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I lefebvriani

Ultimo Aggiornamento: 18/02/2013 22:40
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29/01/2009 18:02
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“La remissione della scomunica non è l’ultima parola”

Intervista a don Mauro Gagliardi, Ordinario di Teologia presso la “Regina Apostolorum”

di Antonio Gaspari

ROMA, giovedì, 29 gennaio 2009 (ZENIT.org).

Con i comunicati letti al termine dell’Udienza generale di questo mercoledì, Benedetto XVI sembra aver avviato a risoluzione la discussione sulle tesi negazioniste sostenute da uno dei quattro Vescovi della Fraternità sacerdotale San Pio X, cui il Santo Padre ha recentemente rimesso la scomunica del 1988.
È possibile, perciò, interrogarsi sul significato ecclesiale della decisione del Papa.
Ne abbiamo parlato con don Mauro Gagliardi, Ordinario di Teologia presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.

Prof. Gagliardi, sembra che la discussione sulle tesi negazioniste di mons. Williamson si stia avviando a felice conclusione.

Don Mauro: Me ne rallegro molto. In effetti, quella pur importante discussione correva il rischio di farci perdere di vista l’aspetto centrale della decisione del Santo Padre di rimettere la scomunica ai quattro Vescovi della Fraternità San Pio X.

In che cosa consiste secondo lei questo aspetto centrale?

Don Mauro: Direi che la decisione di Benedetto XVI ha un’importanza storica molto grande. Questo gesto di paterna misericordia del Papa è paragonabile ad altri già compiuti dai suoi predecessori. Penso, in particolare, alla reciproca abolizione delle scomuniche tra Roma e Costantinopoli, avvenuta ad opera di Paolo VI e di Atenagora I, il 7 dicembre 1965; o anche alla Dichiarazione congiunta a riguardo della dottrina della giustificazione, firmata dal Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e dalla Federazione Luterana Mondiale il 31 ottobre 1999.
Sebbene in questo secondo caso non si sia trattato di una revoca delle scomuniche, la Dichiarazione afferma: «Le condanne dottrinali del XVI secolo, nella misura in cui esse si riferiscono all’insegnamento della giustificazione, appaiono sotto una nuova luce: l’insegnamento delle Chiese luterane presentato in questa Dichiarazione non cade sotto le condanne del Concilio di Trento. Le condanne delle Confessioni luterane non colpiscono l’insegnamento della Chiesa cattolica romana così come esso è presentato in questa Dichiarazione» (n. 41).

Nei casi che lei cita, tuttavia, si è trattato di un atto concordato tra due parti, mentre la decisione di Benedetto XVI è unilaterale.

Don Mauro: È vero: lo ha affermato il Santo Padre in persona e lo ha riconosciuto la stessa Fraternità San Pio X, che pure aveva chiesto la remissione della scomunica. L’unilateralità della decisione del Papa mostra che, nel caso della Fraternità, non si tratta di un accordo tra Chiesa cattolica e ortodossa, o tra Chiesa cattolica e Comunità luterana.
I cosiddetti “lefebvriani” erano e sono di fede cattolica, anche se la loro posizione nella Chiesa deve essere ancora ben chiarita. Il carattere peculiare di questa remissione di scomunica è dovuto alla diversa posizione della Fraternità nei confronti della Chiesa cattolica rispetto alla posizione di ortodossi e protestanti.
Nonostante questa precisazione, resta la continuità, nella decisione di Benedetto XVI, sia con il Concilio Vaticano II, che con i pontificati dei suoi predecessori.

Non si può vedere in questo gesto misericordioso del Santo Padre un segno di discontinuità con il Concilio: il Vaticano II, infatti, è stato il primo e finora unico Concilio ecumenico che ha deciso di non anatematizzare alcuna dottrina erronea, né di scomunicare alcuno.

Per quanto riguarda il Pontefice che scomunicò i quattro Vescovi “lefebvriani”, bisogna ricordare che Giovanni Paolo II fece tutto il possibile per convincere mons. Lefebvre a non procedere alle ordinazioni e che l’allora Cardinal Ratzinger ebbe un ruolo centrale in quest’opera di dialogo. Il tempo porterà gli storici della Chiesa ad un giudizio sereno ed oggettivo sugli avvenimenti del 1988, tuttavia due punti mi sembrano difficilmente contestabili.

Il primo è che Giovanni Paolo II non poteva non procedere alla scomunica, che d’altro canto in questi casi è automatica (cf. CJC can. 1382). Il secondo è che lo stesso Pontefice il giorno dopo la scomunica istituì la Commissione Ecclesia Dei: segno della sua volontà di fare tutto il possibile per ristabilire al più presto la comunione visibile con questi fratelli separati.

Cosa si potrebbe dire a quei cattolici che si mostrano, se non contrari, almeno perplessi dinanzi alla remissione della scomunica?

Don Mauro: Direi innanzitutto che non devono temere conseguenze negative da un atto di vero amore e di paterna misericordia. Questa remissione di scomunica non mette in discussione né l’operato di Giovanni Paolo II, né i documenti del Concilio Vaticano II, anzi ne rappresenta l’esito naturale. In fondo, Benedetto XVI sin dall’inizio del suo pontificato aveva affermato di riconoscere come suo «impegno primario quello di lavorare senza risparmio di energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo».
E aveva aggiunto che «per questo non bastano le manifestazioni di buoni sentimenti. Occorrono gesti concreti che entrino negli animi e smuovano le coscienze, sollecitando ciascuno a quella conversione interiore che è il presupposto di ogni progresso sulla via dell’ecumenismo» (Primo messaggio al termine della concelebrazione eucaristica con i Cardinali elettori in Cappella sistina, 20 aprile 2005).

E, nella Lettera che accompagna il Summorum Pontificum, aveva precisato con coraggio: «Guardando al passato, alle divisioni che nel corso dei secoli hanno lacerato il Corpo di Cristo, si ha continuamente l’impressione che, in momenti critici in cui la divisione stava nascendo, non è stato fatto il sufficiente da parte dei responsabili della Chiesa per conservare o conquistare la riconciliazione e l’unità; si ha l’impressione che le omissioni nella Chiesa abbiano avuto una loro parte di colpa nel fatto che queste divisioni si siano potute consolidare. Questo sguardo al passato oggi ci impone un obbligo: fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente».
La decisione di Benedetto XVI esprime esattamente questa linea, dalla quale nessuno deve trarre motivi di preoccupazione, ma al contrario di intima gioia e soddisfazione, gli stessi sentimenti con cui furono accolti i gesti di Paolo VI e del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. Non mi risulta, infatti, che in quei casi si siano alzate voci preoccupate; perciò non ha senso che si alzino ora. È chiaro altresì che la remissione della scomunica non è l’ultima parola, perché c’è ancora un cammino da fare.

In che consiste il cammino cui lei fa riferimento?

Don Mauro: Non è possibile rispondere a questa domanda in modo completo e breve. Mi limito solo a dire che la Fraternità San Pio X può offrire alla Chiesa un contributo importante nell’applicazione dell’«ermeneutica della continuità» che deve applicarsi ai documenti del Vaticano II.
La Fraternità deve riconoscere l’autorità propria di questo concilio ecumenico.
Essa può contribuire a che il Concilio sia sempre ben compreso e ben applicato nella vita della Chiesa. I “lefebvriani” hanno una spiritualità ed un carisma che può costituire una ricchezza per la vita della Chiesa tutta. Ciò avverrà solo se tutti sapranno essere larghi nel proprio cuore (cf. 2Cor 6,11-13), come dimostra di essere Benedetto XVI.

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