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Enciclica "Caritas in veritate"

Ultimo Aggiornamento: 16/11/2010 00:26
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16/07/2009 15:54
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L’enciclica sociale di Benedetto XVI

ROMA, giovedì, 16 luglio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell’intervento che monsignor Giampaolo Crepaldi, segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, appena nominato dal Santo Padre nuovo Vescovo di Trieste, ha pronunciato mercoledì 15 luglio a Palazzo Montecitorio (sala Berlinguer).

L’incontro con i parlamentari italiani per la presentazione dell’enciclica “Caritas in veritate” è stato organizzato dall’Associazione Persone e Reti.

* * *

La Caritas in veritate è la terza enciclica di Benedetto XVI ed è un’enciclica sociale. Essa si inserisce nella tradizione delle encicliche sociali che, nella loro fase moderna, siamo soliti far iniziare con la Rerum novarum di Leone XIII ed arriva dopo 18 anni dall’ultima enciclica sociale, la Centesimus annus di Giovanni Paolo II. Quasi un ventennio ci separa quindi dall’ultimo grande documento di dottrina sociale. Non che in questo ventennio l’insegnamento sociale dei Pontefici e della Chiesa si sia ritirato in secondo piano. Si pensi per esempio al Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, pubblicato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace nel 2004 o all’enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI che contiene una parte centrale espressamente dedicata alla Dottrina sociale della Chiesa e che io, a suo tempo, ho definito una “piccola enciclica sociale”. Si pensi soprattutto al magistero ordinario di Benedetto XVI, su cui tornerò tra poco. La scrittura di una enciclica, però, assume un valore particolare, rappresenta un sistematico passo in avanti dentro una tradizione che i pontefici assunsero in sé non per spirito di supplenza ma con la precisa convinzione di rispondere così alla loro missione apostolica e con l’intento di garantire alla religione cristiana il “diritto di cittadinanza” nella costruzione della società degli uomini.

Perché una nuova enciclica? Come sappiamo la Dottrina sociale della Chiesa ha una dimensione che permane ed una che muta con i tempi. Essa è l’incontro del Vangelo con i problemi sempre nuovi che l’umanità deve affrontare. Questi ultimi cambiano, ed oggi lo fanno ad una velocità sorprendente. La Chiesa non ha soluzioni tecniche da proporre, come anche la CV ci ricorda, ma ha il dovere di illuminare la storia umana con la luce della verità e il calore dell’amore di Gesù Cristo, ben sapendo che “se il Signore non costruisce la casa invano si affannano i costruttori”.

Se ci guardiamo indietro nel tempo e ripercorriamo questi vent’anni che ci separano dalla Centesimus annus ci accorgiamo che grandi cambiamenti sono avvenuti nella società degli uomini.

1 - Le ideologie politiche che avevano caratterizzato l’epoca precedente al 1989 sembrano aver perso di virulenza, sostituite però dalla nuova ideologia della tecnica. In questi venti anni le possibilità di intervento della tecnica nella stessa identità della persona si sono purtroppo sposate con un riduzionismo delle possibilità conoscitive della ragione su cui Benedetto XVI sta impostando da tempo un lungo insegnamento. Questo scostamento tra capacità operative, che ormai riguardano la vita stessa, e quadro di senso che si assottiglia sempre di più è tra le preoccupazioni più vive dell’umanità di oggi e per questo la CV lo ha affrontato. Se nel vecchio mondo dei blocchi politici contrapposti la tecnica era asservita all’ideologia politica ora, che i blocchi non ci sono più e il panorama geopolitico è di gran lunga cambiato, la tecnica tende a liberarsi da ogni ipoteca. L’ideologia della tecnica tende a nutrire questo suo arbitrio con la cultura del relativismo, alimentandola a sua volta. L’arbitrio della tecnica è uno dei massimi problemi del mondo di oggi, come emerge in maniera evidente dalla CV.

2 - Un secondo elemento distingue l’epoca attuale da quella di venti anni fa: l’accentuazione dei fenomeni di globalizzazione determinati da un lato dalla fine dei blocchi contrapposti e dall’altro dalla rete informatica e telematica mondiale. Iniziati nei primi anni Novanta del secolo scorso, questi due fenomeni hanno prodotto cambiamenti fondamentali in tutti gli aspetti della vita economica, sociale e politica. La Centesimus annus accennava al fenomeno, la CV lo affronta organicamente. L’enciclica analizza la globalizzazione non in un solo punto ma in tutto il testo, essendo questo un fenomeno, come oggi si dice, “trasversale”: economia e finanza, ambiente e famiglia, culture e religioni, migrazioni e tutela dei diritti dei lavoratori, tutti questi elementi, ed altri ancora, ne sono influenzati.

3 - Un terzo elemento di cambiamento riguarda le religioni. Molti osservatori notano che in questo ventennio, pure a seguito della fine dei blocchi politici contrapposti, le religioni sono tornate alla ribalta della scena pubblica mondiale. A questo fenomeno, spesso contraddittorio e da decifrare con attenzione, si contrappone un laicismo militante e talvolta esasperato che tende ad estromettere la religione dalla sfera pubblica. Ne discendono conseguenze negative e spesso disastrose per il bene comune. La CV affronta il problema in più punti e lo vede come un capitolo molto importante per garantire all’umanità uno sviluppo degno dell’uomo.

4 - Un quarto ed ultimo cambiamento su cui voglio soffermarmi è l’emergenza di alcuni grandi paesi da una situazione di arretratezza, che sta mutando notevolmente gli equilibri geopolitici mondiali. La funzionalità degli organismi internazionali, il problema delle risorse energetiche, nuove forme di colonialismo e di sfruttamento sono anche collegate con questo fenomeno, positivo in sé ma dirompente e che abbisogna di essere bene indirizzato. Torna qui, impellente, il problema della governance internazionale.

Queste quattro grandi novità accadute nel ventennio che ci separa dall’ultima enciclica sociale, novità rilevanti che hanno cambiato in profondità le dinamiche sociali mondiali, basterebbero da sole a motivare la scrittura di una nuova enciclica sociale. All’origine della CV c’è però un altro motivo che non vorrei venisse dimenticato. Inizialmente la CV era stata pensata dal Santo Padre come una commemorazione dei 40 anni della Populorum progressio di Paolo VI. La redazione della CV ha richiesto più tempo e quindi la data del quarantennio della Populorum progressio – il 2007 – è stato superato. Ma questo non elimina l’importante collegamento con l’enciclica paolina, evidente già dal fatto che la CV viene detta una enciclica “sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità”. Evidente poi per il primo capitolo dell’enciclica, dedicato proprio a riprendere la Populorum progressio, a rileggerne l’insegnamento dentro il magistero complessivo di Paolo VI. Il tema della CV non è lo “sviluppo dei popoli”, ma è “lo sviluppo umano integrale”, senza che questo comporti una trascuratezza del primo. Si può dire quindi che la prospettiva della Populorum progressio venga allargata, in continuità con le sue profonde dinamiche. Alla Populorum progressio viene conferito lo stesso onore dato alla Rerum novarum: venire periodicamente ricordata e commentata. Essa è quindi la nuova Rerum novarum della famiglia umana globalizzata.

All’interno di questo umanesimo integrale la CV parla anche della attuale crisi economica e finanziaria. La stampa si è dimostrata interessata soprattutto a questo aspetto e i giornali si sono chiesti cosa avrebbe detto la nuova enciclica sulla crisi in atto. Vorrei dire che il tema centrale dell’enciclica non è questo, però la CV non si è sottratta alla problematica. L’ha affrontata non in senso tecnico ma valutandola alla luce dei principi di riflessione e dei criteri di giudizio della Dottrina sociale della Chiesa e all’interno di una visione più generale dell’economia, dei suoi fini e della responsabilità dei suoi attori. La crisi in atto mette in evidenza, secondo la CV, che la necessità di ripensare anche il modello economico cosiddetto “occidentale” richiesta dalla Centesimus annus circa venti anni fa non è stato attuato fino in fondo. Dice questo, però, dopo aver chiarito che il problema dello sviluppo si è fatto policentrico e il quadro delle responsabilità, dei meriti e delle colpe, si è molto articolato. Secondo la CV, «La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammi­no, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente » (n. 21). Dall’enciclica emerge una visione in positivo, di incoraggiamento all’umanità perché possa trovare le risorse di verità e di volontà per superare le difficoltà. Non un incoraggiamento sentimentale, dato che nella CV vengono individuati con lucidità e preoccupazione tutti i principali problemi del sottosviluppo di vaste aree del pianeta. Ma un incoraggiamento fondato, consapevole e realistico perché nel mondo sono all’opera molti protagonisti ed attori di verità e di amore e perché il Dio che è Verità e Amore è sempre all’opera nella storia umana.

Nel titolo della CV appaiono i due termini fondamentali del magistero di Benedetto XVI, appunto la Carità e l’Amore. Questi due termini hanno segnato tutto il suo magistero in questi anni di pontificato in quanto rappresentano l’essenza stessa della rivelazione cristiana. Essi, nella loro connessione, sono il motivo fondamentale della dimensione storica e pubblica del cristianesimo, sono all’origine quindi della Dottrina sociale della Chiesa. Infatti «Per questo stretto collegamento con la veri­tà, la carità può essere riconosciuta come espres­sione autentica di umanità e come elemento di fondamentale importanza nelle relazioni umane, anche di natura pubblica. Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta» (n. 3).

La Caritas in veritate è destinata a parlarci a lungo ed a lungo noi dovremo parlare di essa. Dopo circa venti anni dalla Centesimus annus di Giovanni Paolo II, la Chiesa riprende ancora in mano il bandolo della matassa della costruzione del mondo e trasforma la questione sociale nientemeno che nella questione dello “sviluppo umano integrale nella carità e nella verità”. Così facendo la Dottrina sociale della Chiesa viene collocata laddove Chiesa e mondo si incontrano. Il paragrafo 34 dell’enciclica dice con chiarezza che dopo il peccato il mondo non sa costruirsi da solo. La Dottrina sociale, come diceva Giovanni Paolo II, è strumento di salvezza perché è annuncio di Cristo nelle realtà temporali. La Caritas in veritate ribadisce la “pretesa” cristiana: senza di me non potete fare nulla.

Senza la forza della carità e la luce della verità cristiane l’uomo non è capace di tenersi insieme, perde i propri pezzi, si contraddice, si scompone e si decompone. La pretesa cristiana è che solo Gesù Cristo svela pienamente l’uomo all’uomo e gli permette di “tenersi”, come un tutto. Una lettura della Caritas in veritate da questo punto di vista sarebbe molto interessante. Destra e sinistra, conservazione e progressismo, capitalismo e anticapitalismo, natura e cultura … queste ed altre separazioni e riduzioni vengono completamente sorvolate: la realtà è più di esse e la realtà è data dalla carità e dalla verità. Si pensi alla più frequente delle scomposizioni ideologiche: la separazione dei temi della vita e della famiglia da quelli della giustizia sociale e della pace. Separazione evidentissima, per esempio, nel riduzionismo ecologista o nello sviluppo dei popoli poveri collegato con l’aborto o la pianificazione riproduttiva forzata. L’enciclica dice che tutto ciò va “tenuto insieme”. Si pensi alla frequente interpretazione dello sviluppo solo in termini quantitativi, a fronte di altre cause – qualitative – sia del sottosviluppo che del supersviluppo. L’ideologia della tecnica è il nuovo assolutismo (si veda il capitolo VI) perché separa: se tutti i problemi della persona umana si riducono a problemi psicologici risolvibili da tecnici “esperti” si finisce per non sapere nemmeno più cosa si intenda per sviluppo. L’uomo è unità di corpo e anima. La Caritas in veritate riconsegna allo spirito e alla vita eterna il loro posto nella costruzione della città terrena.

La pretesa cristiana è di riuscire a tenere insieme il tutto. Ma è anche quella di rispondere ad un bisogno, meglio ad una attesa. Anche questo secondo aspetto della pretesa cristiana c’è tutto nella Caritas in veritate. Senza negare i diversi livelli di verità e di competenza, e quindi senza negare anche i propri limiti, la Chiesa sa di annunciare la Parola definitiva e che questa Parola non si aggiunge dall’esterno come un’opinione, ma pretende di essere la risposta alle attese umane. Dio ha così il suo posto nel mondo e la Chiesa un suo “diritto di cittadinanza” . Che Dio abbia un posto nel mondo richiede che il mondo ne abbia bisogno anche per essere mondo, ossia per conseguire i suoi fini naturali, viceversa Dio è superfluo. Utile, magari, ma non indispensabile. Se Dio è solo utile allora il cristianesimo è solo etica. Se, invece, Dio è indispensabile allora la fede purifica la ragione e la carità purifica la giustizia. Purifica significa che le rende effettivamente ragione ed effettivamente carità. Come dire che senza la fede la ragione non riesce ad essere ragione e senza la carità la giustizia non riesce ad essere giustizia.

Non si comprenderà a fondo la Caritas in veritate se ci si soffermerà solo sui singoli capitoli tematici, senza tenere in conto la visione generale. Il tema vero dell’enciclica è il posto di Dio nel mondo. Per questo la Caritas in veritate è anche un bilancio politico e sociale della modernità e dei danni al vero sviluppo provocati dalla incapacità di cogliere ciò che non sia prodotto da noi. Il paragrafo 34 è tra i più belli – e più importanti - dell’enciclica in quanto parla della “stupefacente esperienza del dono”. La modernità, nella sua versione emergente, elimina la possibilità stessa di “ricevere” e di “accogliere” qualcosa di veramente nuovo e che “irrompe” nella nostra vita. Impedisce di cogliere la carità e l’amore che sono sempre quanto non si può prevedere e produrre. Toglie quindi a Dio il suo posto nel mondo, perché Dio è Carità e Amore. Toglie la possibilità di riconoscersi come “fratelli”, perché la vicinanza si può produrre – dice l’enciclica – ma la fraternità no. Qualcuno ha osservato che nell’enciclica si parla più di fraternità che di solidarietà. E’ vero. Non però per eliminare il termine solidarietà, ma per chiarirlo meglio alla luce della fede cristiana. La fraternità richiede un unico Padre e non può essere che un dono. La solidarietà corre il rischio del solidarismo e quindi della orizzontalità etica. Potremmo dire che la fraternità cristiana purifica la solidarietà umana.

Che rapporto c’è tra la prospettiva del dono e quella della libertà e della responsabilità? La Caritas in veritate colloca il tema dello sviluppo in questo ultimo ambito, non quello dei meccanismi ma quello della responsabilità. Questa non nasce da quanto produciamo noi, ma dall’accoglienza di doveri indisponibili. Al contrario la libertà sarebbe arbitraria e la responsabilità irresponsabile. Si legga con attenzione il paragrafo 43 sui diritti e sui doveri. Lì la modernità è purificata, ossia liberata da se stessa per essere più autenticamente se stessa. Da una modernità irresponsabile ad una modernità responsabile. Il sottosviluppo è prodotto. Ed è prodotto meno da carenza di risorse e più da carenza di pensiero e di cuore. Il pensiero e il cuore – se non ridotti ad opinione e a sentimento – ci mettono davanti a quanto ci interpella perché non prodotto da noi. Ci indicano il senso vero dello sviluppo da assumere liberamente e responsabilmente, senza affidarne la realizzazioni solo a burocrazie o a meccanismi.

La grandezza della Caritas in veritate sta nel suo respiro. Senza Dio, si legge nella Conclusione, l’uomo non sa dove andare e non sa nemmeno chi egli sia. Senza Dio l’economia è solo economia, la natura è solo un deposito di materiale, la famiglia solo un contratto, la vita solo una produzione di laboratorio, l’amore solo chimica e lo sviluppo solo una crescita. L’uomo ondeggia tra natura e cultura, ora intendendosi solo come natura ora solo cultura, senza vedere che la cultura è la vocazione della natura, ossia il compimento non arbitrario di quanto essa già attendeva.

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