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Viaggio apostolico in Giordania e Israele

Ultimo Aggiornamento: 08/07/2009 21:40
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15/05/2009 17:51
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Discorso del Papa al termine del suo viaggio in Terra Santa


TEL AVIV, venerdì, 15 maggio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo venerdì da Benedetto XVI nel corso della cerimonia di congedo all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv.

* * *

Signor Presidente,

Signor Primo Ministro,

Eccellenze, Signore e Signori,

Mentre mi dispongo a ritornare a Roma, vorrei condividere con voi alcune delle forti impressioni che il mio pellegrinaggio in Terra Santa ha lasciato dentro di me. Ho avuto fruttuosi colloqui con le Autorità civili, sia in Israele, sia nei Territori Palestinesi, e ho constatato i grandi sforzi che entrambi i Governi stanno compiendo per assicurare il benessere delle persone. Ho incontrato i Capi della Chiesa cattolica in Terra Santa e mi rallegro di vedere il modo in cui lavorano insieme nel prendersi cura del gregge del Signore. Ho anche avuto la possibilità di incontrare i responsabili delle varie Chiese cristiane e comunità ecclesiali, nonché i capi di altre religioni in Terra Santa. Questa terra è davvero un terreno fertile per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso e prego affinché la ricca varietà della testimonianza religiosa nella regione possa portare frutto in una crescente comprensione reciproca e mutuo rispetto.

Signor Presidente, Lei ed io abbiamo piantato un albero di olivo nella Sua residenza, nel giorno del mio arrivo in Israele. L’albero di olivo, come Ella sa, è un’immagine usata da San Paolo per descrivere le relazioni molto strette tra Cristiani ed Ebrei. Nella sua Lettera ai Romani, Paolo descrive come la Chiesa dei Gentili sia come un germoglio di olivo selvatico, innestato nell’albero di olivo buono che è il Popolo dell’Alleanza (cfr 11, 17-24). Traiamo il nostro nutrimento dalle medesime radici spirituali. Ci incontriamo come fratelli, fratelli che in certi momenti della storia comune hanno avuto un rapporto teso, ma sono adesso fermamente impegnati nella costruzione di ponti di duratura amicizia.

La cerimonia al Palazzo Presidenziale è stata seguita da uno dei momenti più solenni della mia permanenza in Israele – la mia visita al Memoriale dell’Olocausto a Yad Vashem, dove ho reso omaggio alle vittime della Shoah. Lì ho anche incontrato alcuni dei sopravvissuti. Quegli incontri profondamente commoventi hanno rinnovato ricordi della mia visita di tre anni fa al campo della morte di Auschwitz, dove così tanti Ebrei – madri, padri, mariti, mogli, figli, figlie, fratelli, sorelle, amici – furono brutalmente sterminati sotto un regime senza Dio che propagava un’ideologia di antisemitismo e odio. Quello spaventoso capitolo della storia non deve essere mai dimenticato o negato. Al contrario, quelle buie memorie devono rafforzare la nostra determinazione ad avvicinarci ancor più gli uni agli altri come rami dello stesso olivo, nutriti dalle stesse radici e uniti da amore fraterno.

Signor Presidente, La ringrazio per il calore della Sua ospitalità, molto apprezzata, e desidero che consti il fatto che sono venuto a visitare questo Paese da amico degli Israeliani, così come sono amico del Popolo Palestinese. Gli amici amano trascorrere del tempo in reciproca compagnia e si affliggono profondamente nel vedere l’altro soffrire. Nessun amico degli Israeliani e dei Palestinesi può evitare di rattristarsi per la continua tensione fra i vostri due popoli. Nessun amico può fare a meno di piangere per le sofferenze e le perdite di vite umane che entrambi i popoli hanno subito negli ultimi sei decenni. Mi consenta di rivolgere questo appello a tutto il popolo di queste terre: Non più spargimento di sangue! Non più scontri! Non più terrorismo! Non più guerra! Rompiamo invece il circolo vizioso della violenza. Possa instaurarsi una pace duratura basata sulla giustizia, vi sia vera riconciliazione e risanamento. Sia universalmente riconosciuto che lo Stato di Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti. Sia ugualmente riconosciuto che il Popolo palestinese ha il diritto a una patria indipendente sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente. Che la "two-State solution" (la soluzione di due Stati) divenga realtà e non rimanga un sogno. E che la pace possa diffondersi da queste terre; possano essere "luce per le Nazioni" (Is 42,6), recando speranza alle molte altre regioni che sono colpite da conflitti.

Una delle visioni più tristi per me durante la mia visita a queste terre è stato il muro. Mentre lo costeggiavo, ho pregato per un futuro in cui i popoli della Terra Santa possano vivere insieme in pace e armonia senza la necessità di simili strumenti di sicurezza e di separazione, ma rispettandosi e fidandosi l’uno dell’altro, nella rinuncia ad ogni forma di violenza e di aggressione. Signor Presidente, so quanto sarà difficile raggiungere quell’obiettivo. So quanto sia difficile il Suo compito e quello dell’Autorità Palestinese. Ma Le assicuro che le mie preghiere e le preghiere dei cattolici di tutto il mondo La accompagnano mentre Ella prosegue nello sforzo di costruire una pace giusta e duratura in questa regione.

Mi resta solo da esprimere il mio sentito ringraziamento a quanti hanno contribuito in modi diversi alla mia visita. Sono profondamente grato al Governo, agli organizzatori, ai volontari, ai media, a quanti hanno dato ospitalità a me e a coloro che mi hanno accompagnato. Siate certi di essere ricordati con affetto nelle mie preghiere. A tutti dico: grazie e che il Signore sia con voi. Shalom!

[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]







Il viaggio di Benedetto XVI è stato un successo?
di padre Thomas D. Williams, LC*


GERUSALEMME, venerdì, 15 maggio 2009 (ZENIT.org).- Seguendo la cronologia dell'infanzia di Gesù, questo giovedì l'attenzione si è spostata dalla città natale di Betlemme a Nazareth. Alle prime luci dell'alba, Benedetto XVI ha lasciato Gerusalemme in elicottero e si è recato nella terra in cui Gesù ha trascorso la maggior parte della sua vita terrena, dall'infanzia fino all'età di circa 30 anni.

Nell'omelia della Messa che ha celebrato al mattino, il Papa ha ricordato a quanti lo ascoltavano che Nazareth è anche il luogo dell'Annunciazione – dove l'angelo Gabriele proclamò a Maria che sarebbe stata la madre del Messia, e dove il Verbo si è fatto carne.

Nazareth è il luogo in cui Gesù ha imparato il mestiere di falegname da Giuseppe. Accanto a questo, ha spiegato il Santo Padre, “imparò le virtù della pietà virile, della fedeltà alla parola data, dell’integrità e del duro lavoro”.

Nazareth era anche la città natale di Maria, e il Papa ha colto l'occasione per approfondire, per la seconda volta durante questo viaggio, l'importanza delle donne nella Chiesa e nella società. Nazareth, ha sottolineato, “ci ricorda il dovere di riconoscere e rispettare dignità e missione concesse da Dio alle donne, come pure i loro particolari carismi e talenti”.

Come madri di famiglia, come lavoratrici o nella vita consacrata, “le donne hanno un ruolo indispensabile nel creare quella 'ecologia umana' di cui il mondo, e anche questa terra, hanno così urgente bisogno”, ha aggiunto.

Tutte queste riflessioni – e innumerevoli altre che il Papa ha offerto in questi giorni – portano a una necessaria conclusione. Anche se non lo si può capire da tanti resoconti, il viaggio di Benedetto XVI in Terra Santa non è stato in primo luogo politico; è stato spirituale. Fin dall'inizio il Papa ha insistito nel definirlo “pellegrinaggio” piuttosto che “viaggio” o “visita”. E nonostante il suo aspetto fortemente pubblico, un pellegrinaggio ha sempre una dimensione intensamente personale. Il Papa è, in primo luogo e sopra ogni cosa, un credente cristiano, un discepolo del Signore Gesù.

Pensate un momento a ciò che deve significare per Benedetto XVI visitare la Galilea per la prima e probabilmente unica volta come Papa. La Galilea, dove San Pietro ha incontrato Gesù per la prima volta, dove è stato chiamato e ha lasciato tutto per seguirlo, non sapendo che sarebbe stato il primo Papa della Chiesa di Cristo e uno dei suoi primi martiri.

Pensate a cosa ha significato per lui in questi giorni trovarsi a Gerusalemme e visitare i Luoghi Santi. Gerusalemme, dove Gesù è stato rinnegato da Pietro, tradito da Giuda, dove ha istituito la Santa Eucaristia e ha dato la vita per noi sulla croce. Gerusalemme, dove Gesù è risorto dai morti ed è asceso al cielo.

Il Santo Padre è un uomo profondamente spirituale, e desiderava compiere questo pellegrinaggio. E' il viaggio che ha desiderato più di ogni altro. Sotto le onde increspate di tante attività e opposizioni, c'è un luogo calmo come le profondità del mare in cui il Papa si ritira imperturbato, un luogo dove si trova da solo con Dio. Come Maria, serba tutte queste cose e le pondera nel suo cuore (cfr. Lc 2:19).

In questo contesto, percepiamo il pieno senso della splendida espressione di Sant'Agostino ai fedeli di Ippona: “Per voi sono Vescovo, con voi sono cristiano”. In Terra Santa Benedetto XVI è stato entrambe le cose. Per noi – in realtà per tutte le Nazioni e per tutti i popoli – è il Vescovo di Roma e Vicario di Gesù Cristo. E' un leader, un profeta di pace, un predicatore del Vangelo e un maestro delle Nazioni. Per noi, si prende cura del gregge di Cristo e conferma i suoi fratelli nella fede. Con noi Benedetto XVI è un semplice cristiano, un pellegrino che visita i Luoghi Santi e trae forza dalla grazia che è presente qui. Con lui ci meravigliamo davanti al mistero della Provvidenza di Dio e alla maestà delle sue opere.

In questi giorni mi è stato chiesto spesso se il viaggio del Papa sia stato un “successo”. Lo è stato senz'altro, ma non per le ragioni che molti si aspetterebbero. Sono sicuro che il Pontefice stesso risponderebbe che un cambiamento reale e duraturo – di quelli che contano – non è il risultato di programmi politici, argomenti ingegnosi o della capacità di guadagnarsi l'approvazione delle masse. E' l'opera della grazia di Dio nel cuore umano.

Benedetto XVI è arrivato come strumento di quella grazia e, come diceva San Francesco, come mezzo della pace di Dio. E' questo che è chiamato a fare, e come servo buono e fedele è proprio quello che ha fatto.



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*Padre Thomas D. Williams, Legionario di Cristo, è un teologo statunitense che vive a Roma. Attualmente sta seguedo per la CBS News la storica visita di Benedetto XVI in Terra Santa. Per l'occasione ha deciso di scivere una cronaca del viaggio anche per ZENIT.

[Traduzione dall'inglese di Roberta Sciamplicotti]









Il Papa: cristiani uniti, per portare il messaggio di riconciliazione
Incontro ecumenico al Patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme



GERUSALEMME, venerdì, 15 maggio 2009 (ZENIT.org).- L'unità dei cristiani è un imperativo ancora più avvertito in Terra Santa, dove è necessario portare un messaggio forte di riconciliazione.

E' quanto ha detto in sintesi, questo venerdì, Benedetto XVI durante l’incontro ecumenico tenutosi al Patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme, di fronte alle rappresentanze delle Comunità cristiane di Terra Santa.

Ringraziando per l'invito il Patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme, Teofilo III, Benedetto XVI ha auspicato un nuovo slancio nel dialogo teologico bilaterale tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse nel suo insieme.

A questo proposito ha ricordato la partecipazione del Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Sua Santità Bartolomeo I, al recente Sinodo dei Vescovi a Roma dedicato al tema: "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa".

“Una simile esperienza ecumenica testimonia chiaramente il legame fra l’unità della Chiesa e la sua missione”, ha sottolineato il Papa.

“Non meraviglia, perciò, che sia precisamente in presenza del nostro ardente desiderio di portare Cristo agli altri, di render noto il suo messaggio di riconciliazione, che noi sperimentiamo la vergogna della nostra divisione”, ha poi affermato.

“Chiamati ad annunciare la riconciliazione”, ha detto, “noi dobbiamo trovare la forza di raddoppiare il nostro impegno per perfezionare la nostra comunione, per renderla completa, per recare comune testimonianza all’amore del Padre”.

E' “imperativo che i Capi cristiani e le loro comunità rechino una testimonianza vigorosa a quanto proclama la nostra fede: la Parola eterna, che entrò nello spazio e nel tempo in questa terra, Gesù di Nazareth, che camminò su queste strade, chiama mediante le sue parole e i suoi atti persone di ogni età alla sua vita di verità e d’amore”.

“Mi sembra – ha poi concluso – che il servizio più grande che i Cristiani di Gerusalemme possano offrire ai propri concittadini sia di allevare ed educare una nuova generazione di Cristiani ben formati ed impegnati, solleciti nel desiderio di contribuire generosamente alla vita religiosa e civile di questa città unica e santa”.

Il Patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme è una Chiesa ortodossa di tradizione bizantina che conta all'incirca 65 membri in tutta la Terra Santa e la cui successione apostolica si fa risalire fino a quel Giacomo “fratello” di Gesù, nominato da Paolo come una delle “colonne” della Chiesa, insieme a Pietro e Giovanni, e che fu Vescovo di Gerusalemme, dalla partenza di Pietro per Roma fino al martirio avvenuto durante la Pasqua del 62.

Il Patriarcato è stato istituito dal Concilio di Calcedonia nel 451, ed ha rotto i legami con Roma in occasione del Grande Scisma del 1054. Dal 1534, i Patriarchi di Gerusalemme sono tutti di origine greca, un fatto che ha provacato non poche tensioni con il clero di lingua araba.

Il Patriarcato è assistito da un Santo Sinodo di 18 membri, nominati dal Patriarcato stesso, ed eletto tra i membri di una confraternita monastica, la Fratellanza del Santo Sepolcro, istituita nel XVI sec.

Nella Chiesa greco-ortodossa di Gerusalemme, la nomina o la destituzione di un Patriarca devono essere confermate dallo Stato d'Israele, dal regno di Giordania e dell’Autorità Palestinese.

Il Patriarca Teofilo III, di nazionalità greca, è stato eletto all'unanimità nuovo Patriarca durante il Sinodo dell'agosto 2005, in sostituzione di Ireneos I che il Sinodo pan-ortodosso di Costantinopoli aveva deposto dall'incarico il 24 maggio dello stesso anno, perché accusato di aver venduto segretamente immobili e terreni appartenenti al Patriarcato.






Il Papa fa sì che la pace risuoni in Terra Santa
Bilancio di padre Federico Lombardi


GERUSALEMME, venerdì, 15 maggio 2009 (ZENIT.org).- Padre Federico Lombardi S.I., direttore della Sala Stampa della Santa Sede, sostiene che Benedetto XVI abbia compiuto la missione che si era proposto di svolgere in Terra Santa: far sì che la pace risuoni nei vari angoli religiosi, sociali e politici.

"In quest'ultimo viaggio il Papa ha parlato molto di pace, come aveva promesso: trenta discorsi, un solo messaggio, che ridice, senza stancarsi, quest'unico tema, con innumerevoli variazioni: pace fra israeliani e palestinesi; pace fra ebrei, musulmani e cristiani; pace nella Chiesa, fra le confessioni e i riti; pace nella società e nella famiglia; pace fra Dio, l'uomo e le creature; pace nei cuori, nel Medio Oriente e nel mondo...pace, pace, pace", ha spiegato il sacerdote.

"Ha parlato molto, ma ha anche ascoltato, almeno altrettanto e forse più ancora", ha aggiunto facendo un bilancio per "Octava Dies", il settimana del Centro Televisivo Vaticano, di questa visita che dall'8 al 15 maggio ha portato il Santo Padre in Giordania, Israele e nei Territori palestinesi.

"Benedetto è un Papa dell'ascolto - constata il portavoce vaticano -. Quante persone gli hanno parlato, quante cose gli hanno detto, con quanta passione, con quanta diversità di atteggiamento e di prospettive! Quanto è difficile fare la pace, soprattutto nel punto cruciale di ogni tensione: Gerusalemme!".

Secondo padre Lombardi, "il Papa ha fatto dunque un pellegrinaggio nei luoghi, ma ancor più nei cuori. E non è passato solo nei luoghi più santi del cristianesimo, ma anche in quelli dell'ebraismo e dell'Islam: Yad Vashem, il Muro del pianto, la Cupola della roccia. Ha fatto suoi i sentimenti di tutti i pellegrini delle tre religioni per i quali chiede l'accesso ai luoghi santi. Un Papa cristiano, ma un Papa per tutti, al disopra delle divisioni. Un esempio da seguire".

Il portavoce vaticano ricorda che "quando Giovanni Paolo II era stato in Terra Santa, il nuovo Muro non esisteva. Anche qui dunque è venuto coraggiosamente il nuovo Papa pellegrino, per chiedere a Dio e agli uomini che i muri di divisione si abbattano, a cominciare da quelli che chiudono e dividono i cuori. 'Mai più spargimento di sangue! Mai più terrorismo! Mai più guerra!'".

"Con questo grido termina il pellegrinaggio della speranza, in un momento cruciale per l'avvenire della pace nella Terra Santa. Il Papa ha fatto tutto quello che poteva e continuerà a farlo. Dio accompagni ora tutti gli sforzi degli operatori di pace, religiosi, civili e politici", ha concluso.






Benedetto XVI si congeda dalla Terra Santa
Auspica che “la soluzione di due Stati divenga realtà”

di Roberta Sciamplicotti


TEL AVIV, venerdì, 15 maggio 2009 (ZENIT.org).- Dopo una mattinata densa di incontri importanti soprattutto per il dialogo ecumenico, Benedetto XVI si è congedato questo venerdì dalla Terra Santa al termine di una settimana ricca di eventi memorabili.

Dopo aver salutato la Delegazione Apostolica di Gerusalemme, si è recato in auto all’eliporto di Mount Scopus, da dove è partito in elicottero alla volta di Tel Aviv.

Al suo arrivo all'aeroporto Ben Gurion, è stato accolto dal Presidente dello Stato di Israele, Shimon Peres, e dal Primo Ministro, Benjamin Netanyahu, che lo hanno salutato calorosamente. La banda e il picchetto militare d'onore hanno fatto da sfondo alla cerimonia di congedo.

Prima dei discorsi ufficiali, varie personalità hanno salutato il Papa: i Ministri del Governo israeliano, leader militari ed esponenti delle varie religioni, i responsabili della copertura stampa e il direttore dell'El Al, la compagnia aerea israeliana che ospiterà il Pontefice nel suo rientro a Roma. Era presente anche il Custode di Terra Santa, il sacerdote francescano Pierbattista Pizzaballa.

Nel suo discorso di congedo, il Pontefice ha ricordato i tanti incontri che hanno costellato il suo pellegrinaggio, da quelli con le autorità civili israeliane e palestinesi a quelli con i capi della Chiesa cattolica e delle varie Chiese cristiane.

“Questa terra è davvero un terreno fertile per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso e prego affinché la ricca varietà della testimonianza religiosa nella regione possa portare frutto in una crescente comprensione reciproca e mutuo rispetto”, ha affermato.

Il Papa ha quindi parlato dei rapporti ebraico-cristiani, sottolineando che i membri delle due religioni traggono nutrimento “dalle medesime radici spirituali” e che nonostante le tensioni del passato sono ora “fermamente impegnati nella costruzione di ponti di duratura amicizia”.

“Uno dei momenti più solenni” della settimana in Terra Santa, ha proseguito Benedetto XVI, è stata la visita al Memoriale dell'Olocausto di Yad Vashem, che gli ha riportato alla mente la visita ad Auschwitz, il 28 maggio 2006, dove milioni di ebrei “furono brutalmente sterminati sotto un regime senza Dio che propagava un’ideologia di antisemitismo e odio”.

“Quello spaventoso capitolo della storia non deve essere mai dimenticato o negato”, ha dichiarato.

Ricordando di essersi recato in Israele “da amico degli Israeliani, così come sono amico del popolo palestinese”, il Papa ha affermato che “nessun amico degli Israeliani e dei Palestinesi può evitare di rattristarsi per la continua tensione fra i vostri due popoli”.

Per questo, ha lanciato un forte appello alla pace: “Non più spargimento di sangue! Non più scontri! Non più terrorismo! Non più guerra!”.

“Sia universalmente riconosciuto che lo Stato di Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti – ha continuato –. Sia ugualmente riconosciuto che il Popolo palestinese ha il diritto a una patria indipendente sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente. Che la 'two-State solution' (la soluzione di due Stati) divenga realtà e non rimanga un sogno”.

Definendo il muro di separazione “una delle visioni più tristi” del suo viaggio, il Papa ha auspicato che in futuro le popolazioni della Terra Santa “possano vivere insieme in pace e armonia senza la necessità di simili strumenti di sicurezza e di separazione, ma rispettandosi e fidandosi l’uno dell’altro, nella rinuncia ad ogni forma di violenza e di aggressione”.

Nel suo discorso al Pontefice, il Presidente israeliano Peres lo ha ringraziato per la visita che ha compiuto in Israele, definendola un “esempio dell'esercizio dei valori spirituali” e dicendosi certo che contribuirà al buon andamento dei rapporti tra Israele e la Santa Sede.

Il Capo di Stato ha confessato di aver apprezzato particolarmente le parole pronunciate da Benedetto XVI visitando lo Yad Vashem, quando ha esortato a non dimenticare mai la Shoah, e ha sostenuto che le dichiarazioni papali hanno toccato “il cuore e la mente” degli israeliani.

Esprimendo la propria condanna per il fanatismo religioso, Peres ha aggiunto di sperare che la leadership spirituale del Papa aiuterà a capire che Dio non è il Dio del terrorismo, ma della pace e della tolleranza, e che getterà “ponti di comprensione e dialogo” perché si possa vivere in un futuro “una vita senza paure, una vita senza lacrime”.

Sotto il soffio di una brezza che faceva volare la berretta dei Cardinali e Vescovi del seguito papale, la banda ha poi eseguito l'inno vaticano, seguito da quello israeliano.

Dopo aver salutato il Presidente Peres e il premier Netanyahu, stringendo a lungo le mani di entrambi e baciando sulle guance il Capo di Stato, Benedetto XVI è quindi salito a bordo di un B777 della El Al, che ha decollato poco dopo alla volta di Roma.





Il Papa incontra il Patriarca armeno-ortodosso Torkom II
Nella Chiesa Patriarcale Armena Apostolica di Gerusalemme

di Roberta Sciamplicotti


GERUSALEMME, venerdì, 15 maggio 2009 (ZENIT.org).- L'incontro tra Benedetto XVI e il Patriarca della Chiesa Armena Apostolica, Sua Beatitudine Torkom II Manoukian, avvenuto questo venerdì mattina a Gerusalemme, è stato un “ulteriore passo” fondamentale nel dialogo ecumenico.

La visita del Papa al Patriarca si è svolta nella sede della Chiesa Patriarcale Armena Apostolica di Gerusalemme, nel Monastero di San Giacomo, dove si erano riunite alcune centinaia di fedeli.

“Il nostro odierno incontro, caratterizzato da una atmosfera di cordialità ed amicizia, è un ulteriore passo nel cammino verso l’unità che il Signore desidera per tutti i suoi discepoli”, ha affermato il Papa nel suo discorso a Torkom II Manoukian.

Negli ultimi decenni si è verificata, “per grazia di Dio, una significativa crescita nelle relazioni tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Apostolica Armena”, ha sottolineato il Pontefice, ricordando come “una grande benedizione” il suo incontro dello scorso anno con il Catholicos e Supremo Patriarca di tutti gli Armeni Karekin II e con il Catholicos di Cilicia Aram I, la cui visita alla Santa Sede, insieme ai momenti di preghiera condivisi, “ci hanno rafforzati nell’amicizia ed hanno confermato il nostro impegno per la sacra causa della promozione dell’unità dei cristiani”.

Il Pontefice ha voluto esprimere il suo apprezzamento “per il deciso impegno della Chiesa Apostolica Armena a proseguire nel dialogo teologico fra la Chiesa Cattolica e le Chiese Ortodosse Orientali”, dialogo che, “sostenuto dalla preghiera, ha fatto progressi nel superare il fardello di malintesi passati ed offre molte promesse per il futuro”.

Un “particolare segno di speranza”, ha osservato Benedetto XVI, è il recente documento sulla natura e la missione della Chiesa preparato dalla Commissione Mista e presentato alle Chiese per essere studiato e valutato.

“Affidiamo insieme il lavoro della Commissione Mista ancora una volta allo Spirito di sapienza e verità, perché possa portare frutti abbondanti per la crescita dell’unità dei Cristiani e far progredire l’espansione del Vangelo fra gli uomini e le donne del nostro tempo”, ha auspicato.

Allo stesso modo, ha chiesto ai presenti di unirsi alla sua preghiera perché tutti i cristiani della Terra Santa “lavorino assieme con generosità e zelo annunciando il Vangelo della nostra riconciliazione in Cristo, e l’avvento del suo Regno di santità, di giustizia e di pace”.

E' probabile che i primi armeni siano giunti a Gerusalemme al seguito dei romani nel I secolo a.C., ma lo stanziamento vero e proprio della comunità armena avvenne nel corso del V secolo, quando gruppi di pellegrini vi si insediarono stabilmente.

Il Quartiere Armeno occupa circa un sesto della Città Vecchia di Gerusalemme, l'estremità sud-ovest. Dopo aver raggiunto in passato un picco di circa 25.000 membri, la comunità è attualmente composta da 3.000 fedeli. Altri 2.000 vivono in altre zone della Terra Santa, soprattutto a Betlemme, Jaffa, Haifa, Ramleh e Ramallah. Il Quartiere Armeno di Gerusalemme viene chiuso la sera per riaprire alle prime luce dell'alba.

Il Patriarca Torkom II Manoukian è stato eletto nel 1990 ed è il 96° successore del Patriarca Armeno di Gerusalemme.

Anche Giovanni Paolo II incontrò il Patriarca durante il suo viaggio in Terra Santa, il 26 marzo 2000.

“Possa la nostra amicizia essere come una preghiera che sale a Dio come incenso, come il profumo del sacrificio della sera offerto sulla Croce dal suo Figlio prediletto!”, auspicò in quell'occasione, confessando di sentirsi nel Patriarcato “un fratello tra fratelli che insieme cercano di costruire la Chiesa di Cristo”.

Il Patriarcato Armeno di Gerusalemme è uno dei tre custodi dei Luoghi Santi cristiani in Terra Santa, insieme al Patriarcato Latino e a quello Greco-Ortodosso. E' sottoposto all'autorità del Catholicos dell'Armenia e di tutti gli armeni, attualmente Karekin II.

La Chiesa Apostolica Armena è infatti caratterizzata da due Catholicosati: quello di Etchmiadzin (in Armenia), residenza di Karekin II, e quello di Cilicia, con sede in Libano. I Catholicosati sono indipendenti a livello amministrativo ma in completa comunione.

Ci sono poi due Patriarcati, di Gerusalemme e di Costantinopoli, che dipendono dal punto di vista spirituale da Etchmiadzin. Il Patriarca di Costantinopoli è Mesrope II Mutafyan.

15/05/2009 22:25
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Dal blog di Lella...

Il Papa lascia la Terra Santa: Non più muri. Israele freddo

"Non più scontri! Non più terrorismo! Non più guerra!"

Il Papa che, sorridente, si fa poggiare sulle spalle la 'kefiah'. Il Papa che chiede una "sovrana patria Palestinese".
Il Papa che, davanti al muro israeliano in Cisgiordania (che gli israeliani preferiscono chiamare barriera difensiva), sostiene che "i muri si possono abbattere".
Papa Ratzinger lascia Israele spiegando di essere "amico" tanto degli israeliani quanto dei palestinesi, ma l'entusiasmo che lo ha accolto tra la gente della Cisgiordania non ha nulla a che vedere con il rispetto privo di polemiche aperte, ma venato di malumore e freddezza, con cui viene salutato a Tel Aviv.
Fin dalla lettura mattutina dei giornali, negli ambienti ecclesiastici si è capito che, nonostante tutti gli sforzi messi in atto dai collaboratori di Ratzinger, tra il Papa tedesco e lo Stato ebraico non è scoppiata la simpatia.
Benedetto XVI arrivava in Israele sulla scorta di una solida diffidenza, che affonda le radici nella sua biografia e nella sua coscrizione obbligatoria nella Hitlerjugend, e matura, nel corso degli ultimi mesi, con la revoca della scomunica al vescovo lefebvriano Williamson, vocale negazionista della Shoah, con la liberalizzazione della messa in latino e della sua preghiera del venerdì santo per la conversione degli ebrei (in verità modificata da Ratzinger proprio per venire incontro agli ebrei), con il sostegno dato dal Papa alla causa di beatificazione di Pio XII, accusato dagli ebrei di aver taciuto di fronte all'Olocausto.
Eppure Ratzinger - il teologo, il Papa e, prima ancora, il cardinale - ha più volte dimostrato attenzione e affetto per l'ebraismo. Nulla da fare.
Non manca chi, in Israele, lo apprezzi e lo protegga. Il Papa compie anche gesti simbolici rilevanti, come pregare in silenzio al 'muro del pianto'.
Allo Yad Vashem, però, qualcosa non funziona.
Ratzinger non cita la sua infanzia in Germania, non parla di nazismo, non pronuncia nessun 'mea culpa' per l'antisemitismo di stampo cristiano.
Sceglie un taglio più spirituale, quasi poetico, che prescinde dalla sensibilità che gli ebrei hanno per gli aspetti storici e politici della Shoah. E non viene capito.
Qualche rabbino - compreso il presidente del memoriale Lau - parla di "occasione mancata".
Qualcun'altro lo difende. "L'uomo non ha una personalità emozionale, e quello che volevano gli israeliani era un espressione emozionale che si collegasse al dolore degli ebrei", afferma David Rosen, pontiere dei rapporti tra Gran Rabbinato e Santa Sede.
"Le critiche riflettono un'aspettativa irrealistica fondata sul precedente di Giovanni Paolo II".
Proprio alla visita di Wojtyla nel 2000 - quando pronunciò, lui sì, una sorta di 'mea culpa' - fa riferimento il 'Jerusalem post', che definisce il Papa polacco una "rock star" e il Pontefice tedesco "freddo, distante".
All'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, prima di imbarcarsi sul velivolo El Al che lo riporta a casa (non prima di averlo fornito di carta d'imbarco), Benedetto XVI torna, in realtà, sul tema dell'olocausto.
Parla degli ebrei che "furono brutalmente sterminati sotto un regime senza Dio che propagava un'ideologia di antisemitismo e odio" e ribadisce che "quello spaventoso capitolo della storia non deve essere mai dimenticato o negato".
Il discorso non passa inosservato in Israele, molti apprezzano, ma di nuovo c'è chi mugugna perché non ha menzionato, neppure questa volta, le responsabilità storiche della Chiesa.
E' però l'intreccio tra politica e religione, tra ebraismo e Stato di Israele, tra islam e Territori palestinesi, che, per tutto il viaggio e ancora alla sua chiusa, non fa decollare le simpatie tra israeliani e Benedetto XVI.
Secondo il quotidiano 'Haaretz', i suoi discorsi in Terra Santa si sono trasformati in una "concorrenza tra israeliani e palestinesi sul riconoscimento delle loro difficoltà e sulla giustezza delle loro cause. I palestinesi hanno vinto la competizione".
Lasciato alle spalle il discorso di Ratisbona che aveva irritato il mondo arabo-musulmano (e che continua a essere criticato, ormai, solo dagli ambienti più radicali), la società palestinese ha reagisto entusiasticamente alla visita di Ratzinger a Betlemme, con tanto di tappa in un campo profughi, immagini televisive della 'papamobile' sullo sfondo del muro israeliano, parole a favore dei diritti della "Palestina".
I palestinesi - loro sì - sentono che Ratzinger usa il loro linguaggio, intercetta la loro sensibilità, dà voce alle loro sofferenze.
Ancora oggi, all'aeroporto di fronte a Netanyahu (che ha vinto le elezioni contestanto la soluzione di due Stati per due popoli), il Papa afferma, chiaro e tondo, che venga "universalmente riconosciuto che lo Stato di Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti", e che "sia ugualmente riconosciuto che il Popolo Palestinese ha il diritto a una patria indipendente sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente".
Che "la 'two-State solution' divenga realtà e non rimanga un sogno".
E ancora: "Una delle visioni più tristi per me durante la mia visita a queste terre è stato il muro", afferma, per poi esprimere una preghiera affinché "i popoli della Terra Santa possano vivere insieme in pace e armonia senza la necessità di simili strumenti di sicurezza e di separazione".
I media israeliani rilanciano subito la notizia evitando di usare il termine "muro", a Ramallah Abu Mazen incassa un altro punto a suo favore.
"Non più spargimento di sangue!", ha detto il Papa davanti a Netanyahu e al presidente israeliano Shimon Peres, che lo ha accompagnato e sostenuto per tutte le giornate israliene di ratzinger. "Non più scontri! Non più terrorismo! Non più guerra! Rompiamo invece il circolo vizioso della violenza. Possa instaurarsi una pace duratura basata sulla giustizia, vi sia vera riconciliazione e risanamento".
Nei Territori palestinesi e nel resto del mondo arabo - dove i cristiani, peraltro, sono una minoranza ignorata se non perseguitata - queste parole vengono interpretate come un 'endorsment' alla linea dell'Autorità palestinese.
Anche in Giordania, del resto, dove è iniziato il viaggio papale, re Abdullah aveva spronato il Papa a chiedere la fine della "occupazione" dei palestinesi.
E, per uno slancio di accoglienza nei confronti del Pontefice che ama la messa in latino, aveva fatto distribuire ai giornalisti presenti ad Amman anche una traduzione nella lingua di Cicerone. "...denique gentes palestinorum videant finem occupationis dolorumque", vi si leggeva. Indirizzato al Romano Pontefice che suscita entusiasmi, ormai, anche nella terra di Maometto.

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L'amicizia che nasce da una tomba vuota

Amico degli israeliani e amico dei palestinesi. Chi volesse riassumere in una sola espressione il senso politico del viaggio del Papa in Terra Santa può senz'altro riprendere le parole da lui stesso usate nel congedarsi dal Paese intravisto da Mosè morente sul monte Nebo, dai luoghi dei profeti e di Giovanni Battista, dalle strade percorse da Gesù, dalla Giudea alla Galilea e nella città santa di Gerusalemme.
Luoghi santi dove Benedetto XVI, come successore di Pietro e vescovo di Roma, è tornato in pellegrinaggio per ripetere, a nome della Chiesa cattolica, parole di pace trasparenti e univoche. Anche se - forse proprio per la loro chiarezza che disturba quanti non cercano la convivenza - alcuni non le hanno volute capire, tentando polemiche infondate che non meritano attenzione. Tanto più quando si vogliono impartire lezioni che non hanno ragione di essere.
Israeliano e palestinese, dunque, si è dichiarato il Papa tedesco. Con una sintesi forte che richiama alla memoria la celebre frase di John Kennedy, il presidente statunitense definitosi, quasi mezzo secolo fa nella Berlino divisa, un berlinese.
In questo modo Benedetto XVI ha voluto sottolineare la volontà di amicizia verso tutti i popoli della regione, sulla quale da decenni gravano le tenebre della violenza e della divisione, della guerra e della diffidenza.
Il successore del pescatore non ha armi né potere, ma confida nella parola di Cristo, nell'autorità morale delle religioni e nella ragione umana, e con questa fiducia ha incontrato diversi leader politici per sostenere quanti - e ce ne sono - operano davvero per superare la logica dei muri e gettare ponti di comprensione. Con l'obiettivo di giungere a una pace fondata sulla giustizia e sulla sicurezza per tutti, nel rifiuto del terrorismo e della violenza.
Se questo è il chiarissimo significato politico del viaggio papale, non bisogna dimenticare il rinnovato intento di amicizia verso il mondo islamico e la conferma della volontà di una profonda intesa con l'ebraismo. Importanti per questo sono stati gli incontri ad Amman, Betania, Gerusalemme, Nazaret, l'onore reso - sulle orme dei suoi predecessori - ai sei milioni di ebrei sterminati nella Shoah e la ripetuta inequivocabile condanna di ogni antisemitismo.
In Terra Santa Benedetto XVI ha confermato l'irrevocabile scelta ecumenica della Chiesa di Roma e rinnovato il sostegno alla minuscola minoranza cattolica di Terra Santa, chiamata nella sofferenza e nelle difficoltà a essere lievito di riconciliazione. Ma tutto nasce da una tomba vuota.
Quella dove avevano messo Gesù e verso la quale in una mattina di primavera, quasi venti secoli fa, corsero a perdifiato Giovanni - il più giovane, che arrivò subito e si fermò sulla soglia - e Pietro, che entrò per primo. Come di nuovo ha fatto il suo successore.

g. m. v.

(©L'Osservatore Romano - 16 maggio 2009)


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IL CORAGGIO DI BENEDETTO XVI

di Alberto Bobbio

La missione di Benedetto XVI in Terra Santa ha riaperto tutti i dossier del Medio Oriente.
Negli ultimi mesi, dopo la guerra a Gaza, le elezioni in Israele e soprattutto quelle americane, tutti gli attori di questa complicata scena si erano affrettati a chiuderli, per evitare che la partita diventasse globale e quindi più esposta al giudizio interno e internazionale. Joseph Ratzinger, in Giordania e in Israele, ha rimesso tutto sul tavolo invitando il mondo a sedersi attorno. Quella supplica fatta a Tel Aviv e ripetuta a Betlemme potrà cambiare qualcosa?
Il Papa ha detto una cosa che il solito club della paura, che governa le cose in Medio Oriente, non vuole sentirsi dire, e cioè che per la pace occorre il coraggio che non si trova mai. Ratzinger ha proposto un punto di vista che è morale prima che politico, intrecciato attorno a diritti fondamentali: libertà, indipendenza, sicurezza. Praticamente ha posto il tema del diritto alla vita. Qualcuno adesso comincerà con le solite domande.
Il Papa è stato poco religioso e troppo politico? Filo-palestinese, oppure filo-israeliano? Le parole forti di Betlemme saranno naturalmente passate al setaccio, ma c’è già chi fa notare lo squilibrio rispetto al silenzio sulle minacce iraniane a Israele. La missione di Ratzinger non aveva questo scopo. Se uno decide di andare ad riaprire tutti i dossier è quasi naturale che scontenterà qualcuno, provocando precisazioni e reazioni. In Medio Oriente nessuno si mette di fronte la complessità della situazione. Di solito si propongono soluzioni facili a questioni complesse.
L’esempio del Muro è una di queste: ha fatto aumentare la rabbia. E quando il Papa ha detto che i muri si possono abbattere, come è avvenuto a Berlino, è venuto giù il cielo in Israele e il solito club della paura si è rimesso in moto.
Ma anche ad Hamas non è piaciuta la giornata del Papa a Betlemme, perché ha parlato di conflitto e non di guerra e ha evitato il termine occupazione. Allo Yad Vashem non è piaciuto il criterio universale di analisi della memoria dell’Olocausto, quasi che Ratzinger sia venuto per scipparla agli ebrei.
Il problema è che ogni visione, anche quelle strategiche, da queste parti è sempre troppo corta, povera di sforzo corale. Così falliscono. Il fatto che il Papa lo abbia detto ha dato fastidio. Allora è scattato il parallelo con Wojtyla, nel senso che Giovanni Paolo, lui sì, si è comportato bene. Al Muro del Pianto ha posato la sua mano tremante sulle pietre. A Betlemme parlò esplicitamente di diritto al ritorno. Ratzinger ha invece sbagliato tutto. A chi stima il giochetto si può far notare la scelta della Valle di Giosafat, appena sotto il Getsemani, cioè il luogo della riflessione sulle decisioni di estrema difficoltà, per la celebrazione della Messa di Gerusalemme, nella quale il Papa ha affrontato la questione cruciale della Città Santa, il problema dei problemi, su cui nessuno ha diritto di rivendicazione.
E poi la scelta di parlare al campo profughi di Haida, quello dove il Muro nessuno lo può nascondere se non abbattendolo. Non sono altrettanti gesti significativi?
Ha riaperto dossier politici con rilevanza interreligiosa e dossier interreligiosi con rilevanza politica, come quello della fuga dei cristiani dalla Terra Santa. Sul piano diplomatico ha messo fretta a tutti, aiutato dal re di Giordania. Nei prossimi giorni gli israeliani e i palestinesi andranno da Obama. Anche lui ha fretta. Netanyahu cercherà di convincerlo a rallentare, visto che non può fargli cambiare politica. Abu Mazen farà il contrario, E allora si vedrà quanto è contata la missione di Benedetto XVI.

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PAPA: AMICO DEI DUE POPOLI, MA I MEDIA LO ATTACCANO

(AGI) - Tel Aviv, 15 mag.

(dell'inviato Salvatore Izzo)

''Sono venuto a visitare questo Paese da amico degli Israeliani, cosi' come sono amico del Popolo Palestinese'', ripete nel discorso conclusivo del suo pellegrinaggio in Terra Santa sottolineando che ''nessun amico degli Israeliani e dei Palestinesi puo' evitare di rattristarsi per la continua tensione fra i vostri due popoli.
Nessun amico puo' fare a meno di piangere per le sofferenze e le perdite di vite umane che entrambi i popoli hanno subito negli ultimi sei decenni''.
''Mai piu' spargimento di sangue, mai piu' scontri. Mai piu' terrorismo. Mai piu' guerra'', scandisce all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv tornando per l'ennesima volta in questa settimana una pace duratura basata sulla giustizia, vera riconciliazione e guarigione''.
''Il muro - confida - e' stata per me una delle visioni piu' tristi: mentre lo costeggiavo ho pregato per un futuro in cui i popoli della Terra Santa possano vivere insieme in pace e armonia senza la necessita' di simili strumenti di sicurezza e separazione, ma rispettandosi e fidandosi l'uno dell'altro, nella rinuncia ad ogni forma di violenza e di aggressione''.
E ancora una volta, prima di imbarcarsi sul Boeing 777 dell'El Al, ''ricorda i tanti ebrei, madri, padri, mariti, mogli, fratelli, sorelle, amici, furono brutalmente sterminati sotto un regime senza Dio che propagava un'ideologia di antisemitismo e odio''. ''Quello spaventoso capitolo della storia non deve essere mai dimenticato o negato.
Al contrario, quelle buie memorie devono rafforzare la nostra determinazione ad avvicinarci ancor piu' gli uni agli altri come rami dello stesso olivo, nutriti dalle stesse radici e uniti da amore fraterno'', ribadisce di nuovo dopo le critiche che gli sono state rivolte per non aver citato il nazismo nella sua visita allo Yad Vashem, che si sommano agli attacchi continuati in questi giorni sui media israeliani e inglesi per il perdono concesso ai vescovi lefebvriani, deciso ignorando che uno di loro si era dichiarato negazionista.
''Ci nutriamo delle medesime radici spirituali. Ci incontriamo come fratelli, fratelli che in momenti della storia comune hanno avuto un rapporto teso, ma sono adesso fermamente impegnati nella costruzione di ponti di duratura amicizia'', aggiunge riguardo al dialogo interreligioso che era stato interrotto a causa di quell'incomprensione e che ora e' ripreso.
Il portavoce Federico Lombardi sottolinea ai giornalisti che Benedetto XVI ''ha scelto di compere il viaggio nonostante le tensioni e le difficolta' del momento nella direzione del coraggio, che e' un coraggio cristiano, testimonianza di fede e di speranza e mi pare proprio che abbia avuto ragione, perche' il suo messaggio viene capito come un messaggio di amore, di speranza e di pace''. E in Israele - come hanno mostrato le tv intervistandoli - questo messaggio e' stato capito dalle persone comuni, mentre da parte di alcuni intellettuali sono arrivati attacchi subito amplificati dai giornali.
Ed e' apparsa clamorosamente evidente una sfasatura tra la tv - anche quella pubblica - che mostrava il Papa e i suoi gesti e faceva ascoltare le sue parole raccogliendo poi commenti largamente positivi e la carta stampata che e' apparsa monopolizzata dai critici.
Fino all'accusa mossa al Pontefice di non aver detto che la Shoah ha assassinato 6 milioni di morti, mentre proprio il giorno dell'arrivo Joseph Ratzinger proprio queste parole aveva pronunciato.
E' stata singolare anche la distanza tra le parole dette in tv ieri dal premier Netanyahu - che ha dato atto al Papa della sua condanna di ''ogni violenza, dall'antisemitismo al terrorismo'' - e la durezza del commento che gli ha attribuito il Haaretz.
Amichevole e' stato invece in ogni occasione il presidente Shimon Peres che ha espresso apprezzamento e gratitudine anche nel discorso di saluto all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. La sua visita in Terrasanta, ha detto, ha toccato ''i cuori e le menti'' di coloro che lo hanno ascoltato cosi' come ''il ricordo della Shoah e la condanna dell'antisemitismo''.
Lei, ha aggiunto Peres rivolto a Ratzinger, ha dato ''un contributo significativo allo sviluppo di nuove relazioni'' tra Vaticano e Israele e ''una profonda dimostrazione del dialogo duraturo avviato fra il popolo ebraicoe centinaia di milioni di fedeli cristiani nel mondo''.
Per Peres, in partocolare, hanno avuto ''un peso sostanziale'' le affermazioni pronunciate dal pontefice sull'Olocausto, ''la Shoah che non deve essere dimenticata o negata e sulla necessita’ di ''combattere intensamente l'antisemitismo e la discriminazione, in ogni forma e in ogni luogo''.
Il presidente Peres ha poi assicurato al Papa la volonta' di arrivare alla pace ''con i vicini e con i nemici lontani'' e ha citato l'appello di Benedetto XVI ''per una soluzione del conflitto e il suo impegno per lapromozione della pace e della sicurezza fra noi e i nostri vicini e per una vita senza paure e senza lacrime''.

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PAPA: SULLE ORME DI PAOLO VI CHE ABBRACCIO' ATENAGORA

(AGI) - Gerusalemme, 15 mag.

Quarantacinque anni dopo lo storico abbraccio di Paolo VI con Atenagora, Benedetto XVI si e' recato questa mattina - ultimo giorno della sua visita in Terra Santa - al Patriarcato Greco Ortodosso di Gerusalemme.
"Ho a lungo desiderato questo momento", ha confidato al patriarca Teofilo III ricambiando il suo abbraccio "con calore" e ringraziandolo "per avermi offerto questa opportunita' di incontrare ancora una volta i molti leader di Chiese e comunita' ecclesiali presenti a Gerusalemme".
"Stamani - ha detto - il mio pensiero va agli storici incontri che ebbero luogo qui, in Gerusalemme, fra il mio predecessore, il Papa Paolo VI, e il Patriarca Ecumenico Atenagora I, come pure quello fra Papa Giovanni Paolo II e Sua Beatitudine il Patriarca Diodoros".
Tutti e tre questi incontri, ha aggiunto comprendendo in essi la sua visita odierna, "sono di grande significato simbolico". L'abbraccio tra Paolo VI e Atenagora a Gerusalemme nel gennaio 1964 fu l'inizio dell'ecumenismo contemporaneo, dovuto alla volonta' di Papa Montini e alla carismatica iniziativa del Patriarca ortodosso. .
"Avendo voluto incontrarci noi due, - aveva detto Paolo VI al Patriarca - abbiamo trovato insieme il Signore. Seguiamo dunque questa via sacra che si apre davanti a noi.
E Lui stesso verra' a unirsi al nostro cammino, come lo fece una volta con i due discepoli di Emmaus". Tra il Papa e il Patriarca nacque un rapporto di amicizia, di fiducia e di comunione profonda e da allora si sviluppo' il dialogo tra cattolici e ortodossi. E nove anni fa, compiendo il medesimo gesto, Giovanni Paolo II si auguro' che "il ricordo dell'abbraccio tra Paolo VI e Atenagora I favorisca un rinnovato impegno di comunione tra cattolici e ortodossi".
Camminando dunque sui passi dei due Papi che in epoca contemporanea lo hanno preceduto a Gerusalemme, Joseph Ratzinger ha detto di sentirsi "sospinto a porre la pienezza della buona volonta', della sana dottrina e del desiderio spirituale nel nostro impegno ecumenico".
"Elevo la mia preghiera affinche' il nostro odierno incontro - ha aggiunto rivolto a Teofilo - possa imprimere nuovo slancio ai lavori della Commissione Internazionale Congiunta per il Dialogo Teologico tra la Chiesa Cattolica e le Chiese Ortodosse, aggiungendosi ai recenti frutti di documenti di studio e di altre iniziative congiunte".
E ricordando infine la partecipazione del Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, al recente Sinodo dei Vescovi a Roma ha espresso, nel congedarsi dal Patriarcato "profonda gioia spirituale per l'ampiezza con cui la comunione e' gia' presente tra le nostre Chiese".
Benedetto XVI si e' poi spostato a piedi dal Patriarcato Greco ortodosso alla vicina Basilica del Santo. Sepolcro, camminando tra le botteghe del quartiere cristiano della citta' vecchia. "Oggi, a distanza di circa venti secoli - ha detto dopo essere stato incensato davanti alla pietra dell'unzione e aver pregato a lungo in ginocchio all'interno della grotta dove fu deposto' Gesu' morto oggi inclusa in una piccola cappella al centro della navata - il successore di Pietro, il vescovo di Roma, si trova davanti a quella stessa tomba vuota e contempla il mistero della risurrezione.
Sulle orme dell'Apostolo, desidero ancora una volta proclamare, davanti agli uomini e alle donne del nostro tempo, la salda fede della Chiesa che Gesu' Cristo il terzo giorno risuscito' dai morti, innalzato alla destra del Padre, egli ci ha mandato il suo Spirito per il perdono dei peccati".
"Quest'antica chiesa dell'Anastasis - ha poi aggiunto tornando sul tema dell'ecumenismo - reca una sua muta testimonianza sia al peso del nostro passato, con tutte le sue mancanze, incomprensioni e conflitti, sia alla promessa gloriosa che continua ad irradiare dalla tomba vuota di Cristo. Questo luogo santo, dove la potenza di Dio si rivelo' nella debolezza, e le sofferenze umane furono trasfigurate dalla gloria divina, ci invita - ha scandito rivolto ai patriarchi e vescovi delle diverse confessioni e riti presenti a Gerusalemme - guardare ancora una volta con gli occhi della fede al volto del Signore crocifisso e risorto.
Possa - ha chiesto il Papa - la contemplazione di questo mistero spronare i nostri sforzi, sia come individui che come membri della comunita' ecclesiale, a crescere nella vita dello Spirito mediante la conversione, la penitenza e la preghiera. Possa inoltre - ha concluso - aiutarci a superare, con la potenza di quello stesso Spirito, ogni conflitto e tensione nati dalla carne e rimuovere ogni ostacolo, sia dentro che fuori, che si frappone alla nostra comune testimonianza a Cristo ed al potere del suo amore che riconcilia".
Le parole e i gesti di Benedetto XVI nella Basilica del Santo Sepolcro hanno riportato oggi questo tempio straordinario - costruito da Costantino nel IV secolo e poi riedifaco piu' volte dopo distruzioni e incendi - agli onori delle cronache nella sua giusta dimensione di Luogo santo come la Basilica della Nativita' di Betlemme e il Cenacolo, che si trova sul Monte Sion, del quale la Chiesa Cattolica attende da nove anni la restituzione promessa dal Governo israeliano in occasione della visita di Giovanni Paolo II.
Il Santo Sepolcro, infatti, la scorsa Pasqua e' stato per l'ennesima volta teatro di violenze: una rissa vi e' esplosa dopo che un gruppo di fedeli armeni, ha aggredito un religioso greco-ortodosso che sbarrava loro la strada alla grotta dove fu sepolto Gesu', alla quale ogni confessione puo' accedere secondo turni molto rigidi stabiliti in base allo ''statu quo'' che all'inizio del secolo scorso fotografo' la situzione dei Luoghi Santi in attesa di un accordo tra le diverse confessioni che poi non e' mai stato raggiunto.
''Vi sono sempre tensioni tra i religiosi delle diverse confessioni che gestiscono il Sepolcro'', aveva spiegato il portavoce della polizia israeliana motivando cosi' la presenza delle forze dell'ordine che stazionano ogni giorno all'interno della Basilica ''per prevenire lo scoppio di liti o disordini''. In realta' l'alterco tra fedeli armeni e monaco ortodosso e' trasceso forse anche a causa di quella presenza armata che poco si addice a una chiesa. E gli agenti si diedero molto da fare con i loro manganelli.

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Terra Santa: la svolta di Papa Benedetto

ignazio.ingrao

Venerdì 15 Maggio 2009

Comincia da Gerusalemme la svolta di Benedetto XVI. Il viaggio pellegrinaggio in Terra santa segna un punto di non ritorno del pontificato. «Tutti si preparano ad accaparrarsi la parte migliore della torta che questa visita rappresenta» aveva detto il patriarca di Gerusalemme dei Latini, Fuad Twal, cercando di dissuadere il Papa dal progetto. «Due mesi sono troppo pochi per organizzare la visita» aveva rincarato la dose il custode di Terra santa, padre Pierbattista Pizzaballa. «La guerra di Gaza potrebbe suggerire un rinvio» aveva osservato il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le chiese orientali.

Il Papa non ha dato retta ai suoi collaboratori e ha voluto recarsi lo stesso in Giordania, Israele e nei Territori palestinesi per un viaggio dai ritmi degni di Giovanni Paolo II. Perché tanta determinazione? Anzitutto per sostenere i cristiani in Terra santa, che sono stati decimati dall’emigrazione: nel 1947 in Israele erano circa il 7 per cento della popolazione, oggi sono meno del 2 per cento (circa 130 mila persone).

Ma soprattutto il Papa ha voluto inaugurare una nuova stagione di dialogo tra le religioni. Fino a ieri Joseph Ratzinger si è concentrato sul «dialogo tra le fedi», secondo l’impostazione che lui stesso ha fissato nel 2000 con il discusso documento Dominus Iesus: la salvezza è solo nella fede cattolica, nelle altre confessioni ci sono germi di verità che possono essere valorizzati nel dialogo che parte dai più vicini, i cristiani ortodossi, per arrivare ai più lontani, i musulmani, passando per i protestanti e gli ebrei.

Oggi Benedetto XVI mette da parte il dialogo tra le fedi e inaugura il «dialogo tra le religioni» intese come insieme di credenze, tradizioni e culture. E, per la prima volta dall’inizio del pontificato, pone le tre grandi religioni monoteiste (Cristianesimo, Islam ed Ebraismo) sullo stesso piano.

Il Papa vuole promuovere un «dialogo trilaterale» spiega Gian Maria Vian, direttore dell’Osservatore romano, volto ad arrestare «le ingiustizie, i soprusi, le violenze» compiuti in nome di Dio. Ma per avere successo in questa impresa, raccomanda Ratzinger, le tre grandi religioni devono fare affidamento sulla ragione, «illuminata dalla fede nell’unico Dio».

Si tratta di una profonda evoluzione nel pensiero del Papa, conseguenza dei malintesi e delle polemiche seguiti al discorso di Ratisbona del 2006, per quanto riguarda il rapporto con i musulmani, e al caso Williamson (il vescovo lefebvriano negazionista), a proposito del dialogo con gli ebrei.

Ma non tutti apprezzano l’iniziativa del Papa tedesco, che condanna integralismi e fondamentalismi di ogni religione, come ha dimostrato il viaggio in Terra santa. Da qui nascono le resistenze e le proteste che hanno accompagnato la visita di Benedetto XVI: i musulmani hanno criticato il riferimento al vincolo che unisce ebrei e cristiani, espresso dal Papa sul Monte Nebo, in territorio arabo-musulmano. I cristiani hanno lamentato il fatto che, giunto a Gerusalemme, il Pontefice abbia visitato anzitutto lo Yad Vashem, il memoriale ebraico dell’Olocausto. E i rabbini non sono stati soddisfatti dal discorso del Pontefice al memoriale.

«Il Papa chiede alle religioni di voltare pagina e intraprendere un cammino per la pace capace di superare i vecchi schemi» commenta Ernesto Olivero, fondatore del Sermig di Torino, che da sei anni è presente in Giordania con iniziative di volontariato che coinvolgono giovani di diverse religioni.

Consapevole dei rischi di questa nuova offensiva teologico-diplomatica, Benedetto XVI ha richiamato in campo una parte della vecchia squadra di Karol Wojtyla, facendo come quegli allenatori che in vista della partita più difficile convocano i giocatori più esperti. Perciò a Gerusalemme sono rientrati in gioco svariati esponenti della curia di Giovanni Paolo II, a fianco del segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Grazie al lavoro dell’ex ministro degli Esteri vaticano, oggi presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, Jean Louis Tauran, la visita del Papa alla moschea di Amman è stata un successo. Il cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, coadiuvato da padre Norbert Hofmann, segretario della Commissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo, ha reso possibile la visita di Benedetto XVI allo Yad Vashem nonostante l’incidente diplomatico provocato dal caso Williamson. L’ex sostituto alla segreteria di Stato, cardinale Leonardo Sandri, promosso da Ratzinger a prefetto della Congregazione per le chiese orientali, ha convinto le comunità cristiane a sostenere la visita del Papa.

Il sottosegretario vaticano per i rapporti con gli stati, monsignor Pietro Parolin, ha portato il negoziato sull’accordo economico con Israele fino a un passo dalla conclusione. L’ex nunzio della Santa sede in Iraq, Fernando Filoni, oggi sostituto alla segreteria di Stato, ha propiziato l’incontro tra il Papa e i rifugiati iracheni accompagnato da un forte richiamo di Benedetto XVI alla protezione dei cristiani in quel paese.

Le prossime tappe saranno la verifica della possibilità di organizzare un sinodo per le chiese del Medio Oriente chiesto da alcuni vescovi e patriarchi; l’allargamento del Forum cattolico-musulmano, animato dal principe giordano Ghazi Bin Talal e dal cardinale Tauran; l’approfondimento del dialogo teologico e biblico con gli ebrei.

L’obiettivo non è solo «favorire la permanenza dei cristiani in Medio Oriente ma far sì che diventino autentico fattore di equilibrio e anima del processo di pace nell’area» spiega il vescovo maronita Boulos Sayaah.

È la nuova geopolitica di Benedetto XVI che proietta la teologia nell’orizzonte delle relazioni internazionali.


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Parole del Papa ai giornalisti sul volo di ritorno a Roma
“Una decisa volontà al dialogo interreligioso”



ROMA, venerdì, 15 maggio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole rivolte questo venerdì da Benedetto XVI ai giornalisti presenti sul volo papale di ritorno a Roma, a conclusione del pellegrinaggio in Terra Santa.

* * *

Cari amici,
grazie per il vostro lavoro. Immagino come era difficile, circondato da tanti problemi, tanti trasferimenti, ecc., e vorrei ringraziare che avete accettato tutte queste difficoltà per informare il mondo su questo pellegrinaggio, invitare così anche altri al pellegrinaggio in questi luoghi santi.

Ho già fatto un breve riassunto di questo viaggio nel discorso all’aeroporto, non vorrei aggiungere molto. Potrei portare tanti, molti dettagli: la commovente discesa nel punto più profondo della terra, al Giordano, che per noi è anche un simbolo della discesa di Dio, della discesa di Cristo nei punti più profondi dell’esistenza umana.

Il Cenacolo, dove il Signore ci ha donato l’Eucaristia, dove c’è stata la Pentecoste, la discesa dello Spirito Santo; il Santo Sepolcro, tante altre impressioni, ma mi sembra che non sia il momento di farlo.

Forse, tre sono le impressioni fondamentali: la prima è che ho trovato dappertutto, in tutti gli ambienti, musulmani, cristiani, ebrei, una decisa volontà al dialogo interreligioso, all’incontro, alla collaborazione tra le religioni.

Ed è importante che tutti vedano questo, non solo come un’azione - diciamo – per motivi politici nella situazione data, ma come frutto dello stesso nucleo della fede, perché credere in un unico Dio che ha creato tutti noi, Padre di tutti noi, credere in questo Dio che ha creato l’umanità come una famiglia, credere che Dio è amore e vuole che l’amore sia la forza dominante nel mondo, implica questo incontro, questa necessità dell’incontro, del dialogo, della collaborazione come esigenza della fede stessa.

Secondo punto: ho trovato anche un clima ecumenico molto incoraggiante. Abbiamo avuto tanti incontri con il mondo ortodosso con grande cordialità; ho potuto anche parlare con un rappresentante della Chiesa anglicana e due rappresentanti luterani, e si vede che proprio questo clima della Terra Santa incoraggia anche l’ecumenismo.

E terzo punto: ci sono grandissime difficoltà – lo sappiamo, lo abbiamo visto e sentito. Ma ho anche visto che c’è un profondo desiderio di pace da parte di tutti. Le difficoltà sono più visibili e non dobbiamo nascondere le difficoltà: ci sono, devono essere chiarite. Ma non è così visibile il desiderio comune della pace, della fraternità, e mi sembra dobbiamo parlare anche di questo, incoraggiare tutti in questa volontà per trovare le soluzioni certamente non facili per queste difficoltà.

Sono venuto come un pellegrino della pace. Il pellegrinaggio è un elemento essenziale di molte religioni, così proprio anche dell’Islam, della religione ebraica, del cristianesimo. È anche l’immagine della nostra esistenza, che è un camminare avanti, verso Dio e così verso la comunione dell’umanità.

Sono venuto come pellegrino e spero che molti seguano queste tracce e così incoraggino l’unità dei popoli di questa Terra Santa e diventino anche messaggeri di pace. Grazie!





Il Papa: l'Olocausto, brutale "sterminio" di un "regime senza Dio"
Una mano tesa a quanti lo avevano criticato



TEL AVIV, venerdì, 15 maggio 2009 (ZENIT.org).- Benedetto XVI è stato accusato da alcune personalità ebraiche di non aver utilizzato la parola "assassinio" e di non aver fatto riferimenti al nazismo nel suo discorso al Memoriale dell'Olocausto di Yad Vashem. Congedandosi da Israele, il Pontefice è andato oltre a ciò che volevano i suoi accusatori, denunciando che quei morti sono stati "brutalmente sterminati" da "un regime senza Dio".

Nella cerimonia di congedo celebrata all'aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv questo venerdì, il Pontefice ha pronunciato un accorato discorso di ringraziamento, in cui ha riassunto il suo messaggio di pace per queste terre e i molti incontri di questi giorni, soffermandosi solo su uno di questi, la visita al Memoriale e il suo incontro con i sopravvissuti alla Shoah.

"Quegli incontri profondamente commoventi hanno rinnovato ricordi della mia visita di tre anni fa al campo della morte di Auschwitz, dove così tanti Ebrei - madri, padri, mariti, mogli, figli, figlie, fratelli, sorelle, amici - furono brutalmente sterminati sotto un regime senza Dio che propagava un'ideologia di antisemitismo e odio", ha detto il Papa.

"Quello spaventoso capitolo della storia non deve essere mai dimenticato o negato. Al contrario, quelle buie memorie devono rafforzare la nostra determinazione ad avvicinarci ancor più gli uni agli altri come rami dello stesso olivo, nutriti dalle stesse radici e uniti da amore fraterno", ha aggiunto.

Alcuni rappresentanti ebraici avevano anche rimproverato il fatto che il Papa non avesse alluso alla sua origine tedesca nel discorso allo Yad Vashem. Il Papa ha risposto implicitamente citando il discorso che ha pronunciato ad Auschwitz, dove ha fatto quel riferimento (28 maggio 2006).

In quel discorso, il Papa spiegò che visitava Auschwitz "come figlio del popolo tedesco", considerando che per questo la sua visita era "un dovere di fronte alla verità e al diritto di quanti hanno sofferto, un dovere davanti a Dio", condannando anche la barbarie nazista.

Con questo discorso di congedo, pronunciato davanti al Presidente israeliano Shimon Peres e al Primo Ministro Benjamin Netanyahu, il Papa ha risposto alle critiche, evitando ogni polemica. Al contrario, come ha affermato, le sue erano le parole di un "amico degli israeliani".






Riunione tra il Papa e Netanyahu sulla pace in Medio Oriente
Incontro bilaterale Santa Sede-Israele sull'applicazione degli accordi



NAZARETH, venerdì, 15 maggio 2009 (ZENIT.org).- Benedetto XVI e il Primo Ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, hanno affrontato le sfide della pace in Medio Oriente nell'incontro privato che hanno avuto questo giovedì in occasione della visita papale in Terra Santa.

Nel colloquio è stato analizzato il processo di pace alla luce degli incontri che il Papa ha avuto in questo periodo con altri leader.

L'incontro, svoltosi nel convento dei francescani a Nazareth, è durato circa 15 minuti, come ha riferito il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi S.I.

Concluso l'incontro privato, il Papa e il Primo Ministro israeliano hanno partecipato insieme alla riunione delle due delegazioni sulle trattative bilaterali tra Santa Sede e Israele per l'attuazione dell'Accordo Fondamentale e sulle difficoltà per il rilascio dei visti per il personale religioso.

La delegazione vaticana era composta, tra gli altri, dal Cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone, dal Sostituto della Segreteria di Stato, l'Arcivescovo Fernando Filoni, e dal Nunzio in Israele, l'Arcivescovo Antonio Franco.






Benedetto XVI: “possa la speranza levarsi sempre di nuovo”
Durante la visita nella Basilica del Santo Sepolcro

di Mirko Testa


GERUSALEMME, venerdì, 15 maggio 2009 (ZENIT.org).- Il culmine del pellegrinaggio papale sulle orme di Gesù e tra le pietre vive della Terra Santa è stato una invocazione accorata affinché ritorni a sbocciare la speranza in questa terra martoriata da conflitti e tensioni apparentemente insanabili.

Dopo aver preso parte all’incontro ecumenico presso il Patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme, Benedetto XVI ha percorso le vie strette della città vecchia per recarsi alla Basilica del Santo Sepolcro.

Sulla porta è stato accolto dai Padri di Terra Santa insieme ai rappresentanti del Patriarcato greco-ortodosso e della Chiesa armena apostolica, che in base allo “statu quo”, il decreto imperiale emesso dal Sultano turco nel 1852, sono i principali responsabili della vita delle 6 comunità cristiane presenti all'interno della Basilica.

Subito dopo padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, si è inginocchiato per baciare la “Pietra dell'Unzione”, il marmo che ricorda il luogo dove Gesù, deposto dalla croce, venne cosparso di unguenti.

“Il suo pellegrinaggio in Terra Santa – ha detto padre Pizzaballa – si conclude proprio qui, al Sepolcro vuoto di Cristo. Come non ricordare in questo momento la corsa di Pietro apostolo al Sepolcro, insieme al discepolo che Gesù amava, subito dopo la sua risurrezione?”.

“Da allora milioni di pellegrini sono giunti qui per compiere lo stesso gesto. Venire a vedere il Sepolcro vuoto – ha aggiunto –. Piegarsi per entrare nel Sepolcro e toccare queste pietre, testimoni fino ai nostri giorni, di quell’evento straordinario”.

“Il messaggio del Sepolcro vuoto non è una sorta di omaggio di pietà, ma è anzi un annuncio di gioia e di slancio, un guardare sempre al di là dell’orizzonte fino a scorgere i profili dell’alba”, ha proseguito.

“Grazie, Beatissimo Padre, per la sua alta testimonianza di Pace, consegnataci in questi intensi giorni di pellegrinaggio – ha detto il Custode di Terra Santa – . Ci sproni, ora, a seguire Gesù ovunque, senza paura, con la gioia dei figli, amati e salvati”.

C'è quindi stato l'Ingresso solenne del Papa, secondo il cerimoniale riservato molto tempo fa a tutti i gruppi di pellegrini che si recavano al Santo Sepolcro e che venivano accolti ufficialmente dal Custode di Terra Santa, incaricato da Papa Clemente VI con una bolla del 1342 di risiedere a Gerusalemme e di accogliere i fedeli.

Attraversata poi la porticina alta appena un metro e trentatré centimetri che permette di accedere al Sepolcro, il Santo Padre si è quindi inginocchiato per baciare la lastra di marmo che ricopre la roccia originale sulla quale venne deposto il corpo senza vita di Gesù.

Successivamente, nel rivolgere un breve saluto al Santo Padre il Patriarca latino di Gerusalemme, Sua Beatitudine Fouad Twal, ha detto “ora, siamo venuti in processione dalla pietra dell'Unzione alla Tomba vuota cantando il Te Deum, il grande inno di lode e di azione di grazie a Dio”.

“Questo Te Deum, lo cantiamo per esprimere la nostra gioia che Lei abbia potuto effettuare questo pellegrinaggio malgrado la situazione così complicata, il carico assai pesante che Lei porta e la conseguente fatica”, ha detto.

“Come Lei lo può costatare, Beatissimo Padre, la distanza tra la tomba della Resurrezione e il Golgota è assai breve”, ha osservato.

“Ugualmente noi speriamo – ha continuato – che, grazie alla preghiera della Chiesa, con l'impegno della comunità internazionale e per l'azione di tutti gli uomini di buona volontà, non resterà lontano dalle nostre croci quotidiane l'evento della pace e della giustizia”.

“Né il conflitto, né l'occupazione, né i muri di separazione, né la cultura di morte, né l'emigrazione dei cristiani non giungeranno ad abbattere il nostro morale, a spegnere la nostra speranza e ad immergerci nella gioia!”, ha esclamato infine.

Nel suo discorso il Papa ha ricordato che “qui Cristo morì e risuscitò, per non morire mai più. Qui la storia dell’umanità fu definitivamente cambiata”.

“La tomba vuota ci parla di speranza, quella stessa che non ci delude, poiché è dono dello Spirito della vita”, ha detto.

“Questo è il messaggio che oggi desidero lasciarvi, a conclusione del mio pellegrinaggio nella Terra Santa. Possa la speranza levarsi sempre di nuovo, per la grazia di Dio, nel cuore di ogni persona che vive in queste terre!”, ha esclamato.

“Possa radicarsi nei vostri cuori, rimanere nelle vostre famiglie e comunità ed ispirare in ciascuno di voi una testimonianza sempre più fedele al Principe della Pace”, ha poi continuato.

“La Chiesa in Terra Santa – ha sottolineato quindi il Santo Padre –, che ben spesso ha sperimentato l’oscuro mistero del Golgota, non deve mai cessare di essere un intrepido araldo del luminoso messaggio di speranza che questa tomba vuota proclama”.

“Gesù chiede a ciascuno di noi di essere testimone di unità e di pace per tutti coloro che vivono in questa Città della Pace”, ha concluso.

Infine il Papa si è recato nella Cappella delle Apparizioni per sostare in adorazione davanti al santissimo sacramento, prima di salire al Golgota per raccogliersi di nuovo in silenziosa preghiera sul luogo del Calvario.




La visita del Papa segna una rinascita nei rapporti interreligiosi
Spiega padre Caesar Atuire

di Mercedes de la Torre

GERUSALEMME, venerdì, 15 maggio 2009 (ZENIT.org).- La visita di Benedetto XVI in Terra Santa, terminata questo venerdì, ha portato una "rinascita" nelle relazioni tra ebrei, musulmani e cristiani, sostiene padre Caesar Atuire, responsabile dell'Opera Romana Pellegrinaggi, istituzione dipendente dalla Santa Sede.

Compiendo un bilancio del pellegrinaggio che ha portato il Papa in Giordania, Israele e Territori palestinesi, il sacerdote ne ha sottolineato l'ultima tappa simbolica, la visita al Santo Sepolcro, che ha avuto luogo poche ore prima che si imbarcasse per tornare a Roma.

"Il Santo Sepolcro è il luogo della resurrezione di Gesù Cristo - ha osservato -. Questo luogo segna una rinascita nella storia dell'umanità. E credo che la visita di Benedetto XVI qui in Terra Santa sia stata un momento per la rinascita delle relazioni tra cristiani, musulmani ed ebrei".

Padre Atuire ha citato come esempio le parole pronunciate dal Presidente di Israele Shimon Peres davanti al Papa, quando ha detto che mai in duemila anni di storia i rapporti tra ebrei e cristiani sono stati migliori.

"Il Papa ha scacciato le paure e le preoccupazioni esistenti prima della visita e si è sgombrato il campo per stabilire una nuova tappa nei rapporti tra cristiani ed ebrei", ha constatato.

"E lo stesso è accaduto con i musulmani. Basta ascoltare il discorso di questo giovedì a Nazareth del rappresentante musulmano per vedere che ha inizio una nuova tappa".

Padre Atuire ha ricordato che "nei quattro anni di pontificato di Benedetto XVI ci sono state tensioni con ebrei e musulmani e i mezzi di comunicazione hanno dato a intendere che con questo Papa le relazioni interreligiose hanno subito un peggioramento".

"Questo viaggio dimostra però che tali accuse non hanno fondamento. In questo senso, man mano che il viaggio evolveva è aumentato l'entusiasmo, fino al momento in cui il Papa ha preso per mano ebrei, musulmani e drusi e tutti insieme hanno cantato chiedendo a Dio la pace. E' stato il culmine di questo viaggio".

Per padre Atuire, la visita avrà anche un importante impatto tra i cristiani di Terra Santa, "che si sentono lontani dal resto del mondo. La visita del Papa ha fatto sentire loro la vicinanza della Chiesa universale e li ha confermati nella loro vocazione: essere lievito di pace per la terra".

"Anche se pochi, possono fare la differenza perché la pace giunga in questa regione - ha riconosciuto -. Hanno una vocazione al servizio della Chiesa e del mondo".

Dopo la visita papale, il sacerdote pensa che si possa "sperare che il processo di pace, che cammina con grandi difficoltà, inizi a prendere velocità. Ci sono molti elementi convergenti che stanno cercando la pace in questa terra e la visita del Papa ha dato molto coraggio a quanti cercano la pace".

"Il Papa ha confermato a Mahmoud Abbas, Presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese, la necessità di creare due Stati, che vivano in sicurezza e collaborazione, garantendo il diritto al libero movimento, in cui i cittadini possano vivere in dignità con le proprie famiglie. In questo senso, è una pace non solo politica, perché nasce dal cuore".

Dopo questo viaggio, l'amministratore delegato dell'Opera Romana Pellegrinaggi (http://www.orpnet.org), che ha tra i suoi obiettivi quello di evangelizzare visitando i Luoghi Santi, considera che la visita del Papa "ci conferma nella nostra missione e ci esorta a portare più pellegrini in Terra Santa".

"I pellegrinaggi - ha concluso - sono anche un modo straordinario per promuovere la pace, perché suscitano contatti e amicizie, e il modo migliore per porre fine ai pregiudizi è conoscersi".

[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]






Il Papa trae dalla visita in Terra Santa "tre impressioni fondamentali"
Nel viaggio di ritorno commenta con i giornalisti il suo pellegrinaggio



ROMA, venerdì, 15 maggio 2009 (ZENIT.org).- Per Benedetto XVI non è facile descrivere la visita che ha appena concluso in Terra Santa. Lo ha confessato ai giornalisti presenti sull'aereo della compagnia israeliana El Al che lo ha riportato a Roma questo venerdì pomeriggio dopo una settimana in Giordania, Israele e Territori palestinesi.

Dopo averli ringraziato per aver affrontato non poche difficoltà "per informare il mondo su questo pellegrinaggio", il Papa ha ammesso che oltre al breve riassunto del viaggio che ha fatto nel discorso di congedo all'aeroporto di Tel Aviv potrebbe portare ancora "tanti, molti dettagli".

A questo proposito, ha citato "la commovente discesa nel punto più profondo della terra, al Giordano, che per noi è anche un simbolo della discesa di Dio, della discesa di Cristo nei punti più profondi dell'esistenza umana."; "il Cenacolo, dove il Signore ci ha donato l'Eucaristia, dove c'è stata la Pentecoste, la discesa dello Spirito Santo; il Santo Sepolcro".

Ad ogni modo, ha riconosciuto che le "impressioni fondamentali" suscitate dalla sua visita sono sostanzialmente tre, a cominciare dal fatto di aver trovato "dappertutto, in tutti gli ambienti, musulmani, cristiani, ebrei, una decisa volontà al dialogo interreligioso, all'incontro, alla collaborazione tra le religioni".


"E' importante che tutti vedano questo, non solo come un'azione - diciamo - per motivi politici nella situazione data, ma come frutto dello stesso nucleo della fede, perché credere in un unico Dio che ha creato tutti noi, Padre di tutti noi, credere in questo Dio che ha creato l'umanità come una famiglia, credere che Dio è amore e vuole che l'amore sia la forza dominante nel mondo, implica questo incontro, questa necessità dell'incontro, del dialogo, della collaborazione come esigenza della fede stessa", ha confessato.


In secondo luogo, il Pontefice ha confessato di aver trovato "un clima ecumenico molto incoraggiante".

"Abbiamo avuto tanti incontri con il mondo ortodosso con grande cordialità; ho potuto anche parlare con un rappresentante della Chiesa anglicana e due rappresentanti luterani, e si vede che proprio questo clima della Terra Santa incoraggia anche l'ecumenismo", ha spiegato.


Il terzo elemento che ha colpito Benedetto XVI è la constatazione che "ci sono grandissime difficoltà - lo sappiamo, lo abbiamo visto e sentito", ma c'è anche "un profondo desiderio di pace da parte di tutti".

Le difficoltà "sono più visibili" e "devono essere chiarite", ha aggiunto, "ma non è così visibile il desiderio comune della pace, della fraternità, e mi sembra dobbiamo parlare anche di questo, incoraggiare tutti in questa volontà per trovare le soluzioni certamente non facili per queste difficoltà".


Il Papa ha quindi ribadito di essersi recato in Terra Santa "come un pellegrino della pace", ricordando che il pellegrinaggio è un elemento essenziale di molte religioni, tra cui l'ebraismo e l'islam.

"È anche l'immagine della nostra esistenza, che è un camminare avanti, verso Dio e così verso la comunione dell'umanità", ha rimarcato.

"Sono venuto come pellegrino e spero che molti seguano queste tracce e così incoraggino l'unità dei popoli di questa Terra Santa e diventino anche messaggeri di pace", ha concluso.

16/05/2009 15:52
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Il cardinale Tarcisio Bertone: i gesti del Papa, un invito alla speranza. Interviste con il cardinale Ennio Antonelli e padre Samir Khalil Samir


Uno dei principali accompagnatori del Pontefice, nei giorni del suo pellegrinaggio in Terra Santa, è stato il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Ecco il suo commento al microfono del nostro inviato, Roberto Piermarini:

R. - La parola del Papa, i gesti del Papa, sono stati per tutti un esempio di incoraggiamento, di speranza e di dialogo. Con obiettivi concreti, il Papa ha focalizzato piste concrete, direzioni fondate sul comandamento dell’amore, che è la parola comune di cristiani, di ebrei e di musulmani. Tutti speriamo che il Papa - e tutti i suoi collaboratori, nei loro distinti ruoli e nella loro missione, che è una missione di pace alla sequela del Papa - portino frutti abbondanti e stabili in questa regione.


D. - Dovrà portare frutti anche per quanto riguarda la Commissione per gli Accordi fondamentali, visto che sono molti anni che non riesce a decollare…


R. - Il colloquio con il capo del governo Netanyahu è stato molto positivo e ha toccato punti concreti con impegni concreti. Quindi, speriamo di decollare e anche in questo di raggiungere gli obiettivi che tutti ci aspettiamo.


D. - Eminenza, si torna dalla Terra Santa sempre con una forte emozione. Qual è l’aspetto che ricorda con maggiore intensità, lei personalmente, di questo pellegrinaggio?


R. - Pensiamo soprattutto a Betlemme - non dico solo Betlemme nei Territori palestinesi, ma Betlemme luogo della nascita del Figlio di Dio fatto uomo. Pensando a tutti i bambini del mondo, ricordo la visita all’ospedale pediatrico: in quel momento ho pensato un po’ al futuro che attende tutti i bambini e i giovani del mondo e credo che tutti abbiamo pregato per loro. Tutti vogliamo costruire un mondo senza muri, senza violenza, dominato dal comandamento dell’amore, e preparare un futuro di pace e di serenità per tutti i bambini e i ragazzi del mondo.


I giornali di tutto il mondo hanno ripreso e commentato i molti discorsi pronunciati da Benedetto XVI nei giorni del suo pellegrinaggio. Padre Samir Khalil Samir, gesuita di origini egiziane e docente di Islamistica alla Saint Joseph University di Beirut, ritiene che con la sua presenza e le sue parole improntate alla pace il Papa abbia potuto incidere in profondità nella realtà del Medio Oriente. Le sue impressioni al microfono di Luca Collodi:

D. - A me sembra che sia così, perché il Santo Padre è riuscito a dire la parola di verità e di buon senso, a promuovere un progetto basato sulla giustizia, sui bisogni di ogni essere umano. Un progetto in sintonia con il desiderio di israeliani palestinesi, espresso in termini di pace, di dialogo, di giustizia, di sicurezza. Nessuno ha potuto tirare a sé l’opinione del Papa, perché lui cerca di proporre un progetto di pace basato sulla giustizia e sul diritto.


D. - Padre Samir, un altro aspetto molto importante per il futuro di pace della Terra Santa ruguarda il ruolo delle religioni. Il Papa ha detto chiaramente “no” all’uso violento della religione. Non è la prima volta che lo dice, ma lo ha ripetuto in maniera forte in Terra Santa. Anche questo è un altro elemento fondamentale…


R. - E’ il fondamento di tutto il suo Pontificato. L’ha ripetuto in Giordania, sotto tutte le forme, soprattutto a Madaba ed alla Grande Moschea, e l’ha ripetuto in Israele, in Palestina, ovunque. Il Papa, già dal Monte Nebo, ha detto: da una parte i tre monoteismi hanno in comune tante cose, dall'altra però c'è il rischio che la religione sia corrotta da altri desideri: dalla politica, dalle ideologie nuove e vecchie, usandola per la politica, usandola per la violenza. In fin dei conti, si rifà al discorso che afferma che senza la ragione non ci sarà mai pace e che la religione ha questo scopo: unita alla ragione, può offrire una strada a tutti i popoli, una strada di pace nella giustizia. (Montaggio a cura di Maria Brigini)


Giovedì scorso, durante la Messa celebrata presso il Monte del Precipizio a Nazareth, il Papa ha benedetto, al termine della celebrazione, la prima pietra per il Centro internazionale della famiglia, che sorgerà nella città dell’Annunciazione. Il nostro inviato, Roberto Piermarini, ha chiesto al cardinale Ennio Antonelli, presidente del , quali siano le finalità del nuovo Centro:

R. - Si tratta di una casa di accoglienza, che sarà destinata sia alle famiglie della Terra Santa, per momenti di spiritualità, sia alle famiglie che vengono in pellegrinaggio da ogni parte del mondo, ugualmente per momenti forti di spiritualità, e sia anche per gli operatori della Pastorale familiare per corsi brevi, esperienze, itinerari di formazione intensiva. Lo spazio non è molto, quindi per l’alloggio è prevista una cooperazione con altre strutture vicine. La casa è stata voluta da Giovanni Paolo II, e il cardinale Lopez, mio predecessore, si è dato da fare per raccogliere i primi fondi per fare un progetto di massima. Adesso si tratta di continuare questo lavoro, sia raccogliendo ulteriori fondi e sia anche rivedendo il progetto per adattarlo bene alla situazione attuale. Si tratta anche di affidare il tutto, la costruzione e la gestione, a qualche soggetto ecclesiale, che dia assoluto affidamento, in modo che la Santa Sede possa fare una convenzione con questa realtà ecclesiale.


D. - Perché è stata scelta qui in Terra Santa, proprio Nazareth?


R. – E’ intuitivo, perché Nazareth vuol dire Santa Famiglia e vuol dire anche protezione per tutte le famiglie e modello per tutte le famiglie cristiane del mondo, vuol dire luogo di inesauribile ispirazione.


D. - In questo viaggio in Terra Santa, ha sentito le necessità, le difficoltà che vivono le famiglie?


R. - Certamente, le difficoltà sono grandi. La cosa che mi ha colpito di più è stata la ricchezza di iniziative dei francescani, del Patriarcato latino, degli altri Patriarcati, per aiutare le famiglie. Per esempio, costruzioni di nuovi alloggi dati, o gratuitamente o a modico affitto, alle famiglie, perché possano avere una casa, perché possano rimanere più facilmente in questo Paese, da dove tanti cristiani sono già partiti per emigrare in altre parti del mondo. (Montaggio a cura di Maria Brigini)







Padre Lombardi: viaggio del messaggio e dell'ascolto


Sul messaggio lasciato dal Papa alla Terra Santa ecco la riflessione del direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, al microfono di Roberto Piermarini:

R. – Il messaggio che il Papa ha dato è stato un messaggio molto corrispondente a quello che egli aveva annunciato, un messaggio di pace, con molte sfaccettature diverse: pace fra gli Stati, pace fra le diverse religioni, pace fra i diversi riti della Chiesa cattolica e le diverse confessioni cristiane. Però, non è stato solo il viaggio del messaggio del Papa, che parla agli altri, ma è stato molto un viaggio del Papa che ascolta. Benedetto XVI è una persona che ascolta molto, con molta attenzione. Le persone che incontra sono persone che egli ascolta, da cui egli riceve molto. Ebbene, in questo viaggio lui ha ascoltato tantissimo. Ha ascoltato gli uomini politici di tre Stati differenti: la Giordania, Israele e i Territori palestinesi, con le loro tensioni; uomini religiosi, di tre religioni differenti, gli ebrei, i rabbini, i muftì, i capi musulmani in Giordania, in Israele e nei territori, i cristiani dei diversi riti, con i loro problemi differenti, delle diverse confessioni. Un ascolto continuo, ricchissimo, fatto con grande pazienza e con grande attenzione. E questo gli ha dato, credo, una grande esperienza, molto profonda, di cosa è la realtà umana e spirituale della Terra Santa e quindi qual è poi la profondità a cui si deve porre il cammino di pace, come ricerca di dimensioni, di ascolto, di intesa e di dialogo spirituale, culturale, sociale, politico e così via. Quindi, viaggio del messaggio e viaggio dell’ascolto. Queste sono le due dimensioni fondamentali, che mi sembra risultino, per quanto riguarda il Papa e il modo in cui ha camminato.

D. – Un pellegrinaggio sulle orme di Gesù qui in Terra Santa, ma anche un pellegrinaggio ai santuari delle altre due religioni monoteiste…

R. – Esattamente. Il Papa è venuto qui, come vengono tutti i cristiani, tutti i credenti, per ritrovare i luoghi fondamentali della nostra fede. Questo, però, è rimasto molto discreto, quasi sottotraccia, quasi meno evidente, perchè non era l’aspetto che richiamava di più l’attenzione del grande pubblico, della stampa internazionale. Il Papa è stato anche pellegrino ai luoghi santi delle altre grandi religioni con cui parlava: è stato a Yad Vashem, è stato al muro occidentale, è stato nella moschea in Giordania, è stato nella Cupola della Roccia. Quindi, è andato proprio in quei luoghi per i quali egli chiede per tutti la libertà di accesso. Il Papa, e la Chiesa, chiede anche lo statuto speciale per Gerusalemme e la possibilità di libero accesso ai luoghi santi delle tre religioni. Il Papa è stato pellegrino ai luoghi santi delle tre religioni. Direi che ha dato un grande esempio di che cosa vuol dire anche atteggiamento di dialogo interreligioso.

D. – Soprattutto, nella stampa araba ha colpito molto il coraggio di questo Papa nel suo incontro con il popolo palestinese...

R. – Certamente, credo anch’io che sia stato un viaggio di coraggio e di speranza allo stesso tempo. Il Papa era consapevole di venire in una situazione ricca di tensioni. Non è un momento facile per il Medio Oriente, per la Terra Santa e per Gerusalemme. Il Papa lo sapeva molto bene e ci si era anche domandati se era opportuno che egli venisse. Però, come già il suo predecessore, tutte le volte in cui ci sono stati dei dubbi e le persone prudenti, e anche ben intenzionate, dicevano: “Ma no, abbiamo prudenza, rimandiamo...” ha scelto nella direzione del coraggio, che è un coraggio cristiano, che è una testimonianza di fede e di speranza e mi pare proprio che abbia avuto ragione, perché poi il suo messaggio passa, il suo messaggio viene capito come un messaggio di amore, di speranza e di pace. Il Papa nei territori palestinesi ha ribadito delle linee che non sono particolarmente nuove, sono quelle della linea della Santa Sede sui temi delle vie con cui trovare la pace nella giustizia in queste terre. Dire, però, queste cose, davanti al muro, dirle nel campo dei rifugiati, dirle incontrando anche gli uomini politici d’Israele non è facile, ma i discorsi del Papa sono stati sempre estremamente equilibrati e quindi accettabili e rispettati dall’una e dall’altra parte. Egli ha sempre detto che si deve cercare veramente la pace e la riconciliazione per tutti, per l’una e per l’altra parte.

D. – Quale messaggio lascia Benedetto XVI alla Chiesa locale della Terra Santa?

R. – L’incontro con la Chiesa locale è diventato sempre più evidente, soprattutto negli ultimi giorni: il giorno di Betlemme e il giorno di Nazareth, con le grandi celebrazioni, e quella di Gerusalemme, la sera prima, che ne è stata un’introduzione. Direi invece che la Messa di Betlemme e la Messa di Nazareth sono state delle grandi feste, grandi. Non c’erano mai state. Sono state anche più grandi di quelle avvenute con Giovanni Paolo II. Questa è una cosa da osservare: Giovanni Paolo II era il primo Papa che apriva certe vie, il primo che andava al Muro del Pianto, il primo che andava nella moschea e così via. Quindi, Benedetto XVI non aveva l’effetto novità che poteva avere Giovanni Paolo II, però ha confermato una continuità, l’andare avanti sulla stessa linea. E per quanto riguarda la Chiesa va avanti anche con questi grandi momenti di festa e di celebrazione comune, numerosa, per delle comunità che sono in minoranza e che si sentono piccole, povere e disperse. Quindi, credo un momento di grande fiducia, vissuto dalle comunità cristiane locali, che è proprio quello che il Papa desiderava dare loro: una fiducia garantita dalla fede, evidentemente, ma anche con quella esperienza umana e cristiana dell’essere insieme nella celebrazione, che segna con questa esperienza vissuta e visibile una tappa di speranza che cresce.



[Radio Vaticana]

16/05/2009 21:14
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Benedetto XVI Papa, teologo e dopo la Terra Santa anche capo di Stato

mag 16, 2009 il Riformista

Ha in qualche modo ragione il quotidiano Haaretz quando scrive - la stessa tesi la fa propria Le Monde - che «la missione di Benedetto XVI in Israele è stata molto politica».
Ha meno ragione quando condisce la cosa in termini negativi dicendo che per questo motivo chi «ha vinto» sono stati i palestinesi. Ma il carattere principalmente politico del dire e del fare del Papa in Giordania e Israele resta.
Come resta un altro dato: le cose non potevano che andare così, almeno se si paragona questo viaggio a un altro, quello in Terra Santa di Giovanni Paolo II nel 2000, un viaggio che fu pieno di contenuti politici ma percepiti dai più principalmente in termini profetici.
Wojtyla arrivò in Terra Santa con una biografia d’un certo tipo. Alla vecchia domanda yiddish: «Sarà buono con noi?», egli seppe rispondere positivamente fin dall’inizio del suo pontificato.
Era anche avvantaggiato rispetto a Ratzinger: polacco, aveva sperimentato sulla propria pelle le medesime sofferenze patite dagli ebrei durante il nazismo. Era naturale, dunque, che gli ebrei lo sentissero vicino a loro. Fu lui a definirli i «fratelli maggiori» della Chiesa cattolica. Con loro Wojtyla aveva messo in campo relazioni e aperture storiche. Egli, poi, arrivava in Terra Santa già molto malato. E la cosa lo agevolò molto a tingere di profezia i contenuti del viaggio stesso. Quanto all’islam, il 2000 non era il 2009.
Un certo fanatismo di stampo islamico non era ancora del tutto recepito nel mondo occidentale e, dunque, quanto ai rapporti coi musulmani, il suo arrivo era meno sentito.
Benedetto XVI è atterrato in Terra Santa avvertito come un nemico. Non che egli sia nemico del popolo ebraico, né dei musulmani, ma l’immagine che di sé entrambi i popoli hanno di lui non è totalmente positiva.
Perché una parte del mondo ebraico lo considera un nemico è presto detto: è a motivo del suo essere tedesco. Nemico per quel sospetto, ancora non sopito del tutto, che la sua nazionalità sia sinonimo d’un antisemitismo cronico, insito consapevolmente o meno anche nel suo dna. Paradossalmente, se Wojtyla in quanto polacco aveva gioco facile con gli ebrei e difficile con gli ortodossi di Mosca, col tedesco Ratzinger al soglio di Pietro le cose si sono ribaltate: Benedetto XVI, nonostante la sua posizione in merito, fatica con gli ebrei mentre veleggia col patriarcato moscovita.
Quanto all’islam, Ratisbona resta per una parte più estremista della galassia musulmana una macchia che qualsiasi gesto successivo ha faticato a cancellare.
Fatte queste premesse, Benedetto XVI in Giordania e Israele ha fatto il massimo. Se nel 2000 il Corriere della Sera titolava l’articolo di presentazione del viaggio di Wojtyla per la Terra Santa così: Il viaggio più difficile. Una settimana fa avrebbe dovuto usare un titolo più forte, sì da rendere esplicite le asperità di gran lunga maggiori che sulla carta aveva davanti il Pontefice tedesco.
Ratzinger si è mosso bene: sui temi sensibili per l’islam e l’ebraismo ha ribadito il suo pensiero forte senza dire di più di quanto fosse lecito, mentre ha puntato molto sull’analisi politica della situazione mediorientale concedendo punti di vista noti ma conditi di qualche novità (del muro nei termini espliciti usati in questi giorni non aveva mai parlato).
Due giorni fa l’Economist ha fatto un’analisi impietosa del viaggio dicendo che Benedetto XVI in Terra Santa «ha aggiunto alla lista un altro disastro nelle pubbliche relazioni». In sostanza il settimanale inglese ha collazionato le critiche principali che sono state mosse a Ratzinger in questi giorni: allo Yad Vashem ha parlato di milioni di ebrei vittime dell’Olocausto e non di sei milioni.
Ha parlato della tragedia della Shoah senza attribuirne la colpa (cioè non ha citato i nazisti) e, dunque, non facendo mea culpa. E poi ha creato malcontento anche in una parte del mondo islamico che voleva accuse più vivaci alla politica israeliana nella regione.
L’analisi è, appunto, impietosa. Ed è tra l’altro uscita prima del congedo di ieri nel quale il Papa ha detto che la Shoah fu lo sterminio perpetrato «sotto un regime senza Dio che propagava un’ideologia di antisemitismo e odio».
Ma pur nella sua impetuosità dice di una difficoltà reale che Benedetto XVI aveva davanti e che Wojtyla, invece, non ebbe: un pregiudizio sulla sua persona forse inestirpabile.
Ratzinger era consapevole di questo pregiudizio: già lo sperimentò a Ratisbona, durante il recente conflitto di Gaza, in Africa, e in modo potente in occasione della revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani dei quali uno, il noto Richard Williamson, negazionista sulla Shoah. Ma non si è dato per perso. Ha voluto portare fino in fondo ogni cosa, superando anche le titubanze d’una parte del Vaticano spaventata dalle paure espresse dai cristiani residenti in Israele e nei territori per una visita che avrebbe potuto essere uno spot pro Israele ai danni dei palestinesi.
Benedetto XVI non è caduto in nessuna trappola. Ha mostrato quanto sia necessario un serio dialogo interreligioso.
È lui che lo vuole prima degli altri. È lui che lo vuole con l’ebraismo fondato sull’inscindibile legame che accomuna le due religioni e con l’islam sganciato d’ogni riferimento teologico: un dialogo, dunque, basato sulla ragione, su una sapienza etica che viene prima della teologia.
Affondato il colpo sul dialogo con islam ed ebraismo, condannato l’antisemitismo e ogni tesi negazionista, ha spostato l’attenzione sull’analisi politica, facendo in qualche modo il percorso inverso di quello fatto da Wojtyla nel 2000. Giovanni Paolo II, ribadita la sua idea politica quanto a Israele e a una «patria palestinese», virò con forza sul profetismo, su ciò che, in quanto polacco, si poteva permettere maggiormente: i musulmani, disse, sono nostri «fratelli» mentre gli ebrei sono «fratelli maggiori», talmente maggiori che nei loro confronti la Chiesa cattolica fa un gesto di mea culpa.
Ratzinger, invece, si è indirizzato subito sulla praticità. Come dire, parliamo prima di cose concrete: sulla tesi dei due Stati, sul muro «segno tragico», sui cristiani che debbono restare dove sono perché parte integrante di quella martoriata terra, sulla pace alla quale debbono contribuire tutti. E ieri, partendo per Roma, non a caso davanti al premier israeliano Benjamin Netanyahu e al presidente Shimon Peres, ha ridetto con parole ancora più forti la sua agenda politica: «Sono amico di entrambi i popoli non posso fare a meno di piangere per le loro sofferenze»; il «muro è stata una delle visioni più tristi»; date «uno Stato a Israele» e un patria «indipendente e sovrana» ai palestinesi (concetto ripreso nel titolo di oggi dell’Osservatore Romano, un titolo che enfatizza l’aspetto politico: Due Stati in Terra Santa, una realtà possibile. Insomma, le stesse condizioni politiche a entrambi: non hanno, dunque, vinto solo i palestinesi come scrivevano Haaretz e Le Monde.

© Copyright Il Riformista, 16 maggio 2009


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Il Patriarca di Gerusalemme dei Latini e il custode di Terra Santa sul viaggio di Benedetto XVI

Il Papa ha seminato speranza
Ora tocca a tutti lavorare per la pace


dal nostro inviato Gianluca Biccini

"Benedetto XVI ha gettato semi di speranza in questi luoghi ove tutto rimanda al Vangelo. Adesso tocca a noi, pastori di un piccolo gregge, far sì che essi portino gli attesi frutti della pace, della riconciliazione e dell'unità". Usano parole simili il Patriarca di Gerusalemme dei Latini e il custode francescano di Terra Santa nel tracciare un bilancio del pellegrinaggio del Papa appena conclusosi. Entrambi lo hanno seguito passo dopo passo in queste otto intensissime giornate.
Entrambi hanno maturato la certezza che il viaggio del Pontefice ha pienamente raggiunto i suoi obiettivi e che ora tocca ai cattolici di questi luoghi benedetti dalla presenza del Signore - dalle più alte gerarchie fino all'ultimo umile fedele - il faticoso compito di mantenere la rotta nella direzione indicata dal Successore di Pietro. "Ci ha dato soprattutto convinzione e coraggio" spiega il Patriarca Fouad Twal a nome dell'assemblea degli Ordinari Cattolici di Terra Santa.
"Non ci aspettiamo miracoli, ma dobbiamo pregare, e dare al Signore il tempo per raccogliere quanto è stato seminato". Non a caso uno dei messaggi più ricorrenti di Benedetto XVI è stato quello rivolto ai cristiani affinché non abbandonino le terre dei loro antenati. "Ci ha chiesto di rimanere, di resistere nonostante la complessità della situazione - prosegue - perché questi sono anche i luoghi della croce. Si tratta di una sfida che va accettata anche in condizioni drammatiche. Il Papa stesso ha potuto vedere con i propri occhi, toccare con le proprie mani le difficoltà che noi viviamo ogni giorno. E questo ce lo fa sentire più vicino, ci permette di sentire più vicina la Chiesa universale. La voce di Benedetto XVI arriva in tutto il mondo e ora attendiamo più preghiere per la Terra Santa, più solidarietà in tutti i sensi".
Un particolare ruolo in questo faticoso percorso verso la pace tra tutti i popoli della regione può svolgerlo la famiglia. Benedetto XVI ha concluso - celebrando nella capitale giordana e a Nazaret due messe dedicate alla famiglia - un intero triennio voluto dalla Chiesa locale per la rivalutazione di questa fondamentale istituzione sociale. "Ritengo che sia stato particolarmente importante per la Giordania" commenta il Patriarca, che è originario di questo Paese. "La struttura prevalentemente tribale della società, e incentrata su una fede di tipo tradizionale, poggia necessariamente sull'istituto familiare. La domenica si va a messa tutti insieme - nonni, genitori e bambini - e forse non è un caso che stabilità politica e familiare coincidano". Con riflessi anche sui percorsi vocazionali, tanto che Twal ha più volte ripetuto orgoglioso che il seminario è "tutto esaurito" e si rende necessaria l'apertura di una nuova succursale.
Diverso è il discorso in Israele e nei Territori palestinesi, dove si registra soprattutto stanchezza nei confronti della violenza. "Sessant'anni di guerra - dice - sono troppi per tutti. La gente non ne può più, per questo fugge, se ne va. Ma io vedo qualche prospettiva di speranza - conclude - la visita del Papa, quella successiva del presidente degli Stati Uniti Obama, i segnali che giungono dalla comunità internazionale e dagli stessi dirigenti arabi e israeliani fanno ben sperare. Per questo ai bambini del nostro popolo dico: voi siete chiamati a vivere una missione. Se andate via troverete lavoro, forse avrete una casa e non dovrete più passare i check-point, ma non troverete da nessuna parte una Terra Santa".
Di "bilancio assolutamente positivo" parla anche padre Pierbattista Pizzaballa. Questo giovane e colto frate, cui è stata affidata la grande responsabilità della gestione dei luoghi francescani dell'Incarnazione, sottolinea soprattutto la valenza interreligiosa del viaggio di Benedetto XVI. "Ha dato forza innanzitutto ai cristiani di Terra Santa. Inoltre, in questo contesto interreligioso, ha saputo parlare con chiarezza a musulmani ed ebrei".
Alla vigilia della partenza c'erano timori di strumentalizzazione, ma il Papa "senza retorica ha detto ciò che più gli stava a cuore con quello spirito di libertà, di serenità, che ha lasciato un senso di gratitudine e nel contempo di libertà negli ascoltatori. A noi ha dato la sicurezza che tutto si può fare e che avremo un maggior rispetto nei confronti della nostra Chiesa".
Ripercorrendo poi le tappe più importanti del pellegrinaggio padre Pizzaballa individua due estremi: il Cenacolo "povero dal punto di vista esterno ma anche molto intenso, forte" e "la messa a Nazaret, con questo mare oceanico di fedeli". Entrambi sono quasi una metafora della Terra Santa, che è sia "Cenacolo con la povertà, le difficoltà, la solitudine", sia "Nazaret con la bellezza, l'entusiasmo, la passione. In mezzo c'è la messa a Betlemme: memorabile. Penso che lascerà un segno indelebile".
E sulla scia della spiritualità francescana rilancia la parola pace, echeggiata non solo in ciascuno dei ben 31 discorsi - un record di questo pontificato - pronunciati da Benedetto XVI durante gli innumerevoli appuntamenti, ma ripresa in tutte le lingue di questa regione da chi gli stava attorno: "Shalom, salaam, peace: l'abbiamo letta sugli striscioni e sui manifesti, l'abbiamo sentita nei canti e negli slogan. Ora bisogna prepararla questa pace, che deve essere basata sull'integrità, sulla dignità delle persone, su rapporti assolutamente liberi, sulla fiducia reciproca. Ci vorrà molto tempo; però i segni e i gesti che ci sono stati durante la visita del Papa indicano la meta e, in particolare, mostrano che è possibile raggiungerla. Non si tratta di sogni utopistici, ma di un qualcosa che, se è veramente voluta, può diventare realtà".
Infine il Papa ha più volte richiamato il modello di san Francesco nei suoi discorsi ricordando che i muri, l'incapacità di parlarsi, si possono aggirare con gesti semplici, così come fece Francesco con il sultano. "Questo riconoscimento oltre a farci piacere - conclude - ci stimola a continuare a fare il nostro dovere con passione e amore. Soprattutto continueremo ad aiutare le persone a restare in questi luoghi, sostenendoli con case e lavoro, i due capisaldi della nostra plurisecolare presenza in Terra Santa".

(©L'Osservatore Romano - 17 Maggio 2009)


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NONOSTANTE CRITICI E SCETTICI

VIAGGIO CORAGGIOSO CORONATO DA SUCCESSO

LUIGI GENINAZZI

Il lungo e impegnativo viaggio di Benedetto XVI, pellegrino di pace in Terra Santa, non poteva che con cludersi davanti al Santo Sepolcro con un’umile e 'scandalosa' profes sione di fede: « come cristiani sap piamo che la pace alla quale anela questa terra lacerata da conflitti ha un nome: Gesù Cristo» .
Sta qui la chiave interpretativa di una visita che qualche commentatore israelia no ha incredibilmente definito « troppo politica e poco religiosa » , giudizio davvero paradossale se si pensa che alla vigilia di questo viag gio molti temevano esattamente il contrario dal Papa-teologo. Forse val la pena ricordare che Benedetto XVI è venuto in Terra Santa per un profondo desiderio del cuore ma an­che su invito delle autorità d’Israele, di Giordania e dell’Autorità nazio nale palestinese. E che in questa tor mentata regione non c’è afferma zione, soprattutto se pronunciata da un’altissima autorità morale, che non acquisti immediatamente una valenza politica.
Il Papa ha parlato in modo molto chiaro ed esplicito richiamando il di ritto dei palestinesi ad avere una pa tria sovrana e al tempo stesso il di ritto degli israeliani a vivere dentro confini sicuri, ma è andato oltre la politica facendo appello alla gene rosità e al perdono.
Ha denunciato con forza la tragedia del muro, am monendo però che «prima di tutto è necessario rimuovere i muri che co struiamo attorno ai nostri cuori». In somma, ha invitato tutti ad alzare lo sguardo senza più ripiegarsi nelle re criminazioni, nell’odio e nella ven detta.
È sconfortante dover notare che tan ti osservatori, pronti a passare al se vero setaccio dell’ideologia ogni pa rola pronunciata da Benedetto XVI, abbiano smarrito il filo conduttore di un discorso, logico, chiaro e ap passionato che si è dipanato lungo tutti questi otto giorni.
C’è chi è ar rivato a criticare Papa Ratzinger per aver omesso nel suo intervento a Yad Vashem il numero di sei milioni di ebrei uccisi dai nazisti, senza accor gersi che ne aveva parlato lo stesso giorno, appena messo piede sul ter ritorio israeliano. Benedetto XVI ha condannato con parole forti l’anti semitismo, ha riflettuto con finezza teologica sul significato biblico del nome che non può mai essere can cellato, ha commosso i sopravvissu ti che hanno ascoltato le sue parole.
Ma sembra che qualunque cosa di ca o faccia il Papa di Roma, per qual cuno non sia mai abbastanza.
Benedetto XVI nel corso del suo pel legrinaggio è entrato in due mo schee, ad Amman ed a Gerusalem me, ha rafforzato i legami di rispet to reciproco e d’amicizia con l’islam ed ha ribadito il valore teologico del «vincolo inscindibile tra cristianesi mo ed ebraismo», inaugurando una sorta di «dialogo trilaterale» fra le re ligioni monoteiste dove gioca un ruolo decisivo il richiamo alla ragio ne « che si eleva al piano più alto quando viene illuminata dalla luce della verità dell’unico Dio», come si è espresso nell’incontro con i leader musulmani nella moschea 'Re Hus sein'.
Ed ha saputo infondere co raggio e speranza ai cristiani, toc cando i loro cuori ed invitandoli a re stare in Terra Santa per testimonia­re la potenza rivoluzionaria del Van gelo e dare un contributo decisivo al processo di pace.
Cambierà qualco sa dopo questa visita? «La memoria può essere purificata, un futuro di pace può sorgere», è il messaggio con cui Benedetto XVI si è congedato da Israele. Perché «la storia non neces sariamente si ripete, Dio può far nuove tutte le cose» .
Nonostante i critici e gli scettici.

© Copyright Avvenire, 16 maggio 2009


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Peres: Ratzinger ci ha commosso

Ma nella sfida mediatica hanno vinto le ragioni dei palestinesi

di ERIC SALERNO

GERUSALEMME

Shimon Peres tessa le lodi di Benedetto XVI, la stampa israeliana traccia un bilancio del suo pellegrinaggio mentre palestinesi e arabi israeliani ricordano il sessantunesimo anniversario della Nakba, la catastrofe, ossia la loro cacciata da parti della Palestina e la creazione dello stato d'Israele.
Nel salutare il papa all'aeroporto il presidente israeliano ha voluto sottolineare il valore spirituale della sua visita ma per giornalisti, commentatori e politici, l'impegno di Ratzinger è stato soprattutto politico.
E, a giudizio dei più, a trarre il maggiore vantaggio da discorsi, incontri ed effetto mediatico sono stati i palestinesi. Le autorità hanno fatto sventolare la bandiera israeliana su tutti i percorsi del papa perché fosse ripresa dalle telecamere nei luoghi di Gerusalemme Est contestati.
I palestinesi non avevano bisogno di bandiere. Le immagini del Muro alto otto metri alle spalle del papa quando parlava nel campo profughi di Aida a Betlemme, per i giornali, erano imbattibili.
E' un papa molto politico, scrive l'Haaretz in un commento. E il viaggio non poteva non avere una forte impronta politica arrivando a pochi mesi dall'attacco israeliano alla striscia di Gaza. I suoi discorsi «si sono trasformati in una competizione fra israeliani e palestinesi» su chi riusciva a far riconoscere le proprie ragioni. «La competizione è stata vinta dai palestinesi, grazie all'aperto sostegno del Papa ad una soluzione con due stati, alla sua condanna della barriera in Cisgiordania e i suoi ripetuti riferimenti alle loro sofferenze».
I giudizi negativi sulla visita del papa a Yad Vashem sono stati accantonati e in un altro commento c'è apprezzamento per le ripetute condanne dell'antisemitismo e per la tappa nel memoriale della Shoah.
E' stato un messaggio di «importanza enorme» rivolto ai fedeli cristiani in tutto il mondo quando «egli ha chinato il capo» e ha stretto le mani di sei ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio. Parti del suo discorso, ha detto Peres nel salutare il papa, «hanno toccato i nostri cuori e le nostre menti. Particolarmente la sua dichiarazione che l'Olocausto, la Shoah, non devono essere dimenticate o negate. E che l'antisemitismo e le discriminazioni, in ogni forma e in ogni luogo, devono essere combattuti con forza».
La stampa ortodossa ebraica ha messo in risalto l'accoglienza riservata al papa dai due rabbini-capo, il sefardita Shlomo Amar e l'ashkenazita Yona Metzger, che hanno ospitato il Pontefice nella sede del Rabbinato a Gerusalemme. «Un gesto d'amicizia verso il mondo cristiano». Le critiche, anche ridicole, non potevano mancare. Esponenti di gruppi religiosi fondamentalisti si sono lamentati per il fatto che l'accesso al Muro del Pianto è stato precluso ai fedeli ebrei per alcune ore per far spazio “al Re dei cristiani”.

© Copyright Il Messaggero, 16 maggio 2009


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Il Papa: «Mai più muri a dividere i popoli»

Conclusa con la visita al Santo Sepolcro la visita del Pontefice che torna a condannare la barriera

FRANCA GIANSOLDATI

dal nostro inviato

GERUSALEMME

Il pellegrinaggio in Terra Santa non poteva che terminare sul luogo della crocifissione, della morte e della resurrezione di Cristo. Era l’ultima tappa prevista prima di ripartire per Roma. Gerusalemme vecchia ieri mattina era insolitamente silenziosa e quasi spettrale, per via delle straordinarie misure di sicurezza che hanno imposto la chiusura dei negozi e l’obbligo per i residenti di non muoversi da casa. Papa Ratzinger aspettava con trepidazione questo momento. Ad annunciare il suo ingresso al Santo Sepolcro è stato il suono dei bastoni dei Kawas, picchiati energicamente sul pavimento. Sin dal tempo degli ottomani gli ospiti importanti vengono introdotti in questo modo. Il rumore serviva a fare capire alla gente che si stava avvicinando una persona importante. Quattro guardie d’onore vestite di blu e oro, col fez rosso sul capo, incedevano solenni guidando la processione, una macchia nera e marrone, per il colore dei sai dei frati, delle tuniche dei patriarchi armeni, copti, greco-cattolici, melchiti, il mantello dei cavalieri del Santo Sepolcro.
Varcata la soglia il Papa si è emozionato, trovandosi davanti la pietra dell’unzione, una lunga pietra levigata di calcare rosa, sovrastata da otto lampade. Secondo la tradizione è il luogo in cui il corpo di Cristo venne deposto e cosparso di unguenti. L’ha baciata restando in ginocchio per qualche secondo mentre una rondine entrava dal portone per svolazzare allegra sopra le teste dei presenti. Nonostante la raffica di flash dei fotografi, le tre telecamere che lo riprendevano e i fari puntati, sembrava non accorgersi di quel trambusto, nemmeno del suono di un telefonino che si è messo a trillare antipatico. Lui è restato concentrato, con lo sguardo fisso a terra, per poi dirigersi all’edicola che contiene la stanza mortuaria; lì è entrato da solo sostando immobile davanti a quella pietra. «La Chiesa in terra Santa, che ben spesso ha sperimentato l’oscuro mistero del Golgota, non deve cessare mai di essere un araldo del luminoso messaggio di speranza che questa tomba vuota proclama». Il volto contratto e lo sguardo assorto facevano trasparire una grande emozione interna. E’ ripartito contento Papa Ratzinger.
Il viaggio più ricco del pontificato si annunciava difficile e pieno di ostacoli, il momento, infatti, non era dei più felici. Ha detto il Custode di Terra Santa, padre Pizzaballa. Prima di lasciare Tel Aviv con un aereo della El Al (che per la prima volta gli ha fornito anche la carta d’imbarco), Benedetto XVI ha ringraziato di cuore il presidente Peres per l’accoglienza ricevuta.
E' nel discorso di commiato (opportunamente ritoccato dopo le bordate della stampa israeliana e di qualche rabbino) che ha voluto riprendere e sviluppare meglio il tema della Shoah, un male causato da un «regime senza Dio» che ha propagato una ideologia antisemita.
Poi ha ripetuto che si devono fare tutti gli sforzi per arrivare a uno Stato palestinese. «Israele ha diritto a esistere, e i palestinesi hanno diritto a una patria indipendente e sovrana». Infine una nuova condanna al muro. «Una delle cose più tristi che ho visto durante la mia visita.
Passandoci accanto, ho pregato per un futuro in cui i popoli che sono qui possano vivere assieme in pace e armonia, senza bisogno di questi strumenti di sicurezza e separazione». In aereo è apparso contento e sorridente. «Sono venuto come pellegrino di pace e spero che molti seguano questo mio pellegrinaggio in Terra Santa».

© Copyright Il Messaggero, 16 maggio 2009


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"Io rabbino sto con Ratzinger"

di Vincenzo Faccioli Pintozzi

[16 maggio 2009]

David Rosen è un uomo colto, di fede religiosa profondissima e di altrettanto profondo impegno al dialogo. Ex rabbino capo di Israele, che ha guidato dal 1978 al 1985, ha preso in passato posizioni nette contro l'antisemitismo crescente, che combatte da sempre.
È anche il religioso che ha tenuto la mano a Benedetto XVI mentre - con un imam palestinese dall'altro lato - veniva intonato a Nazareth un salmo per la pace interreligiosa in Terra Santa. Lontano da posizioni ideologiche, rabbi Rosen è il direttore del Dipartimento per gli affari interreligiosi del Comitato degli ebrei americani. Da anni si spende per il dialogo con le altre confessioni, che riesce a vedere con occhio critico ma non ostile. A liberal spiega cosa il pontefice ha lasciato a Israele, prendendo posizione lontano dalle polemiche che hanno accompagnato la visita del vescovo di Roma.

Rabbino, qual è la sua impressione sul primo viaggio di Benedetto XVI in Terra Santa?

Prima di tutto, soprattutto dopo l'incontro interreligioso che si è svolto a Nazareth e il grande successo che l'ha accolto, credo che il papa abbia dimostrato senza ombra di dubbio il suo rispetto per la popolazione ebraica e l'impegno che dedica a un vero dialogo fra le nostre due religioni. Inoltre, Benedetto XVI ha espresso la sua comprensione per le pene subite dal nostro popolo e per le antiche tradizioni di Israele. Pensa sia possibile un paragone con Giovanni Paolo II? Ovviamente, il predecessore dell'attuale pontefice è impossibile da inquadrare in un contesto di "gara"con chiunque altro. Era un esempio di umanità unico nel suo genere. Chi cerca di mettere i due papi uno davanti all'altro compie un errore: credo che sia più giusto, invece, osservarli entrambi sotto due ottiche diverse, come si deve fare in questi casi. A me, personalmente, piacciono entrambi: hanno avuto caratteristiche diverse, ma positive. E credo che la popolazione ebraica la pensi come me.

Cosa pensa delle parole pronunciate dal papa al presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, e la vicinanza dimostrata alla causa del suo popolo?
Crede sia stato più vicino a loro che a Israele?

Quando hai a che fare con una popolazione che soffre e che lotta per la sua indipendenza, provi un trasporto emotivo che ti porta a pronunciare frasi con un calore diverso da quello che avevi un attimo prima. Le parole pronunciate da Benedetto XVI ai leader palestinesi e ai profughi sono parole che, come è chiaro a tutti, condannano la guerra. E denunciano i pericoli che derivano da essa, così come la tentazione a cedere alla violenza. In questo modo, ha ricordato ai palestinesi che ci sono dei problemi anche all'interno delle loro fila, dei problemi che devono essere risolti se si vuole arrivare a una soluzione del conflitto.

Secondo lei, che peso ha avuto l'appello ai "due popoli, due Stati" nella Terra Santa?

Io credo che questa sia la soluzione che tutti coloro che vivono in questa regione vogliono. La vogliono gli israeliani e i palestinesi, così come buona parte della comunità internazionale. In tutta onestà, sono convinto che questa sia la soluzione cui tende anche il nostro primo ministro, Benjamin Netanyahu. Ritengo che, se non si arriva a una pace costruita su questo principio, il primo ad essere in pericolo sia lo stesso Stato di Israele.

Fra i vari luoghi santi di queste terre, il papa ha visitato anche il Cenacolo. C'è una lunga battaglia legale fra Israele e il Vaticano per il controllo di questi siti. Qual è la sua posizione in merito?

Ci sono due questioni separate, al riguardo. L'Accordo fondamentale, firmato alla fine del 1993, che regola le proprietà della Chiesa e i beni naturali dei cristiani. Io non credo che questo possa essere un ostacolo insormontabile: dobbiamo parlare con onestà, certo, ma se ne può uscire. Quello del Cenacolo è un problema diverso, dato che è finito anche per le mani dell'allora Impero Ottomano, che lo ha poi ripartito. Cambiare lo status quo [il complicato sistema di norme reliche regola l'accesso, la manutenzione e la gestione dei luoghi santi ndr] è un problema molto serio per Israele.

Sono state mosse molte critiche alla visita del papa allo Yad Vashem: si cercava forse un attacco più forte contro i negazionisti. Crede che siano critiche fondate?

Chi ha criticato Benedetto XVI lo ha fatto perché si aspettava parole più calorose riguardo una tragedia simile, anche alla luce di quanto il vescovo di Roma aveva detto nel corso della sua visita al campo di sterminio di Auschwitz avvenuta tre anni fa. Ma si tratta di commenti molto limitati, perché la semplice presenza del pontefice in luoghi del genere, e le sue sincere parole di condanna nei confronti di chi rinnega l'Olocausto, sono stati avvenimenti estremamente significativi. Chi ha fatto riferimento alle sue origini tedesche sembra essere inchiodato alla nostra storia. Personalmente disapprovo questo modo di pensare.

Dal suo punto di vista, che cosa pensa la società israeliana contemporanea di Benedetto XVI?

È molto difficile parlare della popolazione israeliana. Le posso rispondere con una vecchia barzelletta: prendi due ebrei e avrai tre opinioni, prendi due israeliani e ne avrai sei. Ma, a parte gli scherzi, ci sono molte anime in Israele: è difficile rispondere. Ovviamente, il papa "paga" dal punto di vista di immagine alcune situazioni spiacevoli avvenute prima della sua visita. Penso, ad esempio, al caso del vescovo Williamson [il presule lefebvriano che il papa ha perdonato, sanando lo scisma della Fraternità S. Pio XI, che ha posizioni negazioniste rispetto all'Olocausto nda]. Tuttavia, credo che a livello generale l'impatto sia stato positivo.

Questo pontefice ha un carisma diverso, come detto, dal proprio predecessore. Dal punto di vista del dialogo interreligioso, però, si spende molto. Lei cosa ne pensa? Quali sono i veri passi da intraprendere per un vero confronto fra le tre grandi religioni di Terra Santa?

Negli ultimi tempi, abbiamo visto due incontri interreligiosi che si sono dimostrati radicalmente differenti. Il primo, a Gerusalemme, è stato rovinato da un religioso musulmano che ha attaccato Israele in maniera violenta - snaturando così la natura dell'avvenimento - e sottolineando la difficoltà di mettersi in relazione con chi, alla fede, preferisce l'ideologia. L'altro, quello di Nazareth, ha riunito cristiani ed ebrei, musulmani e drusi in un'atmosfera di pace. Tutti insieme, in uno spirito di vera amicizia e di cooperazione. Leader religiosi che hanno colto l'occasione della visita di Benedetto XVI per parlarsi con sincerità. Questi due eventi dimostrano sia le difficoltà che i successi di incontri del genere. Le sfide sono antiche ma di attualità: lavorare insieme e costruire dei ponti, in modo particolare con i musulmani palestinesi. Ma, fino a che continuano i conflitti, compiere un'operazione del genere diventa molto difficile. In particolar modo in Cisgiordania e a Gaza. Ma sono relazioni cruciali, anche da un punto di vista di percezione psicologica. Dobbiamo diventare amici, se vogliamo la pace.

© Copyright Liberal, 16 maggio 2009


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Se questo Papa è criticato a prescindere

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Da "GIORNO/RESTO/NAZIONE" di sabato 16 maggio 2009

L`ANALISI

EBREI E MUSULMANI INCONTENTABILI: MA PIÙ DI COSÌ NON POTEVA FARE

di BRUNO VESPA

La CITTÀ palestinese di Hebron è a tre quarti d`ora d`auto da Gerusalemme.
Dopo la guerra del `67, Israele l`ha ripresa - l`aveva persa nel `29 - e vi ha piazzato alcuni insediamenti di coloni.
I coloni saranno cinquecento, protetti da millecinquecento soldati, ma nella «zona rossa» in cui alloggiano hanno fatto il deserto costringendo la popolazione palestinese di trentamila persone, nell`unica ala del suk rimasta aperta, a proteggersi con una rete per evitare il lancio di pietre dai palazzi abitati dagli ebrei. Hebron è un caso limite in cui storicamente israeliani e palestinesi si sono massacrati a vicenda.
E quando ci sarà la pace, se mai ci sarà, questi coloni saranno allontanati, come mi ha detto lo stesso presidente d`Israele, Shimon Peres.
Ma lo scambio di accuse tra i dirigenti politici delle due parti ha paralizzato per ora ogni dialogo.
Si capisce dunque come fosse importante e delicata la visita del Papa in Israele e in Palestina.
Eppure, invece di focalizzarsi su una missione impostata da Benedetto XVI con esemplare chiarezza, gli israeliani e anche i palestinesi hanno cominciato a fargli gli esami.
DOPO le sciagurate affermazioni negazioniste del vescovo Williamson, lefebvriano riammesso nella comunità ecclesiale, papa Benedetto XVI era infatti atteso al varco.
Avrebbe sorvolato sulla negazione della Shoah? Avrebbe citato il numero degli ebrei sterminati?
Bene, appena sbarcato all`aeroporto di Tel Aviv, il papa si è detto lieto di poter «onorare la memoria di sei milioni di ebrei vittime della Shoah» e l`indomani, dopo l`omaggio al mausoleo della Yad Vashem che li ricorda, ha ribadito che l`Olocausto «non deve essere negato, sminuito o dimenticato». Chiusa la pratica? Niente affatto.
I quotidiani più importanti di Gerusalemme hanno sparato a zero sul Papa giudicando largamente insufficiente il suo discorso.
Il giorno stesso ho incontrato Peres.
Gli ho ripetuto le frasi del Papa e il commento dei giornali e gli ho chiesto: ma insomma, che cosa vuole l`opinione pubblica israeliana? Lui, gran volpone, ha fatto come fanno i politici da noi: non confonda, mi ha risposto, l`opinione pubblica con qualche giornalista.
Per dimostrare tuttavia quanto sia profonda la prevenzione nei confronti di Benedetto XVI, cito ancora The Economist di ieri.
Giudicando «disastroso» sul piano delle pubbliche relazioni il viaggio pontificio, il settimanale contesta al Papa di avere usato a proposito delle vittime ebree del nazismo la parola «uccise» invece che «assassinate».. .
PECCATO che il giornale inglese fosse già stampato quando ieri, lasciando Israele, il Papa ha parlato di «brutale sterminio da parte di un regime ateo».
Basterà?
La dietrologia è una delle materie in cui sono meno preparato, ma mi viene il sospetto che tanta malafede di giornali e giornalisti di così alto livello nasconda il proposito di delegittimare l`azione della Chiesa nella sua missione planetaria in favore della pace.
I cattolici sono soltanto il venti per cento nel mondo, eppure nessun capo religioso ha mai avuto un`influenza così alta sulle vicende più delicate e nessuna diplomazia come quella vaticana ha avuto e ha un peso così sproporzionatamente superiore alla sua forza materiale.
A Betlemme Benedetto XVI ha usato parole durissime contro il muro di 670 chilometri che divide Israele dai territori palestinesi, ha chiesto una patria sicura e indipendente per quattro milioni di profughi, ha battuto sul tasto dei «due popoli in due Stati».
EPPURE Al Jazeera, che rappresenta la bibbia per milioni di musulmani, lo ha criticato perché Benedetto, com`è giusto, ha detto che la religione non deve essere strumentalizzata per battaglie che con essa non hanno niente a che fare.
Un riferimento indiretto ad Al Qaeda, certamente più popolare presso tanti musulmani del papa di Roma.
Questo è certo un caso limite, ma a ben vedere, al di là delle parole sinceramente amichevoli di Abu Mazen, la nomenklatura palestinese non si è spellata le mani ascoltando il discorso -pure di una chiarezza esemplare -pronunciato dal Papa nel campo profughi di Aida a Betlemme.
Che cosa si vuole dunque dalla Chiesa? Quello che la Chiesa non può fare: tacere o prendere parte per gli uni contro gli altri.

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Papa Ratzi Superstar









"CON IL CUORE SPEZZATO... SEMPRE CON TE!"
17/05/2009 01:44
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IL PUNTO di don Simonetti
"La saccenteria è la somma dell’ignoranza, della presunzione, se non addirittura della malafede"
Sanremo - "La missione di Benedetto XVI è stata generalmente compresa ed apprezzata, ma non è sfuggita a certi commentatori l’opportunità di riproporre il loro stereotipo dell’attuale Papa per costruire una contrapposizione con il suo predecessore"



Papa Benedetto XVI

Se c’è una cosa che non riesco proprio a digerire è la saccenteria. Non la sopporto, perché è la somma dell’ignoranza, della presunzione, se non addirittura della malafede. Ritengo di dedicare spazio a tale argomento, dato che non mancano occasioni e motivazioni in proposito. Lo stesso pellegrinaggio, appena concluso, di Papa Benedetto XVI, ha offerto l’occasione a taluni soloni per manifestare opinioni alla stregua di apodittiche sentenze. Senza dubbio, una iniziativa pastorale tanto difficile e con molteplici obiettivi da perseguire abbisogna di una seria e approfondita lettura, che prenda in considerazione la problematicità e la complessità storica. Difatti il Pontefice si proponeva di portare, in una regione tanto tormentata, una testimonianza e un contributo per la convivenza pacifica tra popolazioni che da decenni vivono in una drammatica realtà di odio, violenza, terrorismo. Il Papa inoltre si proponeva di impegnare i cattolici e, nel contempo, coinvolgere i fedeli delle altre fedi, in un comune e concorde servizio al bene delle popolazioni con iniziative concrete di collaborazione, in verità alcune già esistono, per superare divisioni, pregiudizi, rancori ed educare alla convivenza tra i popoli. Altro scopo, sostenere i membri delle comunità cattoliche, perché non diminuisca ancora, per la precarietà di sopravivenza, la loro presenza nella Terra Santa. La missione di Benedetto XVI è stata generalmente compresa ed apprezzata, ma non è sfuggita a certi commentatori l’opportunità di riproporre il loro stereotipo dell’attuale Papa per costruire una contrapposizione con il suo predecessore, si è mistificato sul suo passato: insomma i soliti saccenti sono montati in cattedra e hanno sentenziato, senza possibilità di appello. Così il disegno di avversare la Chiesa cattolica, infierendo in primis sul Papa, prosegue allegramente e crea dei saputelli che continuano a ripetere l’imparaticcia lezione.


di Don Giacomo Simonetti


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[Modificato da +PetaloNero+ 17/05/2009 01:44]

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7500 giovani di tutta Europa in preghiera sul Monte delle Beatitudini: un momento particolare dopo la partenza del Papa dalla Terra Santa


7500 giovani riuniti sul Monte delle Beatitudini in Galilea, per un incontro di preghiera e di festa subito dopo il viaggio del Papa in Terra Santa. E’ avvenuto ieri pomeriggio e protagonisti sono stati giovani provenienti dalle comunità del movimento neocatecumenale di tutta Europa. Fausta Speranza ha intervistato don Rino Rossi che da tanti anni vive in Galilea e che ha vissuto questo particolare pomeriggio:

R. – Io ho visto che questa Terra, per i giovani, è stata come una calamita che li ha attirati. Io ho anche detto, ad alcuni di loro, quando sono venuti qua: “Voi siete figli di questa Terra, figli di questa montagna”. Si vedeva la gioia, l’allegria che manifestavano nei canti, nella loro partecipazione. Erano anche impressionanti i momenti di silenzio perché non è facile contenere otto mila giovani provenienti da tutta l’Europa: tedeschi, scandinavi, russi, polacchi, italiani.


D. – Spesso si parla dei giovani come di persone in formazione soggette a tutta la superficialità che questa società porta con sé come modelli, come istanze. Non è così, invece, quando si incontrano molti di loro: si sente una voglia di vita vissuta in tutta la sua pienezza ed in tutto il suo significato…


R. – Qui tocchiamo un punto molto serio; tanti giovani, oggi, sono vittime in parte dell’ambiente del mondo di oggi che è tutto centrato sull’edonismo, sull’avere. Sembra che se non si hanno certe cose non si può vivere. Sembra che la vita sia questo, tutta basa sul piacere e sul vivere comodamente. Io vedo che questi giovani cominciano, grazie alla Chiesa, ad avere un nuovo orizzonte, cioè hanno la speranza, hanno il futuro aperto e qual è questo futuro? Quello del vangelo, che Kiko, il fondatore del movimento neocatecumenale ha annunciato loro ieri. Ha fatto una catechesi sulla destinazione che ha l’uomo che non è solamente vivere qui alcuni giorni ma è una destinazione eterna. Siamo figli di Dio è questo l’annuncio, il kerigma che la Chiesa veramente sempre ha dato e ci dà anche oggi.


D. – Quella del movimento neocatecumenale, è un’esperienza particolare di iniziazione cristiana però tutti i ragazzi in tutte le parrocchie vivono un cammino spirituale, di avvicinamento a Cristo e forse per tutti sarebbe molto bello ritrovarsi in Terra Santa. Alcune parrocchie organizzano ma molte altre no, forse anche per paura di tutta una organizzazione logistica. Invece, è più facile di quanto si pensi, venire in Terra Santa e pregare sulla Terra di Cristo…


R. – E’ vero che in molti hanno paura perché la Terra Santa si presenta anche come un ambiente di guerra. E’ vero che esiste una conflittualità che tutti conosciamo e di cui ha parlato anche il Papa, però, per i pellegrinaggi non c’è problema e infatti sono ripresi numerosi. Devo dire che noi siamo riusciti ad organizzare in brevissimo tempo, l’arrivo di tutte queste migliaia di giovani. Ci si può muovere tranquillamente in Terra Santa, non ci sono problemi.


D. – Dunque, il racconto di questa iniziativa si fa invito per tantissimi giovani?


R. – Senz’altro. Venire o tornare in questa Terra è sempre un aiuto enorme. Tutto è partito da qui, Gesù Cristo è nato in questa Terra, figlio del popolo ebraico ha vissuto, ha predicato, ha fondato la sua Chiesa, che ha patito, sofferto. E’ risorto ed è sceso al cielo. Ecco, tutto è partito da qui.



[Radio Vaticana]

17/05/2009 21:40
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Dal blog di Lella...

«Lasciatemi guardare», le parole che rivelano la vera immagine di Ratzinger

di Emanuele Boffi

Per monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino Montefeltro, il viaggio di Benedetto XVI in Medio Oriente è contraddistinto da una «serena baldanza.
È un’impressione che ricavo osservandolo nelle tappe del suo pellegrinaggio. Ha sempre atteggiamenti semplici e disponibili con tutti gli interlocutori, restituendoci un’immagine veritiera del suo carattere, così lontana da certe speculazioni giornalistiche che lo vorrebbero freddo e distante».
Mentre era sulla vetta del Monte Nebo, là dove Mosè vide la Terra Promessa, il Papa ha pregato i fotografi che lo chiamavano di attendere un attimo: «Lasciatemi guardare», ha detto, volendo osservare quello stesso panorama che Dio mostrò a Mosè.
Proprio in quell’occasione il Pontefice ha ribadito «l’inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebreo», popolo verso il quale ha voluto più volte ribadire la particolare fratellanza, anche durante la successiva visita al museo dello Yad Vashem di Gerusalemme.
«Le parole di Benedetto XVI – commenta monsignor Negri – sono sempre animate dalla consapevolezza di una identità definitiva. Dentro la storia dell’umanità, alla luce della presenza di Gesù Cristo, egli sa leggere la posizione assolutamente singolare del popolo ebraico. Ebrei e cristiani hanno in comune la grande promessa di diventare il popolo del Signore. Dio è presente nel suo popolo, e questo fatto accomunerà per sempre ebrei e cristiani. Questo è l’“inseparabile vincolo” di cui ha parlato il Papa, dentro il quale esiste un mistero che riguarda la libertà, e la scelta da parte del popolo ebreo di non ritenere Gesù un compimento adeguato di quella promessa. Benedetto XVI è consapevole della diversità tra cristiani ed ebrei, ma al tempo stesso sa di essere accomunato a loro dal privilegio di essere stato chiamato a partecipare a un mistero che ci trascende entrambi».

Aiutare gli ultimi là dove sono nati

I quotidiani giordani hanno definito “storica” la visita del Pontefice in Giordania. Qui Benedetto XVI ha incontrato il principe Ghazi bin Muhammed bin Talal, uno degli ispiratori, due anni fa, della celebre lettera dei 138 saggi islamici, “Una parola comune”. Davanti alla moschea di Amman ha ripreso il filo di un discorso che affonda le sue radici nella famosa lezione di Ratisbona, riproponendo ai suoi interlocutori musulmani la sfida e la “pretesa” cristiana: «Coltivare per il bene, nel contesto della fede e della verità, il vasto potenziale della ragione umana». Come ha notato anche Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, il Papa è dunque tornato a discutere col mondo musulmano ribadendo la sua volontà di instaurare un dialogo “interculturale” e non “interreligioso” (pensiero già al centro di una sua missiva al senatore Marcello Pera). «Certo – conferma monsignor Negri – il Papa individua nella sinergia tra fede e ragione l’aspetto più “provocante” per il mondo musulmano. La fede cattolica potenzia la ragione, così come un onesto percorso di ragione non può che portare alle soglie della fede. Questo è un discorso che può benissimo essere compreso dall’islam giordano che ha una storia di straordinaria intelligenza, sobrietà e rispetto verso la fede cristiana. Insomma, re Hussein non era Ahmadinejad». Anzi, proprio l’attenzione che i giordani hanno riservato a Benedetto XVI «dovrebbe farci riflettere sulla nostra incapacità tutta occidentale, intrisi come siamo di relativismo e di scetticismo, di distinguere all’interno del mondo musulmano tra Stati islamici e Stati islamici. Deve finire il tempo dell’approssimazione culturale, del considerare alla stessa stregua sovrani illuminati e manigoldi e affamatori». A questo proposito, a monsignor Negri non sono piaciuti gli slogan («nemmeno quelli cattolici») con i quali sono stati commentati i respingimenti in mare dei clandestini. «Come è stato saggiamente ricordato, nei confronti dei migranti occorre trovare una sintesi tra umanità e legalità. Ma non voglio entrare nel merito delle polemiche, anche perché sono consapevole che l’integrazione dei popoli è difficile. Vorrei, però, porre una semplice domanda: da dove scappano queste persone? Scappano da paesi verso i quali l’Occidente chiude due volte gli occhi, pur sapendo in quali condizioni quei popoli vivano a causa dei loro dittatori. Eppure si tace, o addirittura ci si inchina al loro cospetto, come è il caso del presidente Obama. Non possiamo certo sperare in breve tempo di vedere un’evoluzione in senso democratico di questi paesi, però potremmo fare qualcosa di più perché queste persone possano vivere dignitosamente là dove sono nate, senza dovere essere costrette a fuggire».

© Copyright Tempi, 13 maggio 2009


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