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Il Papa: per redimere il mondo bisogna conoscere la Verità, Cristo
Anticipazioni del secondo volume del libro “Gesù di Nazaret”

di Roberta Sciamplicotti


CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 2 marzo 2011 (ZENIT.org).- “La non-redenzione del mondo” consiste “nella non-riconoscibilità della verità”, che “diventa riconoscibile se Dio diventa riconoscibile”, e ciò avviene “in Gesù Cristo”.

Papa Benedetto XVI lo afferma nel secondo volume del suo libro “Gesù di Nazaret”, che verrà presentato il 10 marzo e tratta dall’ingresso in Gerusalemme alla risurrezione. “L'Osservatore Romano” ha riportato alcuni stralci del testo.

Nel capitolo intitolato “Il processo a Gesù”, il Papa si chiede chi fossero i suoi accusatori.

Per Giovanni, l’unico che riferisce il colloquio tra Gesù e Pilato, sono semplicemente i “Giudei”. Questa espressione, sottolinea il Pontefice, “non indica affatto il popolo d’Israele come tale, ancor meno essa ha un carattere 'razzista'”, anche perché Giovanni stesso era israelita, così come l'intera comunità primitiva.

Nell'evangelista questa espressione indica l’aristocrazia del tempio, pur se con eccezioni come fa capire l'accenno a Nicodemo. In Marco gli accusatori sono anche i sostenitori di Barabba, che ne chiedono il rilascio al posto di Gesù. Matteo parla invece di “tutto il popolo”, anche se “sicuramente non esprime un fatto storico”.

Quanto al giudice, il governatore romano Ponzio Pilato, “sapeva che da Gesù non era sorto un movimento rivoluzionario”. Gesù “deve essergli sembrato un esaltato religioso, che forse violava ordinamenti giudaici riguardanti il diritto e la fede, ma ciò non gli interessava”, perché su di questo dovevano giudicare i Giudei.

“Sotto l’aspetto degli ordinamenti romani concernenti la giurisdizione e il potere, che rientravano nella sua competenza, non c’era nulla di serio contro Gesù”, ma nell'interrogatorio la sua risposta alla domanda “Dunque tu sei re?” - “Tu lo dici: io sono re” - cambia la situazione.

Il regno di Gesù “è non violento”, “non dispone di alcuna legione”, sottolinea Benedetto XVI. Con le sue parole, “Gesù ha creato un concetto assolutamente nuovo di regalità e di regno”, qualificando come essenza della sua regalità “la testimonianza alla verità”.

“Che cos’è la verità? Non soltanto Pilato ha accantonato questa domanda come irrisolvibile e, per il suo compito, impraticabile – indica il Pontefice –. Anche oggi, nella disputa politica come nella discussione circa la formazione del diritto, per lo più si prova fastidio per essa. Ma senza la verità l’uomo non coglie il senso della sua vita, lascia, in fin dei conti, il campo ai più forti”.

“Può la politica assumere la verità come categoria per la sua struttura?”, chiede il Papa.

“Dare testimonianza alla verità”, sottolinea, “significa mettere in risalto Dio e la sua volontà di fronte agli interessi del mondo e alle sue potenze”, vuol dire “rendere la creazione decifrabile e la sua verità accessibile in modo tale che essa possa costituire la misura e il criterio orientativo nel mondo dell’uomo”.

“Diciamolo pure: la non-redenzione del mondo consiste, appunto, nella non-decifrabilità della creazione, nella non-riconoscibilità della verità, una situazione che poi conduce inevitabilmente al dominio del pragmatismo, e in questo modo fa sì che il potere dei forti diventi il dio di questo mondo”.

“'Redenzione' nel senso pieno della parola può consistere solo nel fatto che la verità diventi riconoscibile. Ed essa diventa riconoscibile, se Dio diventa riconoscibile. Egli diventa riconoscibile in Gesù Cristo. In Lui Dio è entrato nel mondo, ed ha con ciò innalzato il criterio della verità in mezzo alla storia”.

Giuda

Nel capitolo “La lavanda dei piedi”, il Papa ricorda che Gesù, profondamente turbato, dichiara: “In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà” (Gv 13, 21).

“La rottura dell’amicizia giunge fin nella comunità sacramentale della Chiesa, dove sempre di nuovo ci sono persone che prendono 'il suo pane' e lo tradiscono”.

“Chi rompe l’amicizia con Gesù, chi si scrolla di dosso il suo 'dolce giogo', non giunge alla libertà, non diventa libero, ma diventa invece schiavo di altre potenze”.

“Tuttavia, la luce che, provenendo da Gesù, era caduta nell’anima di Giuda, non si era spenta del tutto. C’è un primo passo verso la conversione: 'Ho peccato', dice ai suoi committenti. Cerca di salvare Gesù e ridà il denaro. Tutto ciò che di puro e di grande aveva ricevuto da Gesù, rimaneva iscritto nella sua anima - non poteva dimenticarlo”.

La seconda tragedia, dopo il tradimento, è che Giuda non riesce più a credere a un perdono. Il suo pentimento diventa allora disperazione.

Giuda “ci fa così vedere il modo errato del pentimento”, sottolinea il Pontefice: “un pentimento che non riesce più a sperare, ma vede ormai solo il proprio buio, è distruttivo e non è un vero pentimento”.

“Fa parte del giusto pentimento la certezza della speranza – una certezza che nasce dalla fede nella potenza maggiore della Luce fattasi carne in Gesù”.

L'ultima cena

Il Papa ricorda anche che “Giovanni bada con premura a non presentare l’ultima cena come cena pasquale”.

“Ha ragione: al momento del processo di Gesù davanti a Pilato, le autorità giudaiche non avevano ancora mangiato la Pasqua e per questo dovevano mantenersi ancora cultualmente pure”. “La crocifissione non è avvenuta nel giorno della festa, ma nella sua vigilia”.

“Ma perché allora i sinottici hanno parlato di una cena pasquale?”, si chiede il Papa.

“Gesù era consapevole della sua morte imminente. Egli sapeva che non avrebbe più potuto mangiare la Pasqua. In questa chiara consapevolezza invitò i suoi ad un’ultima cena di carattere molto particolare, una cena che non apparteneva a nessun determinato rito giudaico, ma era il suo congedo, in cui Egli dava qualcosa di nuovo, donava se stesso come il vero Agnello, istituendo così la sua Pasqua”.

“Anche se questo convivio di Gesù con i Dodici non è stata una cena pasquale secondo le prescrizioni rituali del giudaismo, in retrospettiva si è resa evidente la connessione interiore dell’insieme con la morte e risurrezione di Gesù: era la Pasqua di Gesù”.














Il Papa: la vera libertà rifugge la violenza e l'inquietudine
In occasione dell'Udienza generale su san Francesco di Sales



ROMA, mercoledì, 2 marzo 2011 (ZENIT.org).- La vera libertà si può trovare solo in un amore incondizionato per Dio e non attraverso la violenza o l'inquietudine. E' quanto ha detto questo mercoledì Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale nell’Aula Paolo VI, dedicata a san Francesco di Sales (1567-1622).

Nel richiamare la figura di questo dottore della Chiesa, che fu Vescovo di Ginevra e fondatore con santa Giovanna di Chantal dell’Ordine della Visitazione, il Papa ha dapprima ricostruito la vicenda umana e sacerdotale di san Francesco di Sales, che seppe riconciliare in sé “l’eredità dell’umanesimo con la spinta verso l’assoluto propria delle correnti mistiche”.

Formatosi a Parigi e all’università di Padova, il santo francese, “riflettendo sul pensiero di sant’Agostino e di san Tommaso d’Aquino, ebbe una crisi profonda che lo indusse a interrogarsi sulla propria salvezza eterna e sulla predestinazione di Dio nei suoi riguardi, soffrendo come vero dramma spirituale le principali questioni teologiche del suo tempo”.

Ed è proprio nella capitale francese, allora ventenne, racconta nel Trattato dell’amore di Dio, che recandosi nella chiesa dei domenicani trovò la pace nella realtà radicale dell’amore di Dio, cioè nell'“amarlo senza nulla chiedere in cambio e confidare nell’amore divino”.

“All’origine di molte vie della pedagogia e della spiritualità del nostro tempo”, egli fu “apostolo, predicatore, scrittore, uomo d’azione e di preghiera; impegnato a realizzare gli ideali del Concilio di Trento; coinvolto nella controversia e nel dialogo con i protestanti, sperimentando sempre più, al di là del necessario confronto teologico, l’efficacia della relazione personale e della carità; incaricato di missioni diplomatiche a livello europeo, e di compiti sociali di mediazione e di riconciliazione”.

Nell’Introduzione alla vita devota, san Francesco di Sales invitava “a essere completamente di Dio, vivendo in pienezza la presenza nel mondo e i compiti del proprio stato”.

Ecco che in lui, ha detto il Papa, “si manifestava l’ideale di un’umanità riconciliata, nella sintonia fra azione nel mondo e preghiera, fra condizione secolare e ricerca di perfezione, con l’aiuto della Grazia di Dio che permea l’umano e, senza distruggerlo, lo purifica, innalzandolo alle altezze divine”.

Nella “regola” scritta a santa Francesca di Chantal, e su cui si formeranno santi come Giovanni Bosco e Teresa di Lisieux, san Francesco di Sales invitava a “fare tutto per amore, niente per forza - amar più l’obbedienza che temere la disobbedienza. Vi lascio lo spirito di libertà, non già quello che esclude l’obbedienza, ché questa è la libertà del mondo; ma quello che esclude la violenza, l’ansia e lo scrupolo”.

Una regola, ha osservato il Papa, che mette in crisi molti modelli attuali.

“In una stagione come la nostra – ha sottolineato infatti il Pontefice – che cerca la libertà, anche con violenza e inquietudine, non deve sfuggire l’attualità di questo grande maestro di spiritualità e di pace, che consegna ai suoi discepoli lo ‘spirito di libertà’, quella vera”.

“San Francesco di Sales – ha quindi concluso – è un testimone esemplare dell’umanesimo cristiano; con il suo stile familiare, con parabole che hanno talora il colpo d’ala della poesia, ricorda che l’uomo porta iscritta nel profondo di sé la nostalgia di Dio e che solo in Lui trova la vera gioia e la sua realizzazione più piena”.