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Viaggio apostolico in Camerun e Angola

Ultimo Aggiornamento: 02/05/2009 17:13
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Se il Papa africano diventa No Global

di Paolo Rodari

mar 20, 2009 il Riformista

Incurante degli attacchi ricevuti da parte delle cancellerie di mezza Europa, delle parole di Silvio Berlusconi di ieri che in qualche modo lo difende (o lo giustifica?) dicendo che lui «svolge semplicemente il suo ruolo» e di quelle di Dario Franceschini che invece ricorda come «il profilattico sia indispensabile e da diffondere per combattere l’Aids, la disperazione e la morte in Africa e nei Paesi più poveri del mondo», Benedetto XVI parla con accenti che ricordano le istanze più originarie del movimento No Global, quelle per intenderci dell’opposizione senza se e ma alla logica del business a tutti costi imposto sovente dalle multinazionali: nel suo secondo giorno di permanenza in Camerun, infatti, spiega che «l’Africa è minacciata» dalle «false glorie», dai «falsi ideali» portati «da persone senza scrupoli che cercano d’imporre il regno del denaro disprezzando i più indigenti», portati dalle «multinazionali».
Incuranti delle critiche europee al Papa sono stati ieri anche i 60mila che hanno assiepato lo stadio di Yaoundè, la capitale del Paese.

È qui che Benedetto XVI è entrato nel cuore dei problemi dell’Africa: la minaccia più pericolosa che insidia il continente, ha detto, è la perdita dell’identità, del senso della famiglia, della ricchezza interiore di fronte ai «falsi ideali», portati, appunto, da stranieri senza scrupoli.

Tra questi, le multinazionali, citate dal Pontefice nel documento Instrumentum laboris, consegnato ieri ai vescovi in vista del prossimo Sinodo speciale per l’Africa. Le multinazionali «continuano a invadere gradualmente il continente per appropriarsi delle risorse naturali». E ancora: «Schiacciano le compagnie locali, con la complicità dei dirigenti africani. Recano danno all’ambiente e deturpano il creato». Anche le campagne di semina di organismi geneticamente modificati finiscono per «rovinare i piccoli coltivatori, indotti a sopprimere le loro semine tradizionali». E, quindi, ecco l’attacco ai dirigenti politici africani, che «hanno portato alla rovina le loro società».
Le parole del Pontefice non sono una novità. Più volte Ratzinger ha stigmatizzato un certo modo d’intendere e di mettere in pratica la globalizzazione. E di questi temi parlerà all’interno della prossima enciclica sociale attesa per questa primavera.
L’Instrumentum laboris consegnato ieri è esplicito: «La crisi che colpisce oggi le istituzioni finanziarie riguarda anche il continente a più livelli: gli investimenti diretti stranieri rischiano di diminuire; le istituzioni finanziarie africane beneficeranno difficilmente di crediti dalle banche occidentali; l’aiuto allo sviluppo rischia di soffrirne; a causa della recessione sui mercati sviluppati la domanda di produzioni africane potrebbe diminuire».

Ad avallare la critica papale ci sono, impietosi, gli ultimi dati Ocse. Come ha ricordato ieri il settimanale Vita, sono proprio quei Paesi europei che hanno criticato il Papa per le sue affermazioni sui preservativi a essere responsabili «di aver fatto carta straccia di tutti gli impegni internazionali da qualche decennio in qua».

Sono gli stessi rappresentanti di quei governi che hanno fallito l’obiettivo fissato alla conferenza di Barcellona del 2002 di destinare agli aiuti internazionali lo 0,33 per cento del Pil entro il 2006. Di aver tradito l’impegno preso nel 2004 sugli Obiettivi del Millennio di innalzare la quota per la cooperazione allo sviluppo sino allo 0,7% del Pil entro il 2015. E, ancora, la promessa del G8 2005 di voler raddoppiare l’aiuto all’Africa. Secondo il Development Co-operation Report «i Paesi donatori avevano promesso di aumentare i loro finanziamenti di circa 50 miliardi di dollari l’anno entro il 2015 ma le proiezioni rispetto alla destinazione di questi fondi registrano una caduta complessiva di circa 30 miliardi. Tra il 2006 e il 2007 i Paesi di area Ocse hanno diminuito il loro impegno dell’8,5% a livello internazionale, con punte del 29,6% per il Regno Unito, del 29,8% del Giappone, del 16,4% della Francia e dell’11,2% del Belgio. Anche l’Italia perde terreno: meno 2,6% nel 2007.

© Copyright Il Riformista, 20 marzo 2009


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