romano Pontefice rinunci al suo ufficio. Né il fatto che proprio Joseph Ratzinger fu incaricato da Giovanni Paolo II – lo ha rivelato il postulatore della causa di canonizzazione Slawomir Oder – di studiare la sostenibilità storica e teologica di dimissioni che, poi, si risolse a non dare. Quanto l’affermazione, rilasciata da Ratzinger solo pochi anni prima, nel 2010, nel libro-intervista con il giornalista tedesco Peter Seewald, “Luce del mondo”, quando, pur escludendo, per il momento, l’eventualità, affermava, senza mezzi termini: “Quando un Papa giunge alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, psicologicamente e mentalmente di svolgere l’incarico affidatogli, allora ha il diritto ed in alcune circostanze anche il dovere di dimettersi”.

Vi erano stati poi segnali appena percepibili, nei mesi precedenti: un viaggio a Cuba, a marzo del 2012, che aveva particolarmente provato, da un punto di vista fisico, il Papa; l’annuario pontificio, solitamente pubblicato a inizio anno, che ancora non veniva stampato; un’udienza particolarmente commossa, pochi giorni prima dell’11 febbraio, al presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano in procinto di lasciare il Quirinale (ma, paradossalmente, mentre Ratzinger lasciò il soglio petrino, Napolitano poche settimane dopo fu rieletto a 87 anni…). Sullo sfondo, diversi scandali avevano scosso il Vaticano negli anni e mesi precedenti, dalla pedofilia allo Ior ai Vatileaks. Nel corso degli anni, sui giornali italiani, Antonio Socci e Giuliano Ferrara parlarono, con motivazioni diverse, dell’ipotesi che Joseph Ratzinger si dimettesse. Nessuno, a ogni modo, seppe prevedere né la tempistica, né le modalità, né le motivazioni addotte da Benedetto XVI l’11 febbraio 2013: “Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato…”.

Lo choc, dentro e fuori il Vaticano, fu grande. Nei giorni successivi all’annuncio della rinuncia, nel popolo dei fedeli, ma anche tra chi era più lontano dalla Chiesa, il gesto di Joseph Ratzinger fu visto con rispetto, simpatia, addirittura ammirazione. Tra il pubblico coro di assenso di cardinali, vescovi e monsignori, si levò qualche voce di distinguo. Il cardinale australiano Gorge Pell commentò che in futuro “ci potrebbero essere persone che essendo in disaccordo con un futuro Papa potrebbero montare una campagna contro di lui per indurlo alle dimissioni”. In Italia, il cardinale Camillo Ruini dichiarò: “Come cattolico e come sacerdote, ancor prima che come cardinale, ritengo che le decisioni del Papa non si discutano ma si accolgano, anche quando provocano dolore”. Il cardinale polacco Stanislaw Dziwisz, segretario personale di Giovanni Paolo II, affermò (salvo poi smentire che si trattasse di un riferimento critico) che “Wojtyla decise di restare sul Soglio pontificio fino alla fine della sua vita perché riteneva che dalla croce non si scende”. Concetto al quale Benedetto XVI sembrò fare riferimento quando, all’ultima udienza generale, il 27 febbraio, affermò: “Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso”. Il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, da parte sua, definì la decisione di Joseph Ratzinger un “atto di governo”.


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