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I lefebvriani

Ultimo Aggiornamento: 18/02/2013 22:40
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02/02/2013 21:58
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31/01/2013

«Roma ci condanna perché vogliamo salvaguardare la fede cattolica»

Il superiore lefebvriano Fellay celebra un'ordinazione sacerdotale a Parigi e torna a parlare dei rapporti con la Santa Sede dopo la lettera di Di Noia

ANDREA TORNIELLI
CITTÀ DEL VATICANO

«Morire per salvaguardare la fede cattolica, tutto perdere per salvaguardare la fede, ecco quello che noi vogliamo ed ecco perché Roma ci condanna...». Lo ha detto domenica scorsa, alla fine della sua omelia, il vescovo Bernard Fellay, superiore della Fraternità San Pio X. Fellay ha celebrato l'ordinazione sacerdotale di don Bertrand Lundi nella chiesa parigina di Saint-Nicolas du Chardonnet.



Negli accenni dell'omelia dedicati ai rapporti con la Santa Sede, il vescovo lefebvriano ha anche dichiarato: «Questa è la nostra storia, quella della Fraternità, quella del nostro fondatore. E questa storia, miei carissimi fratelli, continua. Direi finanche che, davanti a questa realtà sublime, parlare di accordi o meno con Roma, è una sciocchezza» («est une bagatelle»).


Parole pronunciate dopo aver ricordato l'azione di monsignor Lefebvre, al cui «carisma» aveva fatto cenno anche la lettera inviata prima di Natale allo stesso Fellay e ai preti della Fraternità dall'arcivescovo statunitense Augustin Di Noia, vicepresidente della pontificia commissione Ecclesia Dei, nel tentativo di sbloccare lo stallo nel dialogo tra la Santa Sede e il gruppo tradizionalista.


Ha provocato discussioni, in particolare su uno dei forum più vicini all'ala più intransigente della Fraternità, il fatto che il neo-sacerdote, proveniente da una famiglia legata da decenni al gruppo tradizionalista, indossasse una pianeta che portava ricamato uno stemma papale simile a quello di Benedetto XVI (anche se con la tiara e non con la mitria).

Altre polemiche sui forum tradizionalisti hanno riguardato un sacerdote dell'Istituto Buon Pastore, in comunione con Roma, che sarebbe stato invitato alla cerimonia ma al quale poi non sarebbe stato permesso di accedere al presbiterio per assistere all'ordinazione.

Le parole di Fellay non vanno sopravvalutate e sarebbe sbagliato trarre da esse conclusioni circa la risposta che il Vaticano attende alla proposta consegnata lo scorso 14 giugno. Ma non c'è dubbio che si tratti di espressioni comunque indicative.


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"CON IL CUORE SPEZZATO... SEMPRE CON TE!"
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L'impossibile "road map" della pace con i lefebvriani

Un esponente di punta del campo tradizionalista detta le condizioni per sanare lo scisma. Ne elenca quattro, ma tre di esse appaiono irrealizzabili. Le critiche di don Divo Barsotti al Concilio Vaticano II

di Sandro Magister

ROMA, 9 febbraio 2013 – In un suo nuovo libro dato alle stampe in questi giorni il professor Enrico Maria Radaelli – filosofo, teologo e discepolo prediletto di colui che è stato uno dei più grandi pensatori cattolici tradizionalisti del Novecento, lo svizzero Romano Amerio (1905-1997) – cita tre brani tratti dai diari inediti di don Divo Barsotti (1914-2006).

In essi questo geniale e stimato mistico e maestro spirituale – che nel 1971 fu chiamato a predicare gli esercizi di Quaresima al papa e alla curia romana – esprimeva delle forti critiche al Concilio Vaticano II.

Scriveva don Barsotti:

"Io sono perplesso nei confronti del Concilio: la pletora dei documenti, la loro lunghezza, spesso il loro linguaggio, mi fanno paura. Sono documenti che rendono testimonianza di una sicurezza tutta umana più che di una fermezza semplice di fede. Ma soprattutto mi indigna il comportamento dei teologi".

"Il Concilio e l'esercizio supremo del magistero è giustificato solo da una suprema necessità. La gravità paurosa della situazione presente della Chiesa non potrebbe derivare proprio dalla leggerezza di aver voluto provocare e tentare il Signore? Si è voluto forse costringere Dio a parlare quando non c'era questa suprema necessità? È forse così? Per giustificare un Concilio che ha preteso di rinnovare ogni cosa, bisognava affermare che tutto andava male, cosa che si fa continuamente, se non dall'episcopato, dai teologi".

"Nulla mi sembra più grave, contro la santità di Dio, della presunzione dei chierici che credono, con un orgoglio che è soltanto diabolico, di poter manipolare la verità, che pretendono di rinnovare la Chiesa e di salvare il mondo senza rinnovare se stessi. In tutta la storia della Chiesa nulla è paragonabile all'ultimo Concilio, nel quale l'episcopato cattolico ha creduto di poter rinnovare ogni cosa obbedendo soltanto al proprio orgoglio, senza impegno di santità, in una opposizione così aperta alla legge dell'evangelo che ci impone di credere come l'umanità di Cristo è stata strumento dell'onnipotenza dell'amore che salva, nella sua morte".

Ciò che impressiona di queste parole di don Barsotti sono due elementi.

Anzitutto tali critiche provengono da una persona di profonda visione teologale, con fama di santità, obbedientissima alla Chiesa.

E in secondo luogo le critiche non si rivolgono contro le deviazioni del dopoconcilio, ma contro il Concilio in sé.

Sono le stesse due impressioni che si ricavano dalla lettura del nuovo libro di Radaelli, che si intitola: "Il domani - terribile o radioso? - del dogma".

*

A giudizio di Radaelli, la crisi attuale della Chiesa non consegue da una errata applicazione del Concilio, ma da un peccato d'origine compiuto dal Concilio stesso.

Tale peccato d'origine sarebbe l'abbandono del linguaggio dogmatico – proprio di tutti i precedenti concili, con l'affermazione della verità e la condanna degli errori – e la sua sostituzione con un vago nuovo linguaggio "pastorale".

Va detto – e Radaelli lo fa notare – che anche tra gli studiosi di orientamento progressista si riconosce nel linguaggio pastorale una novità decisiva e qualificante dell'ultimo Concilio. È ciò che ha sostenuto di recente, ad esempio, il gesuita John O'Malley nel suo fortunato saggio "Che cosa è successo nel Vaticano II".

Ma mentre per O'Malley e i progressisti il nuovo linguaggio adottato dal Concilio è giudicato in una luce tutta positiva, per Radaelli, per Roberto de Mattei e per altri esponenti del pensiero tradizionalista – come già prima per Romano Amerio – il linguaggio pastorale è stigmatizzato come la radice di tutti i mali.

Secondo loro, infatti, il Concilio avrebbe preteso – abusivamente – che l'obbedienza dovuta all'insegnamento dogmatico della Chiesa valesse anche per il linguaggio pastorale, elevando così a indiscutibile "superdogma" affermazioni e argomentazioni prive di reale base dogmatica, sulle quali invece sarebbe legittimo e doveroso avanzare critiche e riserve.

Dai due linguaggi contrapposti, il dogmatico e il pastorale, Radaelli vede discendere e separarsi "quasi due Chiese".

Nella prima, quella dei tradizionalisti più coerenti, egli comprende anche i lefebvriani, pienamente "cattolici per dottrina e per rito" e "obbedienti al dogma", anche se disobbedienti al papa tanto da essere stati per 25 anni scomunicati. È la Chiesa che, proprio per la sua fedeltà al dogma, "rigetta il Vaticano II quale assise in totale rottura con la Tradizione".

Alla seconda Chiesa egli assegna tutti gli altri, cioè la quasi totalità dei vescovi, dei preti e dei fedeli, compreso l'attuale papa. È la Chiesa che ha rinunciato al linguaggio dogmatico e "si fa figlia in tutto del Vaticano II, proclamandolo – e ciò anche dal trono più alto, senza però mai portarne le prove – in totale continuità con la Chiesa preconciliare, se pur nell'ambito di una certa qual riforma".

Come vede Radaelli il risanamento di questa contrapposizione? A suo giudizio "non è il modello di Chiesa obbediente al dogma che deve tornare a sottomettersi al papa", ma "è piuttosto il modello obbediente al papa che deve tornare a sottomettersi al dogma".

In altre parole:

"Non è Ecône [cioè la comunità dei lefebvriani - ndr] che deve sottomettersi a Roma, ma Roma al Cielo: ogni difficoltà tra Ecône e Roma sarà risolta unicamente dopo il ritorno della Chiesa al linguaggio dogmatico suo proprio".

Perché questa meta sia raggiunta, Radaelli presuppone due cose:

- che Roma garantisca ai lefebvriani il diritto di celebrare la messa e i sacramenti unicamente nel rito di san Pio V;

- e che l'obbedienza richiesta al Vaticano II sia riportata nei limiti del suo linguaggio "falso-pastorale" e quindi passibile di critiche e riserve.

Ma prima dell'approdo – aggiunge Radaelli – dovranno essere esaudite anche altre due richieste:

- la prima, avanzata nel dicembre 2011 dal vescovo di Astana nel Kazakistan, Athanasius Schneider, è la pubblicazione da parte del papa di una sorta di nuovo "Sillabo", che colpisca con anatemi tutti "gli odierni errori";

- la seconda, già proposta dal teologo Brunero Gherardini al supremo magistero della Chiesa, è una "revisione dei documenti conciliari e magisteriali dell'ultimo mezzo secolo", da farsi "alla luce della Tradizione".

*

Poste così le cose, c'è quindi da pensare che la riconciliazione tra i lefebvriani e la Chiesa di Roma sia tutt'altro che facile e vicina. Come prova lo stallo dei negoziati tra le due parti, che dura ormai da molti mesi.

Ma anche con i tradizionalisti rimasti in comunione con la Chiesa – da Radaelli a de Mattei a Gherardini – il fossato si allarga. Non nascondono più la loro delusione per il pontificato di Benedetto XVI, sul quale inizialmente avevano riposto alcune speranze. A loro giudizio solo un deciso ritorno del magistero del papa e dei vescovi ai pronunciamenti dogmatici potrà riportare la Chiesa sulla retta via, con la conseguente correzione di tutti gli errori propagati dal linguaggio pastorale del Concilio.

Errori che Radaelli così elenca in una pagina del suo libro, definendoli "vere e proprie eresie":

"Ecclesiologia, collegialità, fonte unica della Rivelazione, ecumenismo, sincretismo, irenismo (specie verso protestantesimo, islamismo e giudaismo), modifica della 'dottrina della sostituzione' della Sinagoga con la Chiesa in 'dottrina delle due salvezze parallele', antropocentrismo, perdita dei novissimi (e del limbo e dell'inferno), della giusta teodicea (da cui molto ateismo come 'fuga da un Padre cattivo'), del senso del peccato e della grazia, dedogmatizzazione liturgica, aniconologia, sovvertimento della libertà religiosa, oltre all'ameriana 'dislocazione della divina Monotriade' con cui la libertà detronizza la verità".

Radaelli conclude il suo libro con un appello a "deporre le armi" rivolto sia ai "fratelli novatori" sia ai "fratelli tradizionisti" (come preferisce chiamarli, invece che "tradizionalisti").

Ma, stringi stringi, alla fine egli sembra identificare l'auspicata pacificazione con una vittoria a tutto campo dei lefebvriani e di quelli che come loro si ritengono gli ultimi e unici difensori del dogma.

__________


Il libro:

Enrico Maria Radaelli, "Il domani - terribile o radioso? - del dogma", Edizione Aurea Domus, 2013, pp. 278, euro 35,00.

Il libro si apre con una prefazione del filosofo inglese Roger Scruton e con tre commenti: di Mario Olivero, vescovo di Albenga-Imperia; del teologo Brunero Gherardini; e di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro.

Non è in vendita in tutte le librerie. Ma dovrà essere richiesto direttamente al sito web dell'autore.


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18/02/2013

Lefebvriani, l'ultimo treno


Una lettera dell'arcivescovo Müller invita la Fraternità a rispondere positivamente entro il 22 febbraio, festa della Cattedra di San Pietro

ANDREA TORNIELLI
CITTÀ DEL VATICANO

Lefebvriani ultimo atto e ultimo tentativo. La Santa Sede chiede alla Fraternità San Pio X di accettare l'accordo proposto da Roma entro il 22 febbraio, festa della Cattedra di San Pietro, e dunque prima che la rinuncia di Benedetto XVI diventi operativa.

Dopo la lettera «personale» e spiritualmente molto alta inviata lo scorso dicembre ai lefebvriani dall'arcivescovo statunitense Augustin Di Noia, una nuova missiva datata 8 gennaio ha raggiunto il superiore della Fraternità, il vescovo Bernard Fellay. Non sarebbe corretto presentarla come un vero e proprio «ultimatum», ma certo il documento - firmato dall'arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e Presidente della Pontificia commissione «Ecclesia Dei» - pone per la prima volta ai lefebvriani dei termini temporali. Che alla luce della clamorosa rinuncia di Benedetto XVI finiscono per assumere una particolare drammaticità.

L'esistenza della lettera è stata confermata dall'abbé Claude Barthe, interprete attento dei rapporti tra Roma e il tradizionalismo, in un'intervista apparsa su «Présent» lo scorso 16 febbraio: «Tutti sanno ormai che la Commissione Ecclesia Dei ha inviato una lettera al vescovo Fellay l’8 gennaio e che si aspetta una risposta da lui il 22 febbraio, il giorno della festa della Cattedra di San Pietro. In questo giorno, 22 febbraio, potrebbe essere datata la costituzione della prelatura San Pio X. Questo rappresenterebbe la vera conclusione del pontificato di Benedetto XVI: la riabilitazione di monsignor Lefebvre. Potete immaginare che rombo di tuono e anche, indirettamente, quale peso nell’orientamento degli eventi di marzo», cioè del conclave.

Secondo l'abbé Barthe, i giochi non sarebbero dunque chiusi. Anche se appare oggettivamente difficile che i lefebvriani accettino di sottoscrivere il «preambolo dottrinale» che la Santa Sede ha consegnato loro nel giugno scorso. Secondo il quotidiano cattolico francese «La Croix», in caso di mancata risposta entro il 22 febbraio, Roma si riserva il diritto di rivolgersi a ciascuno dei preti della Fraternità San Pio X, con un appello diretto, senza passare per il loro superiore Fellay. Invitandoli a rientrare singolarmente nella comunione con Roma. Le prime reazioni del clero lefebvriano sembrano però piuttosto compatte e allineate con il superiore.

Come si ricorderà, lo scorso giugno l'allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale William Levada, consegnò nelle mani di Fellay l'ultima versione del preambolo dottrinale accompagnata dalla proposta di sistemazione canonica che prevedeva di trasformare la Fraternità San Pio X in una Prelatura personale.

In quel documento si chiedeva ai lefebvriani di riconoscere che il magistero è l'autentico interprete della Tradizione, che il Concilio Vaticano II si accorda con la Tradizione, e che la messa della riforma liturgica post-conciliare promulgata da Paolo VI era non soltanto valida ma anche lecita. Queste condizioni sono state discusse dal capitolo generale della Fraternità del luglio 2012, senza che arrivasse alcuna risposta a Roma. Dichiarazioni e interviste dei responsabili lefebvriani hanno però fatto intendere che si trattava di condizioni difficilmente accettabili.

La rinuncia del Papa porterà a un'accelerazione dei tempi? Difficile dirlo. Di certo una congiuntura così favorevole, con un Pontefice così ben disposto, sarà difficilmente ripetibile in futuro. E in caso di rifiuto la Santa Sede, in questo caso il nuovo Papa, dovrà decidere il da farsi.


Papa Ratzi Superstar









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