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Paparatzifan
00mercoledì 24 febbraio 2010 19:27
Paparatzifan
00mercoledì 24 febbraio 2010 19:29
Da "Sottoosservazione’s Blog"

Joseph Ratzinger
By sottoosservazione

Leggenda nera e anima candida del Grande Inquisitore. Un bavarese un po’ orso e (quasi) progressista (1 ottobre 2000)

E’figlio di un gendarme, un gendarme tedesco. E già questo potrebbe bastare, per i tanti che in lui amano vedere solo il “carabiniere di Dio”, o il “Prefetto di ferro della fede” con l’attitudine alla repressione e la familiarità col manganello iscritte nel Dna. E’ vero. Suo padre fu effettivamente un gendarme, e lo fu al tempo del Terzo Reich. Ma era un gendarme di paese, un buon cattolico bavarese, e quando la polizia politica inviava i nomi dei presunti sospetti di antinazismo, lui, il signor Ratzinger, invece di spiarli correva ad avvisarli del pericolo. Considerava Hitler un criminale.

Anche il piccolo e gracile Joseph, nato la notte del Sabato Santo del 1927, imparò presto a detestare i nazisti e i loro riti pagani. Anche perché, nel seminario in cui entrò ad appena 12 anni, in ossequio alle moderne liturgie del Reich gli alunni erano costretti a due ore di attività sportive ogni giorno. “Per me, fisicamente inferiore a tutti i miei compagni, era una vera tortura” ricorderà il temuto “cardinale di acciaio”. Nel suo stemma episcopale ha voluto che fosse rappresentato un orso. L’orso cattivo che aveva sbranato il cavallo di san Corbiniano, e che per punizione fu obbligato dal santo a caricarsi i suoi pesanti bagagli e portarli fino a Roma. E a conoscerlo un po’, forse anche lui sente come una punizione del destino il servizio che è stato chiamato a svolgere nella Curia romana. Un po’ orso, comunque, nei rapporti umani Joseph Ratzinger lo è. Ormai è a Roma da vent’anni, ma al di là dell’ufficio frequenta poche persone. E a differenza di molti suoi colleghi con la veste purpurea, raramente accetta l’invito alle cene e ai ricevimenti mondano-diplomatici. La persona che vede di più in assoluto è il fido segretario monsignor Josef Clemens, che nei confronti del capo ha un atteggiamento iperprotettivo.

Nonostante la fama di inquisitore spietato, Ratzinger è una persona dai modi assolutamente cortesi: nessuno nel suo ufficio, il tenebroso palazzo della Santa Inquisizione, lo ha mai sentito alzare la voce. Ha persino un cuore: è iscritto a un’associazione di donatori di organi, e ha sempre considerato un “atto d’amore” il consenso all’espianto dopo la morte. Suona il pianoforte, ama Mozart e Beethoven. Passione di famiglia: suo fratello Georg (anche lui prete, furono consacrati nello stesso giorno) è un apprezzato musicista, per decenni direttore della cappella del duomo di Ratisbona. Talvolta, e questo proprio non te lo aspetti nel panzer-kardinal, fa capolino anche lo humour. Come quando dovette presentare il documento vaticano sul mea culpa per gli errori del passato, e citò la battuta di un porporato ai tempi dell’invasione napoleonica: “Paura di Bonaparte? Se non ci sono riusciti i cardinali, finora, a distruggere la Chiesa…”. O quando gli chiesero come mai nella sua autobiografia non accennasse mai a innamoramenti giovanili: “L’editore mi aveva chiesto di non superare le cento cartelle”.

Il guardiano dell’ortodossia cattolica naturalmente non è superstizioso e non legge gli oroscopi. Ma crede nei segni del destino. Quando fu ordinato sacerdote, il 29 giugno 1951, nel momento in cui il cardinale Faulhaber gli imponeva le mani, un’allodola si levò in volo dall’altare maggiore della cattedrale di Frisinga e intonò quello che a don Joseph apparve un piccolo canto gioioso. “Per me fu come se una voce dall’alto mi dicesse: va bene così, sei sulla strada giusta”. Ha fatto il viceparroco, a Monaco di Baviera, per un anno. Ma non era quella del curatore d’anime la strada giusta. Gli piaceva molto di più studiare, indagare le grandi verità cattoliche, messe a dura prova dal razionalismo. Intraprende la carriera accademica, e presto si afferma come uno dei più promettenti e preparati teologi del rinnovamento conciliare. Si immerge nella lettura dei Padri della Chiesa: Sant’Agostino, Sant’Ireneo, snobbando (ed era quasi eresia a quel tempo) la neoscolastica tomista. Si batte per restituire alla Rivelazione il suo carattere storico di azione divina, di contro alla sua cristallizzazione nella sola Parola. Dinamite teologica, roba da far sobbalzare sulle loro polverose cattedre i professoroni delle università pontificie romane. Se oggi Ratzinger è così inviso e persino odiato dai circoli cattolici progressisti è anche per questo suo passato, di pensatore cattolico certo non reazionario. Un risentimento inconfessabile.

Il suo Grande Nemico, il teologo svizzero Hans Kung, forse non riesce a perdonarsi di essere stato proprio lui, nell’epoca del suo massimo splendore, a volere quel professorino bavarese nella prestigiosa Università di Tubinga, la top one dell’insegnamento teologico a livello mondiale. E chi oggi finisce nel mirino della Congregazione per la dottrina della fede non può non ricordare con risentito sarcasmo che il colpo di grazia al vecchio Sant’Uffizio del cardinale Ottaviani (che infatti cambiò nome e procedure) fu inflitto durante il Concilio dal cardinale Frings di Colonia: il quale si faceva redigere i testi da un giovane e brillante teologo di nome Joseph Ratzinger. “Non sono cambiato io, sono gli altri a essere cambiati”. Replica così, sulle labbra il consueto disarmante sorrisino, a chi insinua maligno che abbia rinunciato alle sue idee progressiste per amor di poltrona, quando è diventato un dipendente vaticano. Nominato arcivescovo di Monaco e cardinale già da Paolo VI nel 1977, fu Giovanni Paolo II a sceglierlo nel 1981 come capo della più influente congregazione vaticana. Nessun “ministro” del governo papale è rimasto così a lungo (19 anni) allo stesso posto. Ratzinger dice di non vedere l’ora di essere liberato da questo impegno, per tornarsene ai suoi amati libri. Ma Wojtyla non lo molla. Tanta è la stima che il Papa polacco nutre per il collaboratore tedesco, anche se fra i due non si è mai stabilito sul piano umano un rapporto di confidenza, di frequentazione che andasse oltre la collaborazione istituzionale.

A livello internazionale è la rivista Concilium che guida la guerra ideologica contro Ratzinger, a suon di slogan come “no al centralismo romano” e “sì al Vaticano III”. E’ la storica rivista che radunava i grandi nomi della teologia cattolica conciliare. Il bello è che alla sua fondazione prese parte anche l’inquilino di Piazza del Sant’Uffizio. Ma Ratzinger non ha dubbi, sono loro, gli ex colleghi, ad aver tradito l’ispirazione iniziale. Erano partiti dall’idea di togliere tanta inutile polvere accumulatasi sulla facciata della Chiesa, per non ridurla a un museo di dogmi pietrificati, incomprensibili all’uomo di oggi. Ma poi avevano finito col buttar via il bambino con l’acqua sporca. E invece di tagliare i rami secchi, rischiavano di radere al suolo il tronco vivo della Tradizione. Con Von Balthasar, il suo grande amico teologo, Ratzinger è convinto che sia giusto “abbattere i bastioni” e dialogare con altre culture e religioni. Ma, e lo ha ribadito anche di recente, è pronto a lanciare l’anatema contro chiunque declassi Gesù Cristo a uno dei tanti guru del grande pantheon delle religioni. Gli hanno chiesto se non si senta un pentito del Concilio. Lui risponde che l’intuizione di Giovanni XXIII fu provvidenziale, ma che all’intervento chirurgico sono seguite tante complicazioni postoperatorie. E forse aveva ragione proprio san Gregorio Nazianzeno, nel quarto secolo, a sbottare: “Non andrò mai più a un Concilio: troppa confusione”. Una delle deformazioni postconciliari che proprio non riesce ad accettare è la svalutazione del cristiano normale, della nonnina che recita il rosario o del padre di famiglia che non ha tempo di partecipare a riunioni o attività di associazioni o movimenti. “Può capitare – tuonò nel 1992 dalla tribuna del Meeting di Rimini – che qualcuno svolga ininterrottamente attività associazionistiche nella Chiesa e tuttavia non sia affatto un cristiano. E può capitare invece che qualcun altro viva semplicemente della parola e del sacramento e pratichi l’amore, senza essere mai comparso in comitati ecclesiastici, e tuttavia egli sia un vero cristiano”.

All’interno della gerarchia cattolica poche persone come Ratzinger suscitano tanta ammirazione e tanto odio. E certamente attorno alla sua figura non si combatte solo una guerra teologica. Il vasto fronte dei martiniani lo ha sempre sentito un corpo estraneo rispetto al cattolicesimo felpato della curia ambrosiana. Ma il Prefetto della fede riesce ad alienarsi simpatie anche tra i governativi. Gli strali di Sua Eminenza infatti non prendono di mira solo i “nuovi eretici”, ma anche l’elefantiaco establishment della burocrazia ecclesiastica. Curiosamente è proprio il rappresentante di una potente istituzione romana a invocare una sorta di devolution cattolica. Una Chiesa più leggera, con meno curie, meno documenti episcopali, meno eventi giubilari: “Non mi sento a mio agio” dichiarò candidamente all’inizio dell’Anno Santo, “in un clima di celebrazioni permanenti. E ho sentito al Tg che ce ne sono in calendario ben 140…”. Non la presero bene, ovviamente, né l’attivissimo arcivescovo Crescenzio Sepe né al comitato organizzatore del Giubileo. Ma l’evangelica virtù di parlare chiaro non fa difetto a Ratzinger. Ha criticato persino la pletora di canonizzazioni sotto il pontificato wojtyliano (più santi e beati in questi 22 anni che nei quattro secoli precedenti). Lo disse alcuni anni fa: l’inflazione di aureole, a personaggi venerati solo in ristretti ambienti religiosi, svaluta il concetto stesso di santità. Fu presa come una critica a Wojtyla. Così sull’argomento si è autoimposto il silenzio, pro bono pacis, ma resta convinto che dovrebbe essere posto un limite alle beatificazioni à gogo.

A torto o a ragione, Ratzinger si sente chiamato da Dio a una missione impopolare ma doverosa: difendere l’autentica fede del popolo cristiano dalle manipolazioni degli intellettuali cattolici e dai condizionamenti della mentalità dominante. E in questo ruolo si sente un autentico democratico, forse persino di sinistra. Ha scritto: “Il magistero ecclesiale protegge la fede dei semplici: di quelli che non scrivono libri, non parlano alla televisione, e non sono in grado di scrivere nessun articolo di fondo sui quotidiani: questo è il suo compito democratico. Esso deve dar voce a chi non ne ha”. Va da sé che gli intellettuali cattolici e i mass media ricambino con una cordiale antipatia questo suo atteggiamento. Pochi contatti anche con il mondo politico italiano, le cui vicende segue da lontano e con scarso interesse.

Stima però Andreotti, e la sua rivista Trenta Giorni. Non a caso, uno dei pochi interventi politici che di lui si ricordino fu un “elogio del compromesso”. La sua immagine nella stampa laica è stata sempre pessima, raramente è andata oltre il cliché del Grande Restauratore. Del resto Ratzinger non è uomo da concedere molto allo spettacolo. E certo l’ultimo controverso documento della sua Congregazione sul rapporto fra salvezza cristiana e altre religioni non ha migliorato la situazione. Il Dominus Iesus è stato recepito come un’arrogante e apodittica dichiarazione di superiorità cattolica rivolta a musulmani, ebrei, buddhisti e alle altre Chiese. Critiche ed equivoci che lui, con un po’ di civetteria intellettuale, di solito snobba o sopporta come un male minore. I cardinali di Santa Romana Chiesa apprezzano la sua radicalità molto più di quanto manifestino in pubblico.

Nel prossimo conclave Ratzinger sarà probabilmente un candidato, e certamente uno dei più decisivi pope-maker. A lui guarderanno in tanti, nel Sacro Collegio, per avere un’indicazione sul nuovo successore di Pietro. Lui, il Prefetto di ferro, continua a sentirsi un semplice cattolico bavarese, quello che dopo tanti anni passati a studiare l’esistenza di Dio concludeva: “Non saprei indicare una prova della verità della fede più convincente della schietta umanità che la fede ha fatto maturare nei miei genitori”.

di Lucio Brunelli
(Nato a Roma, ha 48 anni. Esperto di storia della Chiesa, è vaticanista del Tg2 Rai).


In breve

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Joseph Ratzinger è nato a Marktl am Inn (Passau) il 16 aprile del 1927. Ordinato sacerdote (assieme al fratello Georg) nel 1951, ha seguito la carriera accademica, segnalandosi come brillante teologo riformatore. Partecipa ai lavori del Concilio. Hans Kung, che poi sarà suo avversario, lo chiama a insegnare teologia a Tubinga. Nominato arcivescovo di Monaco nel 1977, lo stesso anno è creato cardinale da Paolo VI. Papa Wojtyla lo vuole nel 1981 alla guida della Congregazione per la dottrina della fede. E’ il più longevo “ministro” del Papa in carica

www.ilfoglio.it/ritratti/59


Paparatzifan
00martedì 25 maggio 2010 14:14
Da "Associazione Luce sull'Est"...

FATIMA: sul fatto che il “terzo segreto” di Fatima non riguarda esclusivamente il passato il Papa non ha mai cambiato idea

Notizia del 25/05/2010 stampata dal sito web www.lucisullest.it


Corrispondenza romana, n. 699, 20 gennaio 2001:

Rispondendo ad una lettera di Mons. Paolo Maria Hnilica SL, Vescovo titolare di Rusado, il card. Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha fatto un’importante affermazione, precisando che nel suo “commento” alla profezia di Fatima non intendeva “attribuire esclusivamente al passato i contenuti del segreto”. In esso, infatti, si scorge “il martirologio del secolo scorso, nel quale si riflette però la persecuzione fino alla fine del mondo”.
Il carteggio, nel quale si affrontano altri interessanti temi, quali la natura delle apparizioni mariane (…), è stato pubblicato sulla rivista Pro Deo et fratribus (Novembre-Dicembre, n. 36-37/2000).


4 ottobre 2000
Eccellenza Reverendissima,

ho letto con molto interesse la Sua lettera del 13 c.m. Le Sue riflessioni a lungo meditate, mi offrono l’occasione per esplicitare meglio il mio pensiero riguardo al fenomeno delle apparizioni, e per questo La ringrazio. Innanzitutto mi fa piacere sapere che Ella ha apprezzato il mio tentativo di interpretazione del «segreto» di Fatima. Ciò mi conforta, ben conoscendo la Sua profonda sensibilità mariana e la Sua devozione per la Madonna di Fatima.
Circa la Sua domanda vorrei chiarire che non escludo una apparizione della Vergine assunta col suo corpo glorioso. Come Ella fa presente, si dovrebbe distinguere all’interno delle diverse apparizioni, le diverse forme di presenza. Quella che io ho chiamato la «categoria di mezzo», la «percezione interiore», non ha niente a che fare con il soggettivismo. La presenza è oggettiva e reale, solo il suo collocamento non è nel mondo materiale.
Riguardo poi al mistero del Cuore Immacolato di Maria, non era mia intenzione ridimensionarne la portata, ma semplicemente non mi sembrava un argomento adatto per l’approfondimento del contenuto specifico della terza parte del «segreto» di Fatima.
Inoltre, nel mio «commento» non intendevo attribuire esclusivamente al passato i contenuti del segreto, in maniera semplicistica. Le grandi visioni hanno sempre una duplice dimensione: un significato immediato e vicino, ed un valore permanente. L’esempio classico è il discorso escatologico del Signore; preannuncia come imminente la catastrofe di Gerusalemme, ma fa trasparire in questo avvenimento del presente, la fine del mondo, e diventa così ammonizione alla vigilanza per tutte le generazioni. In modo analogo scorgiamo nel «segreto» di Fatima il martirologio del secolo scorso, nel quale si riflette però la persecuzione fino alla fine del mondo.
Spero, Eccellenza, di aver risposto sufficientemente alle Sue domande e mi è gradita l’occasione per salutarLa con viva cordialità, in comunione di preghiera.

dev.mo nel Signore
Joseph Cardinal Ratzinger


Paparatzifan
00giovedì 2 dicembre 2010 03:16
Dal blog di Lella...

Il cardinale Ratzinger e la revisione del sistema penale canonico in tre lettere inedite del 1988

Un ruolo determinante

Questo articolo del vescovo segretario del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi sarà pubblicato nel prossimo numero de "La Civiltà Cattolica" in una forma più ampia.

di Juan Ignacio Arrieta

Nelle prossime settimane il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi invierà ai propri membri e consultori una bozza con alcune proposte per la riforma del libro vi del Codex iuris canonici, base del sistema penale della Chiesa. Una commissione di esperti penalisti ha lavorato per quasi due anni, rivedendo il testo promulgato nel 1983 per mantenere l'impianto generale e la numerazione dei canoni, ma anche per modificare decisamente alcune scelte dell'epoca rivelatesi meno riuscite.
L'iniziativa nasce dal mandato conferito da Benedetto XVI ai nuovi superiori del dicastero il 28 settembre 2007. Da quell'incontro è risultato evidente come l'indicazione rispondesse a un convincimento profondo del Papa, maturato in anni di esperienza diretta, e a una preoccupazione per l'integrità e la coerente applicazione della disciplina nella Chiesa; convincimento e preoccupazione che hanno guidato i passi del cardinale Joseph Ratzinger sin dall'inizio del suo lavoro come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, malgrado le oggettive difficoltà provenienti, tra l'altro, dal particolare momento legislativo vissuto all'indomani della promulgazione del Codex. Per valutarlo meglio occorre ricordare alcune particolarità del quadro legislativo allora appena ridisegnato.

Il sistema penale del Codex iuris canonici

Il sistema penale del Codex del 1983 possiede un impianto sostanzialmente nuovo rispetto a quello del 1917, e s'inquadra nel contesto ecclesiologico disegnato dal concilio Vaticano ii. Per quanto riguarda la disciplina penale, vuole ispirarsi anche ai criteri di sussidiarietà e di "decentramento", concetto usato per indicare la particolare attenzione riservata al diritto particolare e, soprattutto, all'iniziativa dei singoli vescovi nel governo pastorale, essendo essi, come insegna il concilio (cfr. Lumen gentium, n. 27), vicari di Cristo nelle rispettive diocesi. Nella maggioranza dei casi, infatti, il Codex affida alla valutazione degli Ordinari locali e dei superiori religiosi il discernimento sull'opportunità o meno di imporre sanzioni penali, e sul modo di farlo.
Ma un altro fattore ha segnato, ancora più profondamente, il nuovo diritto penale canonico: le formalità giuridiche e i modelli di garanzia stabiliti per applicare le pene canoniche. Infatti, in coerenza con l'enunciato dei diritti fondamentali di tutti i battezzati per la prima volta espresso dal Codex, si sono adottati sistemi di protezione e di tutela di questi diritti, desunti in parte dalla tradizione canonica, in parte da altre esperienze giuridiche, talvolta in modo non del tutto rispondente alla realtà della Chiesa in tutto il mondo. Le garanzie sono imprescindibili, particolarmente nel sistema penale; occorre tuttavia che esse siano bilanciate e consentano l'effettiva tutela dell'interesse collettivo. L'esperienza successiva ha dimostrato come alcune delle tecniche adoperate dal Codex a garanzia dei diritti non fossero imprescindibili, e che avrebbero potuto essere sostituite da altre garanzie più consone con la realtà ecclesiale. Anzi, queste tecniche rappresentavano in vari casi, un oggettivo ostacolo, talvolta insuperabile per la scarsità di mezzi, all'effettiva applicazione del sistema penale.
Si potrebbe dire, per quanto paradossale possa ora risultare questa constatazione, che il libro vi sulle sanzioni penali sia, nel Codex, quello che ha potuto beneficiare di meno da quelle continue altalene normative che hanno caratterizzato il periodo post-conciliare. Altri settori della disciplina canonica, infatti, hanno avuto l'opportunità di confrontarsi con la realtà concreta della Chiesa attraverso norme ad experimentum, che hanno consentito poi di valutare l'esito dei risultati, positivo o negativo che fosse, al momento di redigere le norme definitive.
Il sistema penale, viceversa, pur essendo del tutto nuovo, o quasi, rispetto al precedente, non ha avuto opportunità di riscontro sperimentale, esordendo da zero nel 1983. Il numero dei delitti tipizzati era stato drasticamente ridotto ai soli comportamenti di speciale gravità, e l'imposizione delle sanzioni rimessa ai criteri di valutazione di ciascun Ordinario, inevitabilmente diversi.
C'è da aggiungere che su questo settore della disciplina canonica si sentiva particolarmente - e si sente tuttora - l'influsso di un diffuso anti-giuridicismo, che si traduceva, tra l'altro, nella difficoltà di riuscire a comporre le esigenze della carità pastorale con quelle della giustizia e del buon governo. Perfino la redazione di alcuni canoni del Codex, infatti, contiene richiami alla tolleranza che potrebbero essere indebitamente letti come volontà di dissuadere l'Ordinario dall'impiego delle sanzioni penali laddove ciò fosse necessario per esigenze di giustizia.

Una richiesta del cardinale Ratzinger
(19 febbraio 1988)

In questo quadro legislativo rappresentò un evidente elemento di contrasto una lettera scritta il 19 febbraio 1988 dal prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Ratzinger, al presidente della Pontificia Commissione per l'Interpretazione autentica del Codice di Diritto Canonico, cardinale José Rosalío Castillo Lara. Si tratta di un documento importante e unico, ove si denunciano le negative conseguenze che stavano producendo nella Chiesa alcune opzioni del sistema penale stabilito appena cinque anni prima. Lo scritto è riemerso nel quadro dei lavori realizzati in questo periodo per la revisione del libro VI.
La motivazione della lettera è ben circoscritta.
La Congregazione per la Dottrina della Fede era a quell'epoca competente per studiare le richieste di dispensa dagli oneri sacerdotali assunti con l'ordinazione. La relativa dispensa veniva concessa come gesto di grazia da parte della Chiesa, dopo avere da un lato vagliato attentamente l'insieme di tutte le circostanze concorrenti nel singolo caso e dall'altro soppesato l'oggettiva gravità degli impegni assunti davanti a Dio e alla Chiesa al momento dell'ordinazione sacerdotale.
Le circostanze che motivavano alcune delle richieste di dispensa da questi impegni, tuttavia, erano tutt'altro che meritorie di atti di grazia.

Il testo della lettera è eloquente:

«Eminenza, questo Dicastero, nell'esaminare le petizioni di dispensa dagli oneri sacerdotali, incontra casi di sacerdoti che, durante l'esercizio del loro ministero, si sono resi colpevoli di gravi e scandalosi comportamenti, per i quali il cjc, previa apposita procedura, prevede l'irrogazione di determinate pene, non esclusa la riduzione allo stato laicale.
Tali provvedimenti, a giudizio di questo Dicastero, dovrebbero, in taluni casi, per il bene dei fedeli, precedere l'eventuale concessione della dispensa sacerdotale, che, per natura sua, si configura come "grazia" a favore dell'oratore. Ma attesa la complessità della procedura prevista a tal proposito dal Codex, è prevedibile che alcuni Ordinari incontrino non poche difficoltà nell'attuarla.
Sarei pertanto grato all'Eminenza Vostra Rev.ma se potesse far conoscere il Suo apprezzato parere circa l'eventuale possibilità di prevedere, in casi determinati, una procedura più rapida e semplificata»

La lettera rispecchia, innanzitutto, la naturale ripugnanza del sistema di giustizia a concedere come atto di grazia (dispensa dagli oneri sacerdotali) qualcosa che occorre, invece, imporre come castigo (dimissione ex poena dal sacerdozio). Volendo evitare le complicazioni tecniche delle procedure stabilite dal Codex per punire condotte delittuose, infatti, si faceva talvolta ricorso alla volontaria richiesta del colpevole di abbandonare il sacerdozio. In questo modo si arrivava allo stesso risultato "pratico" di espellere il soggetto dal sacerdozio, se tale era la sanzione penale prevista, aggirando al contempo "noiose" procedure giuridiche. Era un modo "pastorale" di procedere, come si soleva dire, a margine di quanto prevedesse il diritto.

Agendo così, però, si rinunciava alla giustizia e - come motivava il cardinale Ratzinger - si lasciava ingiustamente da parte "il bene dei fedeli". Tale era il motivo centrale della richiesta, nonché la ragione per cui occorreva dare priorità, in questi casi, all'imposizione di giuste sanzioni penali per mezzo di procedure più rapide e semplificate di quelle indicate nel Codex.

Bisogna tener conto che, sebbene il Codex (cfr. can. 1362 1, 1) riconoscesse l'esistenza di una giurisdizione specifica della Congregazione per la Dottrina della Fede in materia penale anche al di fuori dei casi di evidente carattere dottrinale, non era affatto evidente nel contesto normativo di allora quali altri reati concreti potessero rientrare nella competenza penale del dicastero. Il canone 6 del Codex aveva peraltro abrogato espressamente qualunque altra legge penale prima esistente.

La lettera del cardinale Ratzinger presuppone, perciò, che la responsabilità giuridica in materia penale ricada sugli Ordinari o sui superiori religiosi, come risulta dalla lettera del Codex.

La risposta
(10 marzo 1988)

Nel giro di tre settimane arrivò la risposta del cardinale Castillo Lara, con lettera del 10 marzo 1988. La tempestività e il contenuto del responso si capiscono se si tiene conto della particolarità del momento legislativo: essendo appena terminato lo sforzo codificatore che per decenni aveva occupato la Commissione, infatti, erano ancora in fase di completamento tutti gli adeguamenti alla nuova disciplina delle altre norme del diritto universale e particolare. La risposta certo condivideva le motivazioni addotte e la bontà del criterio di anteporre le sanzioni penali alla concessione di grazie; inevitabilmente, però, confermava la necessità prioritaria di dare il dovuto seguito alle norme del Codex appena promulgato:

«Capisco bene la preoccupazione di Vostra Eminenza per il fatto che gli Ordinari interessati non abbiano esercitato prima la loro potestà giudiziaria per punire adeguatamente, anche a tutela del bene comune dei fedeli, tali delitti. Tuttavia il problema non sembra essere di procedura giuridica ma di responsabile esercizio della funzione di governo.
Nel vigente Codice sono stati chiaramente determinati i delitti che possono comportare la perdita dello stato clericale: essi sono configurati ai cann. 1364 1, 1367, 1370, 1387, 1394 e 1395. Allo stesso tempo è stata semplificata molto la procedura rispetto alle precedenti norme del cic 1917, resa così più rapida e snella, anche allo scopo di stimolare gli Ordinari all'esercizio della loro autorità, attraverso il necessario giudizio dei colpevoli ad normam iuris e l'applicazione delle previste sanzioni.
Cercare di semplificare ulteriormente la procedura giudiziaria per infliggere o dichiarare sanzioni tanto gravi come la dimissione dallo stato clericale, oppure cambiare l'attuale norma del 1342 2 che proibisce di procedere in questi casi con decreto amministrativo extragiudiziale (cfr. can. 1720), non sembra affatto conveniente. Infatti da una parte si metterebbe in pericolo il diritto fondamentale di difesa - in cause poi che interessano lo stato della persona -, mentre dall'altra parte si favorirebbe la deprecabile tendenza - per mancanza forse della dovuta conoscenza o stima del diritto - ad un equivoco governo cosiddetto "pastorale", che in fondo pastorale non è, perché porta a trascurare il dovuto esercizio della autorità con danno del bene comune dei fedeli.
Anche in altri periodi difficili della vita della Chiesa, di confusione delle coscienze e di rilassamento della disciplina ecclesiastica, i sacri Pastori non hanno mancato di esercitare, per tutelare il bene supremo della salus animarum, la loro potestà giudiziaria».

La lettera fa, poi, un excursus sul dibattito che, nel corso dei lavori di revisione del Codex, s'era sviluppato prima di decidere di non inserirvi la cosiddetta dimissione ex officio dallo stato clericale. "Tutto ciò considerato - concludeva la risposta - questa Pontificia Commissione è dell'opinione che si debba insistere opportunamente presso i Vescovi (cfr. can. 1389), perché, ogni volta che ciò si renda necessario, non manchino di esercitare la loro potestà giudiziaria e coattiva, invece di inoltrare alla Santa Sede le petizioni di dispensa".
Pur condividendo l'esigenza di fondo di tutelare il "bene comune dei fedeli", infatti, la Commissione riteneva rischioso rinunciare ad alcune concrete garanzie anziché esortare chi ne aveva le responsabilità affinché attuasse le disposizioni del diritto.

Lo scambio di lettere si concluse con una cortese risposta, il 14 maggio successivo, del cardinale Ratzinger:

«Mi pregio comunicarLe che è pervenuto a questo Dicastero il Suo apprezzato voto circa la possibilità di prevedere una procedura più rapida e semplificata dell'attuale per l'irrogazione di eventuali sanzioni da parte dei competenti Ordinari, nei confronti di sacerdoti che si sono resi colpevoli di gravi e scandalosi comportamenti. Al riguardo, desidero assicurare l'Eminenza Vostra Rev.ma che quanto da Lei esposto sarà tenuto in attenta considerazione da parte di questa Congregazione».

Competenze più estese
(28 giugno 1988)

La vicenda appariva chiusa, ma il problema non era risolto. Di fatto, il primo importante segno di cambiamento della situazione si ebbe proprio un mese dopo, il 28 giugno 1988, con la promulgazione della vigente costituzione apostolica Pastor bonus, che ha modificato l'assetto complessivo della Curia romana stabilito nel 1967 dalla Regimini Ecclesiae universae, riordinando le competenze dei singoli dicasteri.
L'articolo 52 stabilisce chiaramente la giurisdizione penale esclusiva della Congregazione per la Dottrina della Fede, non solo rispetto ai delitti contro la fede o nella celebrazione dei Sacramenti, ma anche riguardo ai "delitti più gravi commessi contro la morale", procedendo "a dichiarare o ad infliggere le sanzioni canoniche a norma del diritto".
Questo testo, evidentemente indicato dalla Congregazione presieduta dal cardinale Ratzinger sulla base della propria esperienza, risulta in diretta relazione con quanto si sta qui esaminando, e rispetto alla situazione precedente il cambiamento della costituzione apostolica Pastor bonus è di evidente rilievo.
In un quadro normativo presieduto dai criteri di sussidiarietà e di "decentramento", dunque, la Pastor bonus realizzava adesso un atto giuridico di "riserva" alla Santa Sede (cfr. can. 381 1) di un'intera categoria di delitti, che il Pontefice affidava alla giurisdizione esclusiva della Congregazione per la Dottrina della Fede. È assai dubbio che una scelta del genere, la quale determinava meglio le competenze della Congregazione e modificava il criterio del Codex su chi dovesse applicare queste pene canoniche, sarebbe stata realizzata se il sistema avesse complessivamente funzionato.
La suddetta norma, però, risultava ancora insufficiente sul piano operativo. Elementari esigenze di sicurezza giuridica, infatti, imponevano la necessità di identificare prima quali fossero in concreto quei "delitti più gravi contro la morale" che la Pastor bonus affidava alla Congregazione sottraendoli alla giurisdizione degli Ordinari.

Due rilevanti interventi successivi

Gli episodi illustrati riguardano un breve lasso di tempo: alcuni mesi della prima metà del 1988. Negli anni successivi si è cercato ancora di far fronte alle emergenze apparse nell'ambito penale nella Chiesa seguendo i criteri generali del Codex del 1983, sostanzialmente riassunti nella lettera del cardinale Castillo Lara.
Si è avuto cura, infatti, di incoraggiare l'intervento degli Ordinari locali, volendo talvolta agevolare le procedure, oppure attraverso un diritto speciale, in dialogo con le Conferenze episcopali.

L'esperienza che continuava a emergere, tuttavia, confermava l'insufficienza di queste soluzioni, e la necessità di prenderne altre, di maggiore respiro e su un altro livello. Due di esse hanno significativamente modificato il quadro del diritto penale canonico sul quale ha dovuto lavorare in questi ultimi mesi il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, ed entrambe hanno l'attuale Pontefice come attore, in perfetta continuità con le preoccupazioni espresse nella sua lettera del 1988.

La prima iniziativa, abbastanza nota, riguarda verso la fine degli anni Novanta la preparazione delle Norme sui cosiddetti delicta graviora, che hanno dato effettività all'articolo 52 della costituzione apostolica Pastor bonus, indicando concretamente quali delitti contro la morale fossero da ritenere "particolarmente gravi" e, quindi, di esclusiva giurisdizione della Congregazione per la Dottrina della Fede.

Queste Norme, promulgate nel 2001, appaiono in controtendenza rispetto ai criteri previsti dal Codex per l'applicazione delle sanzioni penali, cosicché in tanti ambienti sono state subito bollate come accentratrici, mentre, in realtà, rispondevano a un preciso dovere di supplenza: in primis per risolvere un serio problema ecclesiale di operatività del sistema penale, in secundis per assicurare un trattamento uniforme di queste cause in tutta la Chiesa.

A tale scopo la Congregazione ha dovuto preparare le corrispondenti norme interne di procedura e poi riorganizzare il dicastero per consentire questa attività giudicante in accordo con le regole processuali del Codex.

Dopo il 2001, inoltre, sulla base dell'esperienza giuridica che affiorava, il cardinale Ratzinger ha ottenuto da Giovanni Paolo II nuove facoltà e dispense per gestire le varie situazioni, giungendo addirittura alla definizione di nuove fattispecie penali. Questi adeguamenti successivi sono ora nelle Norme sui delicta graviora pubblicate dalla Congregazione nello scorso luglio.

Vi è stata però una seconda iniziativa del cardinale Ratzinger che ha contribuito a modificare il panorama dell'applicazione del diritto penale nella Chiesa.

Si tratta del suo intervento come membro della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli nella preparazione delle facoltà speciali concesse a questo dicastero per far fronte, in via anche di supplenza, ad altro genere di problemi disciplinari nei luoghi di missione. Non è difficile capire, infatti, come, a causa della scarsità di mezzi di ogni tipo, gli ostacoli per attuare il sistema penale del Codex si facessero sentire soprattutto nelle circoscrizioni di missione dipendenti dalla Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli, che rappresentano quasi la metà del mondo cattolico.

Perciò, nell'adunanza plenaria del febbraio 1997, la Congregazione ha deciso di sollecitare dal Papa facoltà speciali che le permettessero di potere intervenire per via amministrativa, in determinate situazioni penali, al margine delle disposizioni generali del Codex; di quella plenaria era relatore il cardinale Ratzinger. Come si sa, queste facoltà sono state aggiornate e ampliate nel 2008, e altre di natura analoga sono state poi concesse alla Congregazione per il Clero.

L'esperienza dirà in quale misura le modifiche che s'intende adesso apportare al libro vi riusciranno a riequilibrare la situazione, rendendo non più necessarie le misure speciali. In ogni caso, determinante in questo processo più che ventennale di rinnovamento della disciplina penale è stato il ruolo della decisa azione del cardinale Ratzinger, fino a rappresentare una delle costanti che sin dall'inizio hanno caratterizzato i suoi anni romani.

(©L'Osservatore Romano - 2 dicembre 2010)


Paparatzifan
00martedì 8 febbraio 2011 20:50
Dal blog di Lella...

L'omelia pronunciata nel 1998 da Joseph Ratzinger nel centenario della nascita del cardinale Alojzije Stepinac

Difese le cose di Dio contro la falsa onnipotenza dell'uomo

Il 15 febbraio 1998 il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, presiedeva nella chiesa romana di San Girolamo dei Croati la concelebrazione eucaristica in ricordo del servo di Dio Alojzije Stepinac - che il 3 ottobre successivo sarebbe stato beatificato da Giovanni Paolo II nel santuario croato di Marija Bistrica - in occasione del centenario della sua nascita. Alla vigilia della memoria liturgica del beato, che ricorre il 10 febbraio, pubblichiamo il testo integrale dell'omelia tenuta tredici anni fa da Joseph Ratzinger.

Eminenza, Eccellenze!
Cari confratelli nel sacerdozio!
Cari fedeli!

Nell'ultimo canto della Divina Commedia (Paradiso XXXI, 103), Dante parla di uno venuto forse dalla Croazia, che, affascinato dal volto di Cristo impresso nel velo della Veronica, non può più volgere il suo sguardo altrove, ma lo tiene fisso al Signore. Si immerge quasi nella visione di Cristo. Questo Croato anonimo di Dante ha per noi un nome: è il servo di Dio, cardinale Alojzije Stepinac, nato cento anni fa a Krasic, e morto il 10 febbraio 1960. Veramente quest'uomo, questo servo di Dio, ha tenuto fisso il suo sguardo su Gesù, ha meditato Gesù, ha vissuto nella visione di Cristo e così sempre si è conformato a Cristo: era trasformato in Cristo, lui stesso una immagine viva di Cristo sofferente con la corona di spine e con le ferite della sua passione.
Le tre letture della liturgia di oggi sono a loro modo una immagine di Cristo. Del sermone della montagna, del quale abbiamo sentito adesso un brano (Luca, 6, 17.20-24), il Santo Padre nella sua enciclica Veritatis splendor dice che è una specie di autobiografia nascosta di Cristo, perché, in realtà, è Cristo quel povero esemplare, che è nato nel presepio fuori città perché non c'era posto negli alberghi, che è morto nudo, privo di tutto sulla croce. Cristo è stato odiato, espulso, perché ha annunciato l'amore di Dio per tutti. E così, vedendo, meditando le letture di oggi, vediamo Cristo, ma possiamo anche così meglio capire il messaggio del servo di Dio: il cardinale ci guida a Cristo e rende presente il suo messaggio, e Cristo ci fa vedere la profondità del cuore, le vere radici di questa vita.
Vorrei attirare l'attenzione solo su due piccoli passi di questo Vangelo di oggi.
Innanzitutto su quella parola già citata: "Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e respingeranno il vostro nome".
Il nostro beato, il nostro servo di Dio, ha vissuto proprio questa espulsione dalla gloria degli uomini, ha vissuto la solitudine, la sofferenza. Esiste una specie di anticipazione profetica di questa parola in una parola di Socrate, riportata da Platone nella sua Apologia (31 c), quando davanti al tribunale Socrate dice: "Nessun uomo che in nome della sua coscienza si oppone a una moltitudine dominante potrà finire salvo in questa terra". Il cardinale Stepinac era un uomo di coscienza, che in nome della coscienza si oppose alle moltitudini dominanti. Era l'uomo di una coscienza illuminata dalla parola di Cristo, un uomo di una coscienza formata dalla sua verità. E tramite la coscienza il suo cammino è venuto alla verità: ed è cammino della vera vita. Perché uomo di coscienza, di coscienza cristiana, si oppose ai totalitarismi; ed è divenuto, nel tempo della dittatura nazista, difensore degli ebrei, degli ortodossi e di tutti i perseguitati; e poi, nel tempo del comunismo, è stato l'avvocato dei suoi fedeli, e dei suoi sacerdoti trucidati e perseguitati. È divenuto soprattutto l'avvocato di Dio su questa terra, ha difeso il diritto dell'uomo di vivere con Dio, ha difeso lo spazio di Dio su questa terra.
Il cardinale Stepinac non ha fatto politica. Ha rispettato lo Stato quando e in quanto fu realmente Stato. Seguì la linea formulata da sant'Ambrogio, il quale dice: Ho sempre prestato la deferenza voluta e corretta agli imperatori, ma le cose di Dio non sono cose mie, non sono cose dell'imperatore, sono cose di Dio e devo rispettare e difendere quanto è di Dio (cfr Lettera fuori coll. 10, 1. 12). Dunque, così ha fatto il cardinale Stepinac: ha difeso le cose di Dio contro l'onnipotenza sbagliata e falsa dell'uomo, ha difeso i diritti di Dio, e così i veri diritti dell'uomo, la vera immagine dell'uomo contro il totalitarismo che non riconosce il potere di Dio, non riconosce la presenza di Dio, i diritti di Dio nel mondo.
Il servo di Dio era un uomo di coscienza e perciò in tutta la sua ammirevole fermezza non è mai stato un uomo duro, non è mai divenuto amaro, ancor meno ha conosciuto l'odio, perché ha difeso la verità, perché la sua coscienza era immersa nel volto di Cristo, era formata da Cristo. Questa fermezza era, nello stesso tempo, amore degli uomini, amore anche per i suoi persecutori. E così ci insegna come la fermezza della coscienza cristiana riconcilia verità e amore, è unità di verità e amore. Essendo uomo di coscienza, ha superato il male col bene e ha trasformato il male con il suo amore invincibile nutrito dall'amore di Cristo.
L'altra parola sulla quale volevo attirare l'attenzione è la prima delle beatitudini: "Beati voi poveri perché vostro è il Regno di Dio". Che cosa vuoi dire questo "beati"? In che cosa consiste questa beatitudine? È ovvio che questa beatitudine non è la felicità terrena nel senso banale del benessere, del successo, della carriera, dell'avere tutto, del poter fare tutto. È proprio il contrario. Sotto questo profilo è vero quanto ci dice oggi san Paolo nella lettura (prima Lettera ai Corinzi, 15, 12.16-20): "Se non è risorto Cristo, se abbiamo solo questa vita e questo tempo, siamo i più miseri uomini del mondo". E, realmente, il nostro servo di Dio ha vissuto e sofferto questa miseria della fede, questo essere escluso, questa solitudine. Ha sofferto la miseria, ma ha potuto sopportare questa miseria perché dietro la miseria ha scoperto la beatitudine vera. Ha saputo: "Io so che il mio Redentore vive" e che vivrò con il mio Redentore.
Dunque, in che cosa consiste questa beatitudine, questo essere beato? Non è una cosa di questo mondo, è una realtà di Dio, una realtà divina, una realtà in Dio per l'uomo, che si rivelerà in quest'uomo nel suo tempo, determinato da Dio. E quindi, chi vuol vivere questa beatitudine, arrivare a questa beatitudine, non può rinchiudersi in se stesso, deve estendersi sopra se stesso, deve uscire da se stesso, deve vivere nella autotrascendenza, deve perdere se stesso nelle mani di Dio. E perdendo se stesso, vive proprio nel luogo della vera beatitudine. Sappiamo come veramente il servo di Dio ha vissuto questa autotrascendenza. Non ha considerato il suo episcopato, il suo essere sacerdote come una dignità, un onore. Realmente si è perso in Dio e perdendosi ha trovato la vera vita. Perché proprio lasciando se stesso è divenuto libero: libero nei riguardi dell'onore umano, libero di sopportare tutte queste offese, queste calunnie, libero di amare. Nella luce di questa vera beatitudine possiamo anche capire l'altra parola: "Guai a voi ricchi perché avete già la vostra consolazione". Se è beato l'uomo che non vive per sé ma vive quasi fuori di sé, vive verso Dio, si estende verso Dio, consegna se stesso nelle mani di Dio, il ricco è l'uomo che vuol avere tutto per se stesso, che vuol avere la vita, se stesso per se stesso, si chiude in se stesso, vuoi avere successo in tutte le cose di questa terra. E proprio con questa ricchezza diventa povero, perché diventa povero della vera realtà, di Dio, e la sua vita è realmente - come dice la prima lettura di oggi (Geremia, 17, 5-8) - "come un tamerisco arido nella steppa, come pula che disperde il vento", perché è vuoto; questa vita, questo "io solo" non è sufficiente, perché è vuoto di verità, è vuoto di amore, se non conosce Dio. E, di conseguenza, questo "guai, avete già avuto la vostra consolazione" non è, come potrebbe apparire, una vendetta esteriore. È solo una rivelazione di quanto succede se uno si chiude nella materia, nelle cose di questo tempo, se uno vuol avere se stesso per se stesso e vivere solo per se stesso. Così vediamo come coincidono le parole del Vangelo con la prima lettura e con il primo salmo, il salmo responsoriale di questa domenica, dove il profeta prefigurando Cristo e i suoi testimoni, dice: "Beato l'uomo che confida nel Signore": è come un albero piantato lungo le acque e mai mancheranno le acque. Queste acque che mai mancheranno, che danno la vita eterna a questo albero, queste acque le troviamo nella fede della Chiesa, nella parola di Dio. Dio stesso ci dà queste acque. Agostino, interpretando il salmo 1, dice: Questo uomo benedetto dal profeta e dal salmo, è come un albero che ha le sue radici in alto, che ha le sue radici in cielo e cresce dal cielo. Così appare perso sulla terra, sembra straniero sulla terra, ma in realtà ha le sue radici affondate nelle vere acque della vita. Il cardinale Stepinac veramente era un tale albero, che è cresciuto dall'alto, dalla comunione con Dio, e così sembrava essere quasi esposto, quasi estraneo alla terra. E ha avuto realmente le radici dove sono le vere acque della vera vita. Il salmo, quindi, la lettura e il Vangelo ci invitano a vedere le vere alternative: o vivere solo per questo tempo, solo per se stesso, essere apparentemente felici, o vivere con Dio, per Dio e così per gli altri. Non ci sono altre scelte. Alla fine c'è solo questa alternativa. E il servo di Dio ci mostra la vera strada della vita e ci invita anche a questa fortezza, a questo coraggio di essere in contrasto col mondo, se il mondo è in contrasto con la parola di Dio. Sapendo bene che alla fine vive ed è valida solo la parola divina, che è la vera realtà.
Quando nel 1934 il servo di Dio fu eletto arcivescovo coadiutore di Zagreb, si spaventò. Conosceva bene la situazione difficile della Chiesa cattolica e dei fedeli cattolici nella sua terra, in questa Jugoslavia che dagli alleati, dopo la prima guerra mondiale, era stata costruita artificialmente da elementi contrastanti e con forte accento anticattolico. Ma non conosceva soltanto questa difficoltà, questa minaccia: sapeva anche la forza delle ideologie totalitarie, antiteiste, che erano forti in quel momento e che sempre più fortemente dominavano tutto. In questa situazione, non poteva considerare l'episcopato come una promozione nel senso umano, come un grado più alto di una carriera umana. Sapeva che l'episcopato in quel momento era sacrificio, era perdersi, era lasciarsi cadere solo nelle mani di Dio.
Ha espresso il programma del suo episcopato, della sua vita, nella parola In Te Domine speravi, il suo motto episcopale. Coincide, questo motto, con la parola della prima lettura di oggi: "Benedetto l'uomo che confida nel Signore, e il Signore è la sua fiducia". In Te Domine speravi. Si è abbandonato al Signore in tante sofferenze, si è abbandonato al Signore sapendo che nel Signore sono le acque della vera vita, la vera beatitudine. In tutte le difficoltà è rimasto l'uomo della speranza, della speranza perché uomo di fede e così uomo di carità, uomo del vero amore.
Oggi il cardinale Stepinac ci invita a questo coraggio, ci invita a mettere la nostra fiducia in Cristo, a essere gli uomini della speranza. In Te Domine speravi. Chi vive di questa parola sa che anche la conclusione del Te Deum vale, è vera: non confundar in aeternum, non sarò mai confuso.

(©L'Osservatore Romano - 9 febbraio 2011)


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