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Viaggi pastorali in Italia

Ultimo Aggiornamento: 06/10/2012 20:47
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30/04/2009 17:47
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LA VISITA DI BENEDETTO

l’abbraccio

Attorno al Pontefice un popolo intero, vecchi, ragazzi, volontari, vigili del fuoco e finanzieri che si sono ritrovati insieme nelle parole delle preghiere cristiane

Quei segni di fede ritrovati che risvegliano memoria e pietà

Ratzinger bussa alla porta giubilare di Collemaggio che s’apre sullo sfacelo

Appena dentro la basilica è stata messa la teca di Celestino V, santo della Perdonanza e patrono dell’Aquila. Recuperata integra dalle macerie è simbolo della storia che continua La campana di Onna salvata dai pompieri continua a suonare da un campanile di travi. E il crocefisso scoperto tra i detriti della chiesa delle Anime Sante ieri era al centro del palco

DI MARINA CORRADI

La grande porta giubilare della ba silica di Collemaggio è intatta. La mano di Benedetto XVI e quella dell’arcivescovo dell’Aquila insieme bussano sul legno massiccio, com’è tradizione: a Collemaggio, i pellegrini bussano.
Il portone si schiude mo strando il transetto in macerie, il tetto sventrato da cui la pioggia e il vento entrano come padroni. Ma appena dentro è stata messa la teca di Celesti no V, intatta con la sua teca nello sfa celo generale.
Benedetto si inginoc chia, depone il pallio della sua investi tura papale sul santo dell’Aquila, sul santo della Perdonanza, da cui in pel­legrinaggio ogni anno tornano gli a bruzzesi. È un segno, quel tornare a bussare a Collemaggio distrutta; è la fede e la storia di un popolo che, dopo la tempesta, continua.
E tutta la mattina abruzzese del Papa è un allinearsi di segni. È la campana di Onna salvata dai pompieri e instal lata su un povero campanile di travi; è il crocefisso strappato alle macerie del la chiesa delle Anime Sante e posto al centro del palco, a Coppito. Subito do po che le vite umane, gli abruzzesi sembrano aver cercato e salvato osti natamente i segni della loro fede – co sì come, da una casa distrutta, affan nosamente si prendono almeno le fo tografie dei genitori, e dei figli.
Segni come simboli che rimandano a antichi patrimoni di memoria e di pietà.
Abbiamo visto, attorno al Papa in Abruzzo, un popolo vero. Sfollati avvolti in impermeabili di plastica sotto l’acqua battente, vecchi, ragazzi, volontari, pompieri e finanzieri davanti a quel palco, e forse ci ha quasi stupito vedere sulle labbra le parole del Regina Coeli, e, comunque un ritrovarsi insieme nelle parole delle preghiere cristiane.
Un’Italia che ci dicono scomparsa, o in via di estinzione. Ma in questo Abruzzo passato attraverso la catastrofe, sotto a un cielo di nuvole torve, la gente è andata dal Papa, s’è stretta davanti alle tv nelle tendopoli, ha ripetuto con lui coralmente vecchie parole: requiem aeternam dona eis Domine…
Lui è venuto come un padre.
Come un padre, è andato prima di tutto nel cuore del dolore, a Onna, quaranta morti su 250 abitanti. E lì ogni protocollo ufficiale è saltato; gli stava attorno, addosso, la gente – proprio come quando arriva in una casa una persona cara, che si aspettava tanto. Una madre gli ha porto una bambina piccolissima; e c’era in quegli occhi di donna una commossa fierezza di regina, nel mostrare al Papa che a Onna nascono ancora figli, che Onna è viva. A Coppito, il Papa ha voluto salutare i preti della diocesi ad uno ad uno; e i sindaci, anche, e ancora ci ha sorpreso vedere che quasi tutti, con le fasce tricolori addosso, gli baciavano la mano. Come un’Italia che nella sofferenza supera divisioni e riscopre ciò che tiene, al fondo: una comune radice.
Perché questa solidarietà che abbiamo visto prendere corpo e forza in Abruzzo, e quasi ha meravigliato gli italiani stessi, e tacitato per qualche giorno risse e meschinerie, non è solo, ha detto il Papa, una efficiente macchina organizzativa: dentro invece «c’è un’anima, c’è una passione, che deriva dalla grande storia civile e cristiana del nostro popolo».
L’anima dell’Abruzzo, che è poi l’anima dell’Italia più semplice e tenace, s’è vista nelle strade sferzate dalla pioggia, mentre i vecchi cocciutamente si ricalcavano in testa i cappucci delle cerate che il vento strappava. S’è vista, nelle mani che afferravano quelle del Papa e le tenevano a lungo, e malvolentieri se ne staccavano. Perfino, anche se a chi guardava la tv dal suo soggiorno caldo e asciutto pareva incredibile, si sono visti a Coppito e a Onna dei sorrisi. Come si sono visti gli sguardi fissi a terra di chi non potrà colmare il suo dolore, degli straziati che quella notte sono sopravvissuti a un figlio.
Che cosa si può dire a questi padri e madri? Forse che si farà giustizia, che quel costruttore andrà in galera?
L’unica parola la può portare chi ti dice, come ha detto il Papa: i vostri figli, sono fra i vivi.
Sono venuti a cercare la sola parola che vale di fronte alla morte, i terremotati abruzzesi. Come istintivamente, come sapendo in fondo che oltre la dimenticanza quella radice c’è ancora, ed è la sola che un boato feroce nella notte non possa scalzare. Sono venuti i compagni degli studenti morti all’Aquila, ragazzi e ragazze, a salutare il Papa. C’era con loro il giovanissimo cappellano che nel quartiere dei pub teneva la sua chiesa aperta fino alle due di notte: chi voleva, entrava – ed entravano in tanti. Uno di questi studenti ha raccontato di avere detto a Benedetto XVI di studiare ingegneria.
Il Papa si è illuminato: «Ah, un ingegnere, c’è tanto bisogno qui di voi». E quel ragazzo pareva essersi messo via, in fondo al cuore, quelle parole. Si può aver perso gli amici e la casa e ogni certezza, ma voler vivere e sperare ancora, se sai che delle tue mani c’è bisogno. Se sei certo – te lo ha detto un padre – che nemmeno i tuoi amici, in verità, li hai perduti per sempre.

© Copyright Avvenire, 29 aprile 2009


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